cropped-ilovegreeninsp_light_sentence.jpgdi Enrico Donaggio

[Esce oggi per Feltrinelli Direi di no. Desideri di migliori libertà di Enrico Donaggio. «Siamo diventati incapaci di un gesto elementare: dire di no», si legge nel risvolto di copertina. «Come è stato possibile fino a ieri dire di no? In quale misura potrebbe tornare a esserlo? Quanta radicalità ci è concesso esprimere nel nostro agire quotidiano? Di quanta integrità siamo ancora capaci?». Presentiamo le prime pagine del libro]

Compagni per caso

Si scrive sempre intorno a delle ossessioni. In equilibrio sul margine, quando è concesso uno stato di grazia. O precipitandoci dentro, nel resto dei casi. Una volta sul fondo, ci si arrangia con la fortuna, le armi e l’intelligenza a disposizione. Ogni diversità tra i generi di un testo – saggio, fiction, autobiografia – risulta irrilevante da quella prospettiva. E ha poco senso pure per chi legge. Si accumula carta per spegnere un incendio. Per non bruciare soli tra privatissime fiamme.

Questo libro non fa eccezione. Nasce dal bisogno di verificare alcuni punti fermi della mia linea di condotta. Chiodi fissi che hanno finora tenuto abbastanza bene insieme coerenza e libertà, regalando soddisfazioni e qualche momento felice. Ma che di recente si stanno trasformando in sostanze tossiche per la vita. Facendomi sentire, in svariati contesti, uno degli ultimi a pensare, pretendere o sperare certe cose. Ovvietà che sino a poco tempo fa, per capirsi in fretta e a occhi chiusi, si sarebbero dette di sinistra. E che oggi, con l’estinzione di questo modo di stare al mondo, risultano quasi solo stranezze fuori luogo e tempo massimo. Roba inutile e nociva, se le si resta ancora troppo attaccati.

Nulla a che vedere con squalifiche o messe al bando. Semmai un senso di appartenenza postuma. Non cercato e imprevisto per uno che mai si è ritenuto particolarmente socialista o comunista, nemmeno anarchico o radicale. Combinato allo stupore per la diserzione in massa di chi, sino a ieri, tale invece si proclamava. Per la miseria delle alternative a cui ha aderito e l’ignoranza di queste posizioni da parte dei più giovani. Un sentimento che la crisi di questi anni – scontata quella biografica, con l’ingresso nella mezza età; più interessante quella d’epoca, con il capitale che riprende a trattare il nostro lembo privilegiato d’Occidente come una qualsiasi delle sue colonie – mi ha imposto di precisare meglio.

Alla sua base c’è anzitutto l’incredulità per il fatto che un’idea di uomo sta scomparendo dalla faccia della terra. La ritrosia ad accettare l’evidenza che una costellazione di attese sul nostro destino – libertà, dignità, giustizia, uguaglianza – abbia subito una disfatta apparentemente senza appello. Una reazione giustificabile soltanto come il lusso di un’anima bella. Insostenibile da ogni altra angolatura, perché stretta in mezzo a due fuochi. Un passato – culturale, politico, sociale – non facile da difendere e che in larga misura non è mio: condizione che toglie fiato ai lamenti della nostalgia. E un presente che, proprio alla luce di quel tempo andato, sembra sempre più sterile e triste. Per via di un’impotenza generale e di una disponibilità ad accontentarsi di poco, se non di niente. Di una fatica a mettere al mondo qualcosa di nuovo, che mal si traveste da cinismo o disinvoltura, per non mostrare il volto più sincero della rabbia o della vergogna. Del futuro, va da sé, pare non essere più questione: scomparso dai radar, per i dominati; cattivo prolungamento del presente con altri mezzi, per i loro signori.

Si tratta, me ne rendo conto, di un atteggiamento nutrito da aspettative incongrue nei riguardi della vita e della storia. Come dalla presunzione di reputarsi ancora migliori del proprio presente e fondamentalmente soli in questo stato d’animo. Una posa storpiata dunque – ecco il punto critico – da ignoranza e spregio di possibili compagni. Che, riconoscendosi forse altrettanto ultimi, sono sempre stati qui intorno. A un tiro di schermo o di voce, preda di analoghe passioni.

Anche per loro, oltre che per vivisezionare me stesso come animale critico – finito, come tocca almeno una volta a generazione, in un buco tra due epoche – ho scritto queste pagine. Non per smerciare l’ennesima utopia, luminosa o spenta come stella. Né per certificare isolata distinzione. Che si dimostra con silenzi, rifiuti, entrate e uscite di scena al momento giusto. Non certo con un libro. Ma per una resa dei conti. Per sottoporre cioè a riscontro, a contatto con l’atmosfera di questi infiniti anni zero, alcuni degli affetti e dei codici basilari trasmessi in eredità da una tribù di antenati sconfitti. Non lungo vincoli di sangue o di adesione volontaria, ma attraverso un’insolita forma di affinità elettiva che la crisi di questi anni sta riattivando in forme singolari, in scala uno a uno o per piccoli gruppi.

Un dialetto comune da purificare e ritradurre. Perse verità da scandagliare e proteggere. Un lascito di memorie e visioni che, in modo enigmatico, addirittura miracoloso data la violenza delle forze contrarie, orienta e lega comunque tra loro individualità sbandate. Pur risuonando alieno e cavo – preistorico e indecifrabile come un geroglifico, stupefacente e puerile come una favola – ai nati, per l’anagrafe e l’ideologia, dopo il 1989. Tra i destinatari primi di questa autopsia su corpo vivo.

Una generazione che si ritiene, a torto, scippata dell’avvenire. Perché, come in un cattivo miraggio, interpreta l’eclisse del modo di ipotecare il tempo che ha tenuto banco per qualche decennio, come lo spegnimento di ogni orizzonte. Perché malgrado la precarietà che la devasta, fatica a immaginare e desiderare un futuro diverso da quello piccolo borghese.

Ma ha poco senso convincere chi si sente vittima innocente di un complotto universale che non c’è quasi nulla di nuovo oggi sotto il sole. Nemmeno nella sciagura di cui si crede bersaglio esclusivo. O dirgli che non ritrovarsi prenotato il destino dei padri, visto come sono finite le cose, non è disgrazia assoluta.

Meglio ricordare che i depredati di ogni avvenire si sono sempre presi in mano le chiavi del presente senza chiedere permesso a nessuno. Non attendendo futuri e redditi minimi garantiti, congiunture economiche più favorevoli, buoni o cattivi maestri, genitori friendly come fratelli maggiori o compagni di classe. Né procedendo secondo la linea retta che unisce oggi e domani. Ma scartando invece in modo creativo attraverso lo strato del tempo in cui, anche nei momenti peggiori, si serba la speranza di migliori libertà. Il passato e un certo stile nel tenerne vivi e taglienti fuoco e memoria, spiazzamenti e contraddizioni, rimandi e giochi di sponda. Rivisitandolo come una città sinistrata. Dalle cui macerie, malgrado la catastrofe, continuano a giungere segnali che ci riguardano. Quelli che questo libro ha provato in parte a captare.

Tra le rovine trafficano infatti ancora sbirri e criminali del pensiero, architetti di grandi evasioni e tremende utopie, persone per bene, missionari e pastori d’anime, poeti ammazzati, innocenti senza sepoltura. In mezzo a distese di figure anonime che, in silenzio o sottovoce, aspettano qualcuno o qualcosa, un mondo per loro. Un regno che brucia di passione, intelligenza, energia. Di ansia di riscatto e giustizia, conservate dentro rabbia purissima. Archeologia e memoria del futuro: quanto resta, oggi, dei nostri desideri di migliori libertà, prima che si desse il presente che ha poi avuto luogo.

Scarti del tempo da riportare in scena come si deve, in modo che possano dire ancora la loro e darci una botta di vita. Walter Benjamin definiva questa attività filosofia della storia. Il mestiere di “riattizzare nel passato la scintilla della speranza”, quando ci si sente sepolti da un deserto di cenere. Perché è vero, chi ha compagni non morirà. Ma occorre anche non dimenticare “che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”.

Svelto e senza note, questo libro consiste di variazioni, insistenze, improvvisazioni e affondi. Movimenti relativamente autonomi e definiti – a volte legati tra loro da fili resistenti, altre da trame più sconnesse – che rinunciano deliberatamente alla consequenzialità rigorosa di chi svolge un esercizio dall’inizio alla fine. Alla solidità dell’architettura argomentativa, come alla pulizia della definizione storica e concettuale. Non per incapacità né per ansia da prestazione, anche se si può benissimo credere il contrario. Ma per il rifiuto, sin dal piano dello stile e della forma, di un’illusione di consolante compiutezza. I conti, in materie del genere, non possono tornare. Nemmeno sulla carta. Si tratta sempre e soltanto di buone occasioni per cambiare idea e sporcarsi le mani.

Il tema principale di queste pagine ha ossessionato l’esistenza quotidiana e concreta di chi, a lungo o per poco, si è considerato di sinistra. Nell’accezione sfaccettata, ma condivisa quanto basta, che il fenomeno ha assunto tra la presa della Bastiglia e la caduta del muro di Berlino. Dalla nascita, dunque, alla morte.

Un arsenale di armi critiche – soggettività, idee, visioni – oggi apparentemente inservibili, impresentabili o disinnescate. Quelle di fabbricazione comunista, per l’implosione dell’universo sovietico e il narcisismo delle piccole differenze che ha sfigurato ogni rifondazione occidentale. Quelle di matrice socialdemocratica, per l’appoggio incondizionato, in Europa e nel globo, all’integralismo neoliberista. Quelle di taglio anarchico o radicale, perché assimilate e messe a profitto dal nuovo spirito del capitalismo.

Il dittico intorno a cui il libro ragiona è “armi della critica” e/o “critica delle armi”. Dove il secondo corno del dilemma non mette più in risalto, come nella tradizione, la diversa potenza di fuoco dei due congegni (pur sapendo che “anche la teoria diventa una forza materiale non appena si impadronisce delle masse”). Ma l’evidenza che una verifica radicale dello strumentario critico con cui si affronta il presente, anche solo per difendersene, è divenuta oggi inderogabile. A meno che non si preferisca continuare a farlo a mani nude, con scarsissime possibilità di riportare a casa pelle e cervello.

[Immagine: Bruce Nauman, No no (gm).]

8 thoughts on “Direi di no

  1. Il tema è capitale, quello su cui oggi dovrebbe pensare chi è di sinistra. Mi piace un sacco lo stile, intenso, personale e secco. Per una volta almeno, senza la solita spocchia, arrogante o funerea, di chi in Italia scrive su questi argomenti. Lo leggerò!

  2. E’ un libro molto importante, ironico, ma anche impietoso, e appassionato, su cosa possa significare “essere contro” in una società come la nostra, e sulla contraddizioni che ad ogni passo incontriamo nella nostra volontà di essere “consapevoli” e “critiche” persone di sinistra. Lettura caldamente consigliata.

  3. Certo dopo decenni di no, ci piacerebbe sentir parlare anche di potenza affermativa. Come si fa a dire di sì? Ad ipotizzare scenari altri che siano possibili disvelamenti di alternative invece di negazioni dell’esistente? In che modo dare ascolto a ciò che vive nella piega, che echeggia nel sottobosco? Tutta questa fanfara dell’arrembaggio è, francamente, destrorsa.

  4. Bene, mi dite che questo libro ha uno « stile, intenso, personale e secco [ed è] senza la solita spocchia, arrogante o funerea, di chi in Italia scrive su questi [?]argomenti» (Biolcati), è « molto importante, ironico, ma anche impietoso, e appassionato» (Inglese) e magari ipotizza «scenari altri che siano possibili disvelamenti di alternative invece di negazioni dell’esistente» (Veronika), ma qualcuno, se l’ha letto, o magari l’autore stesso, può accennare al contenuto, fare il copia/incolla di una pagina più significativa di quella qui pubblicata? O bisogna comprarlo e leggerlo a scatola chiusa?

  5. Non si capisce perché mai la caduta del muro di Berlino abbia significato la “morte” della sinistra (e mi ricorda la famigerata “fine della storia” di qualche anno fa). Tutt’altro, fuori di ogni polemica sul “socialismo reale” dell’Est, direi. Forse, l’emarginazione anzi quasi scomparsa dei vecchi “partiti socialisti” europei (prima fra tutti quello italiano; probabilmente quello del sig. Hollande fra non molto, ecc.), e la grave legittima interrogazione sulla nuova democrazia di opinione/emozione/immagine sarebbero indicatori ben più pertinenti? A non dire del “democratico” voto per il Brexit, troppo recente per ragionarci.
    Comunque, concordo con E. Abate, le pagine qui pubblicate non mi sembrano né intense né originali né anche sufficienti a darci un’idea di un libro così tanto “molto importante, ironico, ma anche impietoso, e appassionato” a quanto pare…

  6. Cercherò di leggere il libro. Da queste poche righe non si possono formulare giudizi.
    Solo due osservazioni, però, caro Enrico: dire che la sinistra è morta con la caduta del muro di Berlino mi sembra una tesi un po’ forte, è come dire che c’è stata una “vera” sinistra solo finché c’è stato il socialismo reale; i ragazzi nati dopo il 1989 che ho conosciuto io non mi sembrano affatto rassegnati e lamentosi, ma molto agguerriti e disposti a criticare e lottare.

  7. Confesso di non capire il senso di dibatitti di questo genere, basati letteralmente sul nulla. Mi pare che servano solo a mettere in mostra chi fa i commenti, usando come pretesto le cose anche molto interessanti che questo sito pubblica e per cui lo ringrazio . Io ho letto le pagine, mi sono piaciute, mi sono comprato il libro che mi è piaciuto ancora di più. Ma non è questa la cosa importante. Posso benissimo immaginare che a un sacco di gente il libro non piacerà. Ma chi lo,leggerà avrà almeno il piacere di scoprire che non una sola delle parole critiche scritte finora ha una attinenza con il contenuto reale del libro. Strana cosa davvero i cosiddetti dibattiti culturali su internet!

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