cropped-unnamed-1-1-1.jpgdi Carlo Mazza Galanti

Il nove febbraio del 1813 Orazio Carlo, di tredici anni, decide di annotare, giorno per giorno e segretamente, le sue osservazioni intorno al comportamento sempre più indecifrabile del fratello maggiore. Quest’ultimo altri non sarebbe che Tardegardo Giacomo Leopardi, figlio di Monaldo e Adelaide, futuro autore del celeberrimo idillio (Alla luna) da cui è tratto il titolo della seconda, anomala e preziosa, prova letteraria di Michele Mari, oggi approdata a Einaudi dopo varie peregrinazioni editoriali (Longanesi 1990, Marsilio 1998, Cavallo di ferro 2012).

Finzione letteraria estremamente originale e coinvolgente, condotta con un gusto squisitamente antiquario e una palpabile tensione narrativa, Io venìa pien dangoscia a rimirarti è un omaggio al nume tutelare Leopardi e una vibrante esplorazione delle pulsioni più cupe e inquietanti dell’essere umano. Le stesse di cui l’arte si nutre, se è vero, come sostiene Tardegardo di fronte al fratello (è il 18 marzo e la notte precedente, al plenilunio, un creatura misteriosa ha sbranato un giovane garzone nella tenuta del conte) che « l’uomo è la propria paura; se potrà attraversarla, se potrà viaggiare dentro di essa come in un paese straniero, allora quella paura sarà più bella, ed ei potrà riguardarla come una favola, o una animata pittura » (p. 72).

Il motivo dell’inconciliabile conflitto tra istinto brutale e astrazione artistico-intellettuale, affrontato allegoricamente nel romanzo d’esordio (Di bestia in bestia), è qui riproposto come un raffinato falso filologico (genere non estraneo alla tradizione letteraria italiana e praticato dallo stesso Leopardi nell’Inno notturno e nel volgarizzamento del Martirio de santi Padri) e come un breve ma tesissimo “racconto del mistero” intorno alla figura del poeta innamorato della luna:

Poeta letteratissimo che come nessun altro sapeva trarre la poesia dalla filologia e dall’erudizione, e che anzi nei più impervî e scoraggianti apparati si scholia e nelle glosse più peregrine andava eroicamente e paradossalmente a cercarsi il palpito stesso della vita: l’osceno insomma, l’indicibile, l’immediato (M. Mari, I demoni e la pasta sfoglia, Leopardi. p. 366).

Dalla figura del poeta fanciullo ridotta, nella vulgata scolastica, a banale silhouette, Mari è stato capace di trarre un’immagine “oscenamente” umana, una narrazione accattivante e un’interpretazione critico-fantastica intorno alle pieghe più profonde della filosofia e della poetica dello scrittore di Recanati.

Immaginare un Leopardi in odore di licantropia, osservarlo attraverso gli occhi solidali ma inevitabilmente estranei di un fratello minore colmo di ammirazione e di inquieta apprensione, ricostruire con dettagliata acribia la lingua dell’epoca, il clima culturale e famigliare della casa del grande scrittore (le ridicole arguzie di Monaldo e il suo compiacimento per il coltissimo figlio, il bigottismo opprimente della madre Adelaide) e ripercorrere con mano sicura i suoi manoscritti e i suoi studi alla ricerca di indizi capaci di conferire plausibilità all’invenzione fantastica : non possiamo non riconoscere, nella prefetta riuscita dell’operazione, la coerenza di un disegno che, quasi borgesianamente, sembra precedere il suo concepimento. L’efficacia dell’illusione romanzesca è propiziata dal fatto che Mari, fino alla fine, attraverso un regia dei tempi e delle coincidenze dalla precisione hitchcockiana, ci fa credere alla licantropia del protagonista senza mai darcene conferma, così lasciando all’ossessione di Tardegardo tutta la sua fantasmatica ambivalenza. L’idea, anch’essa felicemente romanzesca, di inserire nella genealogia di Leopardi un oscuro antenato di nome Sigismondo, perseguitato dall’inquisizione, permette al narratore di contrappuntare i sospetti di Orazio Carlo con le indagini del fratello maggiore intorno al misterioso avo e di immergere il presente del poeta nello spessore della storia e nel quadro suggestivo della maledizione famigliare. Con puntigliosa e maliziosa coerenza, Mari ha infine scelto di ambientare il mistero licantropico del giovane Leopardi negli stessi mesi in cui lo scrittore prepara il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, come a lasciar indovinare, dietro alla postura illuministica delle sue ricerche, una più ambigua e pudica fascinazione. Tardegardo è intento a ricercare tra le « fole » dell’antichità pagana quelle « relazioni poetiche » capaci di indicare « un Vero secreto ed ascoso per gelosìa di Natura, e capace di destare le più dolci emozioni come i raccapricci più orrendi in virtù della sua lunghezza » (p. 20). Dove con “lunghezza del Vero” il poeta intende « il grado della sua facoltà di congiungere le cose più disparate e lontane » : secondo una complessa gerarchia gnoseologica alla fine della quale si troverà l’arte: « il bello ( : e dilettoso : o spaventoso) » (p. 19).

Questo « singolarissimo capriccio » (come ebbe a definirlo Manganelli – Il Messaggero, 26 marzo 1990) è dunque un saggio, travestito da diario, intorno alla “lunghezza” poetica del mito : in questo caso un mitologema proteiforme e ramificato come quello del lupo mannaro, analizzato e percorso nelle sue molteplici manifestazioni storiche e culturali, nonché nelle sue connessioni con l’altrettanto favolosa immagine della luna, dall’intelligenza filologica di Tardegardo. Ma non solo : esso stesso favoloso, esso stesso “spaventosamente dilettoso”, il libro di Mari allunga la catena delle relazioni poetiche dall’immaginario leopardiano a quello personale dell’autore. La bestialità, la nostalgia, la ricerca filosofico-letteraria, la giovinezza tormentata, sono coordinate tematiche di quell’altra, più segreta, mitografia che attraversa e sostanzia l’intera produzione di Michele Mari : la storia che l’autore ha raccontato, in quasi trent’anni di scrittura, sulla propria persona e sulle proprie ossessioni. Se la partecipazione emotiva dell’autore, pudicamente nascosto dietro la penna di Orazio, alle angosce metafisiche del suo personaggio real-fittizio è così palpabile e parte integrante della statura letteraria di questo piccolo libro, è perché, dietro la maschera di Leopardi, la figura “in carne ed ossa” di Michelino, il protagonista dei romanzi e dei racconti a venire, si agita e traspare. Simmetricamente, dietro e dentro la figura di Michelino sarà (anche) l’immagine di Tardegardo, il “Giacomino” fraterno e solidale, a decidere del suo destino di scrittore e a chiudere il cerchio che sempre, in Mari, unisce la letteratura alla vita.

[Immagine: http://www.thehunchblog.com/wp-content/uploads/2015/04/ladyhawke-4.jpg (gs)]

4 thoughts on “Io venìa pien d’angoscia a rimirarti di Michele Mari

  1. Questo breve romanzo di Mari parte da un’idea discutibile, sgradevole, bizzarra e molto interessante, ma mira troppo alto e manca il bersaglio. Per realizzarla a pieno ci sarebbe voluta un’erudizione a dieci decimi, capace di ricreare perfettamente l’atmosfera antiquaria e un po’ pedante in cui i due fratelli protagonisti si trovano a vivere, in modo da rendere credibile proprio grazie al sovraccarico di dettagli peregrini ma rigorosamente esatti la svolta fantasmagorica su cui è imperniato il racconto. Invece praticamente da subito si parte con uno svarione micidiale: fra le letture che l’io narrante compie nella biblioteca paterna (e il signor Conte padre è cattolico osservantissimo anzi bigotto) c’è anche, citato fra gli altri autori senza distinzione alcuna, il Diodati e cioè un protestante che risulta all’Indice ancora nel 1966! Peggio ancora più avanti, quando fra le sue spiritosaggini insulse il Conte padre cita il Detto del Gatto Lupesco, testo all’epoca assolutamente inedito e rimasto ignoto fino al 1882 quando T. Casini ne dette le prime notizie; e potremmo magari fare qualche altro esempio, ma lasciamo stare. Si dirà che queste sono minuzie: e invece no, non in un libro come questo che si gioca tutto su una difficile sfida alla sospensione dell’incredulità e che per vincerla dovrebbe risultare impeccabile anche nei dettagli minimi. Mari di mestiere insegna letteratura italiana all’università: che possa essersi lasciato sfuggire dei farfalloni come questi è sconcertante.

  2. Non ho letto il romanzo di Mari (anzi, son capitato qui proprio cercandone notizie), ma giusto per puntualizzare: è vero che Monaldo era un cattolico reazionario, ma la sua biblioteca conteneva effettivamente molti testi messi all’indice, per i quali egli aveva ottenuto una speciale dispensa papale, che lo autorizzava a possederli e leggerli. Ovviamente, i libri erano tenuti chiusi in una sezione della biblioteca, di cui sono lui aveva le chiavi, ma erano a disposizione dei figli su richiesta

  3. @ Pasquandrea: osservazione in sé giusta, però avevo fatto notare che l’io narrante cita quell’opera *senza distinzione alcuna*, cioè come se si trattasse di un titolo fra i tanti e non di un volume proibito (e si aggiunga che l’io narrante è ancora un ragazzetto in fase preadolescenziale, cioè non si trova certamente in quell’età in cui un padre integralista ed autoritario concederebbe il permesso di consultare letteratura sovversiva). Insisto nel credere che Mari abbia piazzato lì quel titolo senza rendersi conto di cosa si trattasse.

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