cropped-7df2038b36af996dbf41e57675e12ae7.jpgdi Luca Mirarchi

Sarebbe quasi rassicurante, per certi versi, poter ritornare a parlare di American Psycho, a venticinque anni dall’uscita, come se si trattasse dell’anniversario di un libro controverso di enorme successo che ha saputo fotografare, come forse nessun altro, New York e l’America del turbocapitalismo sul finire degli anni Ottanta. Certo, tutto questo è vero, ma si tratterebbe dell’ennesimo inquadramento riduttivo di un romanzo che continua a polarizzare senza compromessi i lettori e la critica: lo si ama o lo si odia, quasi sempre lo si travisa. Perché avviene? Cercheremo di rispondere più avanti. Quello che conta, per adesso, è sciogliere le riserve sulla distanza temporale dell’opera rispetto al nostro tempo, una distanza che si assottiglia progressivamente più ci si addentra nella (ri)lettura di quelle pagine che suscitarono riprovazione e strepiti all’inizio degli anni Novanta, e che suonano ancora oggi come una tragica allegoria del mondo a venire.

Tutti i romanzi di Bret Easton Ellis hanno un’architettura narrativa imperniata sul personaggio principale/voce narrante. Quando Ellis riesce a trovare quella voce, il romanzo prende vita e assume la forma di una rigorosa e dettagliata raffigurazione della realtà — nel modo in cui viene percepita da quel dato protagonista. In AP si tratta del più celebre antieroe che la sua immaginazione abbia prodotto, Patrick Bateman, una delle figure più incisive nella letteratura americana degli ultimi trent’anni.

Patrick Bateman[1], di giorno, è un bel ragazzo di successo che lavora a Wall Street, ossessionato dai capi firmati e da tutti i dettami consolidati dell’upper class; di notte, si trasforma nel più spietato dei serial killer. Il germe dell’idea nacque in Ellis dalla frequentazione di quegli yuppie — e del jet set culturale di Manhattan — che avevano trovato un’incarnazione filmica nell’archetipico Gordon Gekko/Michael Douglas di Wall Street (1987), diretto da Oliver Stone. Ellis sublimò il senso di alienazione e di rabbia verso un ambiente che lo attraeva — e che al tempo stesso detestava — facendo di Bateman un emblema della violenza più cieca e insondabile — come del resto cieche e insondabili appaiono le fluttuazioni dei titoli di borsa che indirizzano i nostri destini.

Era il tempo di Ronald Reagan e di Sylvester Stallone/Rocky Balboa che mettevano al tappeto l’Unione Sovietica, erano gli eccessivi e luccicanti anni Ottanta, una decade irripetibile, una decade che forse non è mai davvero finita. Ed è certamente singolare, alla luce degli sviluppi più recenti delle Presidenziali negli Stati Uniti, notare come, da una cernita delle occorrenze dei nomi di personaggi celebri elencati nel libro — una delle marche stilistiche dell’autore — il nome di Reagan ricorra solo quattro volte, mentre quello di un tale Donald Trump, imprenditore spregiudicato e forte presenza mediatica, venga citato addirittura in trenta passaggi del libro. Trump era infatti uno degli idoli di Bateman, che lo vedeva come un modello e considerava il suo libro best seller, The art of the Deal, un vademecum per la riuscita sociale[2]. Oggi Mr Trump è il candidato ufficiale dei Repubblicani alla Casa Bianca, e il suo slogan principale, Make America great again, è diventato popolarissimo fra gli elettori. Già, ma a quale America si riferisce? Esiste un’epoca immune da eterni ritorni? Il Black Monday di Wall Street nel 1987 ha forse prodotto anticorpi per scongiurare i processi che hanno portato alla bancarotta di Lehman Brothers, nel settembre 2008?

Gli anni Ottanta continuano a dettare le linee. Patrick Bateman, icona del male assoluto e dell’inconsistenza della pop culture, ha continuato a cambiare pelle e risorgere. Ha assunto il volto e il fisico scolpito di Christian Bale nella trasposizione cinematografica di Mary Harron (2000); ha debuttato a Broadway nella primavera 2016 in versione musical per la regia di Rupert Goold[3]; nel 2013 il canale americano FX ha opzionato i diritti per trarne una serie TV. E si potrebbe continuare a lungo. Aggiungiamo soltanto, per ampliare il raggio, un romanzo di Mabanckou Alain del 2003, African Psycho, ripubblicato in Italia da 66th and 2nd lo scorso anno.

Perché un libro così estremo e respingente, quasi del tutto privo di trama, non facile da leggere e in molte parti prolisso (soprattutto nelle sue elencazioni ossessive di brand e celebrity), non è ancora scomparso dall’orizzonte dell’immaginario condiviso?

Di sicuro non basta come spiegazione il fascino — in parte morboso — suscitato dal dilemma insolubile che accompagna chiunque si sia avvicinato a quel testo: le atrocità commesse da Bateman avvengono sul serio, o sono solo il frutto della sua mente psicotica? Da Kafka a Poe, da Roth a Svevo, non si tratta certo del primo narratore inattendibile nella storia della letteratura. E non è sufficiente nemmeno rifugiarsi nel dilemma morale: se i crimini commessi dal personaggio fossero solo immaginari, quanto sarebbe più tollerabile l’impunità del protagonista, visto che ogni tortura è oscenamente rappresentata in ogni minimo particolare? A livello percettivo, se ci si riflette, cambia poco o niente. Però si sta parlando pur sempre di un’infrazione delle convenzioni: la violazione dell’idea di giustizia che non viene redenta nel meritato castigo.

Queste considerazioni, in ogni caso, un effetto diretto l’hanno avuto: la stroncatura quasi unanime da parte della critica (soprattutto americana: il New York Times, prima della sua uscita, intitolò così un articolo: Non comprate questo libro), e la rescissione del contratto che legava Ellis alla Simon & Schuster (AP uscì poi per la Knopf direttamente in edizione economica). Si scatenarono accesi dibattiti televisivi, le femministe della National Organization of Women organizzarono manifestazioni di protesta, il libro fu vietato ai minori in paesi come la Germania e l’Australia.

Le ricadute in termini numerici? Milioni di copie vendute. Gli effetti su Ellis? La definitiva scomparsa dell’autore reale schiacciato dall’immagine che arrivava al pubblico filtrata dai media; l’identificazione dello scrittore con la sua creazione letteraria per quella che risultò essere una fetta non irrilevante di lettori: alcuni di loro gli fecero recapitare minacce di morte. Dopo la fatwa scagliata contro Rushdie per i Versi satanici, nell’America repubblicana di Bush senior, Bret Easton Ellis si ritrovò ostaggio di se stesso e vittima della deflagrazione extra-letteraria delle sue ossessioni[4].

Verrebbe a questo punto da credere che la causa di una larga parte del successo del romanzo vada ricercata proprio nel suo travisamento, nel fermarsi alla superficialità letterale del plot senza indagare la profondità del sottotesto, compiendo così un processo di classificazione che riduce American Psycho ad uno dei capisaldi della Transgressive fiction (secondo la definizione di Michael Silverblatt, critico letterario del Los Angeles Times), così come è avvenuto per due autori coevi — e non di rado fraintesi e sottovalutati — quali Chuck Palahniuk e Irvine Welsh. Questa interpretazione “letterale” si limita ad attenersi allo schema piatto ed elencativo portato all’estremo nell’opera, che riflette la definitiva sostituzione dell’umano a vantaggio di personaggi-zombie ricchi, belli e infelici — intercambiabili l’uno con l’altro — che fagocitano la mancanza di senso e con il consumo compulsivo di status symbol.

Perfino gli strumenti di tortura in dotazione al nostro antieroe non lesinano nei dettagli: vanno dalle asce ai pugnali, dal trapano alla sparachiodi; le esecuzioni hanno come vittime barboni, gay, bambini, animali e soprattutto donne, in genere prostitute, che vengono prima stuprate, seviziate e talvolta consumate a posteriori — tutte vittime che sono, ça va sans dire, del tutto innocenti.

Una rappresentazione così ostentata e gratuita della violenza ha dunque lasciato in dote al libro un pubblico in cerca di emozioni estreme, un pubblico che è stato ulteriormente invogliato alla lettura, come detto sopra, da stroncature che si concentravano quasi tutte, a priori, sui contenuti, lasciando quasi del tutto in ombra le qualità formali della scrittura di Ellis.

Per rendere più esplicito questo “cortocircuito” interpretativo, non va inoltre dimenticato che in quel fatidico 1991, “l’anno dei serial killer” (quando venne arrestato Jeffrey Dahmer, il Cannibale di Milwaukee), alla cerimonia degli Oscar trionfava Il silenzio degli innocenti, un thriller dove si assiste ad una pur breve scena di cannibalismo in primo piano — tratto a sua volta dall’omonimo best seller di Thomas Harris, un romanzo che certo non lesinava in quanto a dettagli raccapriccianti.

Come ha dichiarato lo stesso Ellis in un’intervista ad avclub.com, nel 1999[5], i libri di Dennis Cooper non sono meno espliciti di AP; La fine di Alice, di A. M. Homes, non provoca uno shock minore, per non dire di alcuni romanzi di James Ellroy. Infatti non è questo il punto. Ellroy è ancora classificabile come letteratura di genere noir; Dennis Cooper viene “normalizzato” confinandolo nel ghetto della gay literature; A. M. Homes è parzialmente tutelata, per una sorta di sessismo al contrario, dal fatto di essere una donna che si spinge così in là nel raffigurare situazioni insostenibili. American Psycho è più difficile da inquadrare in una categoria, American Psycho è letteratura di “serie A” che pesca a piene mani dai pulp magazine e dagli slasher movie — da generi di puro consumo, in altri termini — dato che è il corpo del consumismo a venire davvero dissezionato nel romanzo.

American Psycho, in altre parole, è un romanzo orizzontale, e in questo risiede forse la sua massima valenza predittiva — in relazione alla società occidentale per come si è riconfigurata al presente, dopo il dilagare della Rivoluzione informatica. Se Bateman e i suoi colleghi passeggiavano per la Quinta Avenue ascoltando un walkman della Sony, noleggiavano videocassette e comunicavano attraverso i primi ingombranti telefoni cellulari, la diffusione capillare di internet ha reso ogni supporto materico obsoleto, ha smaterializzato in sequenze binarie il senso del possesso, ci ha reso appendici di device che garantiscono il nostro imbozzolamento nella rete, ventiquattr’ore al giorno. La comunicazione via internet è prettamente autoreferenziale, lo schermo è un mare sconfinato di informazioni da far aderire a concetti predigeriti, gli approfondimenti sono merce rara, il discernimento critico sta diventando un ricordo sbiadito.

Se prendete in mano l’indice di American Psycho e lo confrontate con la vostra bacheca su Facebook — se siete parte del miliardo e mezzo di utenti su scala globale — potreste constatare che in sostanza — salvo per qualche dettaglio di “prammatica da serial killer” — coincidono. Potreste passare dal dolore per la foto di morte di un bambino siriano adagiato sulla spiaggia al giubilo per la vittoria della squadra preferita di calcio, dalla commozione per la scomparsa di David Bowie all’esposizione delle portate sul vostro tavolo nel nuovo agriturismo bio — il tutto, ben inteso, senza soluzione di continuità.

Proviamo a scorrere l’indice di AP prendendo una sequenza di capitoli a caso: Un altro nuovo ristorante; Prova a cucinare e mangiare una ragazza; Porto una Uzi in palestra; Chase, Manhattan; Huey Lewis and the News: un ristorante fra i tanti altri intercambiabili; Bateman che tenta di usare i resti di una vittima come ingredienti di una ricetta e si ritrova a piangere (anche) perché non aveva mai «cucinato niente prima d’ora»; l’arma automatica Uzi, «un simbolo d’ordine», in una palestra, il santuario del corpo perfetto; la sede della Chase, dove la schizofrenia è resa dai balzi continui fra prima e terza persona singolare; Huey Lewis and the News, uno dei gruppi simbolo del pop anni ’80, in una recensione musicale del tutto avulsa dal flusso narrativo, ma funzionale a rendere la psiche distorta del personaggio. Il mondo di Bateman, yuppie affermato, si basa soltanto su parametri quantitativi, sulla registrazione dei fenomeni attraverso i già citati elenchi asettici e dissonanti — l’ultimo appiglio per una mente in frantumi.

Passano un po’ di giorni. Nelle ultime notti ho dormito a intervalli di venti minuti. Mi sento svuotato, tutto mi sembra confuso, e il mio istinto omicida, che riaffiora, scompare, riaffiora, scompare di nuovo, pare quasi in letargo nel corso della cena da Alex Goes to Camp, durante il quale prendo l’insalata di salsiccia d’agnello con aragosta e fagioli bianchi spruzzati di lime e aceto di fois-gras. Indosso jeans scoloriti, un giubbotto Armani, e una T-shirt Comme des Garçons da centoquaranta dollari. Chiamo casa per controllare se ci sono messaggi. Restituisco alcune videocassette. Mi fermo a un bancomat. L’altra sera Jeannette mi ha chiesto: — Patrick, perché tieni lamette da barba nel portafogli? — Il Patty Winters Show stamattina era incentrato sul Ragazzo che si è innamorato di una Confezione di Saponette[6]. 

Bateman è un automa di bell’aspetto: il personaggio letterario è ormai del tutto svuotato, è solo un contenitore che raccoglie i frammenti indifferenziati dell’uomo occidentale di fine secolo. AP è un testo senza centro che uccide (anche) il plot, è lungo più di 500 pagine, poteva impiegarne 50 o forse mille. L’ordine è dato dalla crescita esponenziale dell’orrore, prima sotteso e poi deflagrante, fra un capitolo e l’altro, come se niente fosse. Incapace di interpretare il mondo, Bateman sa percepire solo il dolore.

A questo riguardo, è lecito registrare lo scarto rispetto al Jordan Belfort/Leonardo DiCaprio, broker vitalista e integrato, al centro di The wolf of Wall Street (2013): anche le tre ore del film di Scorsese sono un’estenuante ed efficace ripetizione del “già visto”, ma è quasi del tutto assente il dolore. Il film di Scorsese è così policromo che sembra girato di giorno anche nelle scene notturne. AP dà l’idea di essere avvolto nel buio anche in pieno sole. L’antieroe di Ellis, incapace di provare piacere, di soffocare la frustrazione — intrinseca al sistema capitalistico stesso, inteso come generatore perpetuo di desideri mancati, ma qui portato a livelli parossistici[7] — e intimamente separato da ogni slancio creativo, distrugge, umilia, stupra, disseziona, cannibalizza. Occorre però fare attenzione, trovare un nesso di causalità negherebbe in modo sostanziale la natura stessa del testo:

… c’è quest’idea di Patrick Bateman, una specie di astrazione, che tuttavia non ha nulla a che vedere con chi sono veramente, è solo un’entità, un qualcosa di illusorio, e anche se riesco a nascondere il mio sguardo freddo e potete stringermi la mano e sentire la mia carne che stringe la vostra e magari potete anche immaginare che il nostro stile di vita sia simile: io semplicemente sono un altro. È dura per me avere un senso, a qualsiasi livello. Io sono un prodotto, un’aberrazione. Sono un essere umano non accidentale. La mia personalità è abbozzata, informe, la mia crudeltà è radicata e persistente. La mia coscienza, la mia pietà, le mie speranze sono scomparse tanto tempo fa (probabilmente a Harvard) ammesso che siano mai esistite. Non ci sono più barriere da superare. Non me ne importa nulla di quello che ho in comune con i pazzi e i deliranti, con i perversi e i malvagi, sono oltre tutto il dolore che ho causato e anche oltre la totale indifferenza che ho provato. Ciò nonostante mi tengo ancora saldo a un’unica, squallida verità: non si salva nessuno, non c’è redenzione per nessuno. Dunque non mi si può biasimare. Ogni modello di comportamento umano deve avere la sua validità. Il male sta in quello che sei? O in quello che fai? Il dolore che provo è costante, acuto, e non spero in un mondo migliore per nessuno. In realtà desidero infliggere agli altri il mio dolore. Non voglio che nessuno mi sfugga. Ma anche dopo aver ammesso tutto questo — e l’ho fatto innumerevoli volte, praticamente in ogni mia azione — e dopo essermi ritrovato faccia a faccia con queste verità, non c’è catarsi. Non ho acquisito alcuna conoscenza più approfondita di me stesso, e niente di nuovo può essere compreso in base al mio racconto. Non c’era alcun motivo perché vi raccontassi tutto questo. Questa mia confessione non significa niente…[8]

E dire che Ellis non ha lesinato sforzi — disseminando l’intreccio di incongruenze e dettagli contraddittori — per suggerire la natura puramente mentale dei crimini perpetrati da Bateman, ma si è dovuto scontrare, perdendo, con la sospensione dell’incredulità del lettore, da un lato, e con il conformismo dei critici di vaglia, dall’altro. American Psycho è un romanzo totalmente antinaturalistico: gli infiniti vestiti elencati al dettaglio, se visualizzati, spesso risultano essere abbinati in modo ridicolo; le scene di tortura iper-descritte sono volutamente eccessive, cartoonistiche, un mix tra i Racconti della cripta e i file dell’FBI; Bateman non viene mai incriminato nonostante dissemini prove dappertutto; confessa agli altri personaggi i suoi delitti ma nessuno gli crede; è scambiato di continuo per qualcun altro.

In ultima analisi, Bateman interpreta il tentativo fallito di aderire ad un modello comportamentale (auto)imposto, in un mondo dove solo quello che appare esteriormente definisce l’uomo, e in un libro che si sviluppa soltanto sul piano monodimensionale dell’apparenza — resa anche grazie al marchio di fabbrica dell’autore, un’impeccabile prosa fredda e distaccata che accentua nel lettore l’effetto di spersonalizzazione. Violenza come allegoria o violenza fine a se stessa? Era davvero tutto nella sua mente? Non si tratta, abbiamo visto sopra, di una discriminante indispensabile per sedurre il lettore: la vera fiction non è mai schiava del vero, la forza di una storia risiede nella storia in sé. La trasposizione cinematografica di Mary Harron fallisce nell’incapacità dell’immagine filmica di restituire la progressiva disgregazione di una realtà filtrata da un sistema cognitivo avulso da ogni collegamento con la sfera emotiva.

AP è al contempo una commedia nerissima, una satira di costume alla Gore Vidal, pornografia pura, un romanzo horror, un romanzo intrinsecamente politico.

Bret Easton Ellis nel 1991 raggiunse il picco della celebrità e dell’odio. Cosa rimane, venticinque anni dopo, di questo autore condannato ad essere per sempre giovane? Spesso ci si dimentica che Ellis scrisse il libro fra i ventitré e i ventisei anni. Era il ragazzo diventato una star dopo Meno di zero, l’enfant terrible che faceva spettacolo di se stesso nei party più cool di Manhattan, l’epigono all’ultima moda di un’altra generazione perduta. Bret Easton Ellis era un ragazzo di grande talento che si sentiva profondamente solo e alienato nella città delle mille luci, un ragazzo che trasfigurò il suo dolore in quell’attacco frontale al politically correct che sarebbe diventato American Psycho. Sette anni dopo uscirà Glamorama, la sua opera più complessa, il cui nucleo fondativo era già stato elaborato prima del 1991; nel 2005 sarà la volta di Lunar park, che reinserisce nel gioco metanarrativo tutti i romanzi precedenti; Imperial bedrooms, l’ultimo libro, è il seguito di Meno di zero. Ellis attualmente vive a Los Angeles dove scrive sceneggiature di film e serie tv che non verranno (quasi) mai realizzate. Si occupa di un podcast dove parla di cinema e costume insieme a ospiti come Kanye West e Quentin Tarantino. Ha quasi seicentomila follower su Twitter. Non sembra interessato a scrivere altri romanzi. Sembra sereno. E se fosse stato proprio Bret Easton Ellis, l’unica vera vittima di Patrick Bateman?


[1] Patrick Bateman compare già nel romanzo precedente di Ellis, Le regole dell’attrazione (1987): è infatti il fratello maggiore di uno dei protagonisti, Sean, che sarà a sua volta inserito in un capitolo di American Psycho, Il compleanno di mio fratello. Bateman avrà poi un cameo in Glamorama (1998), e sarà rievocato in Lunar Park (2005). Tutti i personaggi principali creati da Ellis sono ricorsivi nel corpus delle sue opere.

[2] In un’intervista a Rolling Stone dello scorso 31 marzo, poi ripresa anche dal Guardian, Ellis ha dichiarato tuttavia che se dovesse attualizzarlo, oggi Bateman non sarebbe più così entusiasta del suo vecchio idolo: «Trump today isn’t the Trump of 1987… Now he seems to be giving a voice to white, angry, blue-collar voters. I think, in a way, Patrick Bateman may be disappointed by how Trump is coming off»; http://www.rollingstone.com/culture/news/american-psycho-at-25-bret-easton-ellis-on-patrick-batemans-legacy-20160331

[3] Questo il sito ufficiale del musical: http://americanpsychothemusical.com/#introduction

[4] Va precisato che Ellis, durante tutta la sua carriera, ha favorito l’erronea sovrapposizione autore/personaggio con una serie di accorgimenti stilistici: i protagonisti sono sempre maschi bianchi e agiati della sua stessa età al momento della stesura; usa solo la prima persona narrativa e quasi esclusivamente il tempo presente.

[5] Il link per l’intervista sul sito: http://www.avclub.com/article/bret-easton-ellis-13586

[6] Bret Easton Ellis, American Psycho, ed. Einaudi Super ET (2005), pag. 380.

[7] Per citare solo l’esempio più noto: in tutto il romanzo Bateman non riesce mai a prenotare un tavolo al Dorsia, il locale più in di Manhattan.

[8] Ibid. pp. 486-487

[Immagine: Mary Harron, American Psycho]

7 thoughts on “Autopsia di uno scandalo. American Psycho venticinque anni dopo

  1. Ero arrivata all’inizio del quarto paragrafo, poi Mirarchi ha scritto “decade” al posto di decennio. Se non importa a lui di come scrive, perché dovrebbe importare a me di cosa.

  2. Gentile Isa, ti ringrazio per la segnalazione e mi dispiace per l’inconveniente.
    D’altra parte non mancano dizionari, Treccani incluso, che accettano l’uso del termine in relazione al computo degli anni, seppure con una frequenza di certo minore rispetto a “decennio”.

  3. Grazie, invece, riflessioni ponderate e condivisibili su un capolavoro assoluto, fan sempre piacere.
    Sciatteria resta sindacare lo stile altrui per potersi risparmiare l’intera lettura del post.

  4. “solo quello che appare esteriormente definisce l’uomo” : è uno slogan attualissimo. Io lo vivo nel quotidiano, confrontandomi con un campionario di umanità attratta solo dalla forma e dalla quantità. Ho letto questo libro, perchè attratta dal clamore mediatico. Mi incuriosiva, mi è piaciuto. E’ vero, la trasposizione cinematografica di Mary Harron fallisce nel restituire la sfera emotiva, ma è tipico delle trasposizioni cinematografiche, lo stile del monologo interiore raramente riesce ad essere trasmesso con efficacia, come nel caso di p. e. Dalton Trumbo ( E johnny prese il fucile) oppure mi è capitato di vedere “I giovani leoni” di Irwin Shaw ed effettivamente anche se il film trasmette indubbiamente un carico di emozioni queste si discostano dalle emozioni più profonde che trasmette la lettura del libro. Ti faccio i miei complimenti, anche se è solo adesso (2019) ho letto il tuo articolo.

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