cropped-940x528.jpgdi Florian Mussgnug

[Florian Mussgnug, tedesco, insegna Letteratura italiana e comparata allo University College di Londra. Sua moglie e i suoi figli vivono a Roma. Mussgnug è il primo firmatario dell’appello che più di centocinquanta docenti universitari di letteratura italiana in Gran Bretagna hanno rivolto al governo italiano perché si impegni a contrastare gli effetti della Brexit sulle giovani generazioni e sugli scambi culturali].

Giovedì 23 giugno 2016 la Gran Bretagna ha votato, con una maggioranza risicata – 52% contro 48% -, di uscire dall’Unione Europea, contro il parere quasi unanime di uomini d’affari, della City di Londra, delle università, dell’establishment culturale e intellettuale e della maggior parte dei politici democraticamente eletti. L’affluenza al referendum è stata del 71.8% (l’affluenza più alta dal 1992) e, come previsto, ci sono state spaccature chiare nell’elettorato: mentre la maggior parte dell’Inghilterra e del Galles ha votato per il Brexit, Scozia e Irlanda del Nord hanno scelto di rimanere nell’Unione Europea, come del resto Londra. Il sostegno per l’Europa è stato largo tra le fasce più ricche e colte della popolazione, tra gli abitanti delle grandi città e tra i giovani. I meno ricchi e i meno colti, i vecchi e gli abitanti delle aree rurali hanno votato in maggioranza per lasciare l’Unione Europea. In una campagna elettorale profondamente viziata, il partito “Remain” è stato deludente: molti suoi leader sono apparsi poco convincenti o poco convinti, avendo posto la questione in termini puramente economici e senza riuscire a trasmettere nessuna passione genuina per l’Europa. Il partito “Leave” ha attirato i nazionalisti più ingenui e ha ingannato intenzionalmente l’elettorato, rispondendo con infantile ottimismo ai numerosi gridi d’allarme. Non ci sorprende che i suoi leader siano ora nel caos e stiano ritirando molte delle promesse fatte prima del voto.

Esperti di ogni campo preannunciavano da mesi le conseguenze catastrofiche di un eventuale Brexit e le conseguenze cominciano già puntualmente a verificarsi. In questi giorni, a catturare l’attenzione è il drammatico post-referendum. A distanza di una settimana dal voto la Gran Bretagna vive la più grave crisi istituzionale degli ultimi decenni, accompagnata da caos economico e crollo dei mercati finanziari, oltre che da scoppi di xenofobia e violenza verbale (il numero dei reati d’odio denunciati alla polizia è salito del 57% negli ultimi giorni). Numerosi leader politici – inclusi David Cameron e Boris Johnson – hanno rifiutato responsabilità politiche a lungo termine, probabilmente terrorizzati dal compito che li aspetta. Nel giro di poche ore il panico ha spazzato via due miliardi di dollari dal mercato mondiale, lasciando il Regno Unito sull’orlo della recessione.

Altre preoccupazioni più gravi si affacciano all’orizzonte: la Brexit pone un rischio inequivocabile al futuro del Regno Unito, con la Scozia che probabilmente indirà un nuovo referendum per l’indipendenza e l’Irlanda del Nord che verrà destabilizzata dalla re-imposizione di frontiere con l’Irlanda. Gli esperti di politica estera prevedono che la Brexit indebolirà per decenni la posizione della Gran Bretagna nella scacchiera mondiale. I consulenti sulla sicurezza interna concordano che l’uscita dall’UE ostacolerà la cooperazione internazionale nella guerra contro il terrorismo. Gli economisti all’unanimità sostengono che la Brexit – passato lo shock immediato dei mercati finanziari – comporterà meno scambi, investimenti stranieri più ridotti e una crescita produttiva più lenta. Mentre tali bollettini dominano le prime pagine dei giornali, rimorso e incertezza serpeggiano anche tra molti di coloro che hanno votato per lasciare la Comunità Europea.

Cosa è andato storto, dunque, e come mai un Paese noto per il suo pragmatismo ha votato contro i suoi stessi interessi politici ed economici? Dalla prospettiva di un dipartimento di lingue moderne, con sede a Bloomsbury, nel cuore della città più vibrante e cosmopolita d’Europa, non è facile comprendere le ragioni di coloro che hanno votato per lasciare l’Europa. Per via della netta divisione dell’elettorato, noi europeisti eravamo circondati da colleghi, amici e vicini altrettanto europeisti: un’eco rassicurante (finché è durata) che spiega perché molti di noi siamo rimasti sorpresi e scioccati dal risultato – svegliandoci venerdì mattina e trovandoci (con le parole di molti amici londinesi) “intrappolati in un incubo da cui sembrava impossibile svegliarsi”. Altri europeisti sono stati maggiormente a contatto con le idee del partito “Leave”. Accademici residenti in università più piccole in aree rurali dell’Inghilterra hanno dichiarato di sentirsi “assediati” e una collega italiana, che vive e insegna in Gran Bretagna da più di vent’anni, mi ha confessato che “all’improvviso gli Inglesi non mi piacciono più tanto”, benché sia stata un’anglofila convinta per tutta la vita.

Risentimento e preoccupazione sono particolarmente forti tra i cittadini britannici che vivono nell’Europa continentale e tra gli Europei che vivono, lavorano e pagano tasse in Gran Bretagna, ma a cui non è stato concesso il diritto di votare per il referendum. Vilipesi dalla campagna “Leave” come un peso per il Paese, molti di noi originariamente sono approdati in Gran Bretagna alla ricerca di ciò che sembrava un raro esempio di società genuinamente liberale: un modello di multiculturalismo, meritocrazia e apertura, che molti di noi avevano cercato invano nei loro Paesi di origine. E’ proprio quest’idea di Gran Bretagna – “faro di tolleranza”, nelle parole dello storico Simona Schama – che, tra lo shock e l’incredulità generale, sembra essere in gioco oggi.

Vorrei concentrare la mia attenzione su tre aspetti che sono stati particolarmente importanti nella campagna referendaria. Innanzitutto l’immigrazione: mentre gli euroscettici britannici da sempre esprimono preoccupazione per questioni legate alla finanza e alla sovranità politica, il partito “Leave” ha conquistato largo consenso popolare solo quando ha assunto un tono apertamente xenofobo, sfruttando l’ostilità diffusa contro gli immigrati. Senza entrare nel merito delle implicazioni etiche di tale posizione, non è affatto chiaro che cosa intendessero fare i fautori del Brexit per ridurre l’immigrazione. Se la Gran Bretagna decide di continuare a far parte del mercato unico europeo, come vorrebbero oggi alcuni fautori del Brexit, dovrà molto probabilmente accettare la libera circolazione dei lavoratori e osservare tutte, o quasi, le norme comunitarie, al pari della Norvegia. E seppure il Paese si ritirasse completamente sia dalla UE che dal mercato unico, dovrebbe comunque affrontare il problema dell’immigrazione extra-europea, che al momento rappresenta più della metà dell’immigrazione complessiva. (I fautori di “Leave” hanno suggerito un sistema di punti all’australiana, ma tale sistema è pensato per Paesi con un numero di immigrati proporzionalmente superiore, non inferiore, a quello della Gran Bretagna). Nel frattempo i portavoce di interi settori dell’economia britannica, dai coltivatori agli albergatori, hanno dichiarato con forza di dipendere in maniera cruciale dai lavoratori stranieri, e che per loro il Brexit sarà “un terrificante salto nel vuoto”.

Uno dei settori maggiormente dipendenti dall’immigrazione europea è il sistema sanitario pubblico – il che mi consente di passare al mio secondo punto: i fautori del Brexit hanno dichiarato, come è noto, che la Gran Bretagna oggi invia a Bruxelles £350 milioni a settimana, che potrebbero essere spesi con maggior profitto per il Servizio Sanitario Nazionale (National Heath Service, NHS). Questa è una lampante menzogna, come il dipartimento del Tesoro della House of Commons aveva annunciato prima del referendum, e come molti leader della campagna “Leave” hanno ammesso prontamente dopo la vittoria, suscitando indignazione generale. Non solo le cifre erano totalmente inventate, ma non c’è alcun elemento per dimostrare che la spesa attuale della Gran Bretagna, molto più ridotta (£120 milioni, dopo aver calcolato le somme che dall’Europa giungono in Gran Bretagna), sarebbe sufficiente a riempire i molti buchi creati dal Brexit, nel budget di coltivatori, regioni depresse, ricerca scientifica. E’ ancora meno probabile che, in un periodo di instabilità economica, ci saranno finanziamenti ulteriori per il Servizio Sanitario Nazionale. Al tempo stesso, l’irrigidimento delle politiche di immigrazione probabilmente causerà danni ulteriori alla sanità pubblica, visto che al momento circa il 10% dei suoi medici proviene dalla UE.

Terza e ultima considerazione, l’istruzione superiore. Forse più di qualsiasi altro gruppo all’interno della società britannica, i ricercatori e i docenti universitari hanno espresso in maniera compatta il loro sostegno per la UE. E non sorprende: l’impatto dei voti Out si fa già sentire nelle università, soprattutto in discipline i cui corsi di laurea tradizionalmente prevedono un anno obbligatorio all’estero. A UCL, per esempio, molti dei nostri migliori studenti vengono da Paesi della Comunità Europea e danno all’Università prestigio e denaro. (Un’altra fonte importante di guadagno, i finanziamenti europei, è oggi in grave dubbio). Tutto ciò, ovviamente, non è solo una faccenda economica: dopo 43 anni di appartenenza all’Europa, molti cittadini britannici — soprattutto le giovani generazioni — hanno sviluppato non solo un forte senso di identità europea, ma anche percorsi di vita europei. Abbiamo educato una giovane generazione di europei, incoraggiandoli ad imparare le lingue e promuovendo la conoscenza delle storie, politiche e culture che costituiscono il fondamento della cooperazione europea. Facendo tesoro delle opportunità offerte da Erasmus+ e del diritto di vivere e lavorare all’estero, molti dei nostri studenti ed ex-studenti hanno vite personali e professionali che dipendono dalla loro cittadinanza europea. Potrebbero perdere i permessi di soggiorno e di lavoro, la parità di trattamento, e tutti quei privilegi che nascono da una cittadinanza comune. E’ stato detto più volte che il Brexit sarebbe andato a discapito soprattutto dei giovani, che presto potrebbero vedersi negate le opportunità che l’integrazione europea offre e l’eguaglianza di opportunità che meritano.

In Europa le reazioni al Brexit sono state varie: irritazione, compassione, in alcuni ambienti anche un po’ di compiacimento malevolo. Ma è la reazione giusta? Da questa parte della Manica, nell’Europa continentale, si dimentica facilmente come questo terremoto condizionerà la vita di tutti noi europei, indipendentemente dal luogo in cui viviamo. E’ comprensibile che l’Unione Europea voglia dare un esempio, per evitare che altri paesi siano tentati dal seguire la strada del Brexit. Ma è anche scoraggiante che l’U.E. non faccia di più per avviare una riflessione serena sul Brexit, cercando di minimizzarne le conseguenze, piuttosto che abbandonarsi al risentimento o a sentimenti di orgoglio ferito.

In questo momento drammatico val la pena di ricordare, anche a noi stessi, che la Gran Bretagna è stata per secoli una seconda casa per espatriati di ogni angolo del pianeta: una società fatta di diversi gruppi etnici, ciascuno con la sua cultura, fede e spesso anche lingua. Vedere questa nobile tradizione minacciata all’improvviso è un grave grido d’allarme che non possiamo permetterci di ignorare. Le lezioni che il referendum ci infligge sono tante, ma la più importante, mi sembra, è rivolta a tutti noi che amavamo definirci cosmopoliti.

Gli espatriati di ogni nazione, età, fede devono capire che questo non è (ancora) il momento di fare le valigie e cercare un posto migliore; è il momento invece di controbattere, prendere parte attivamente al dibattito politico, che molti di noi avevano ritenuto prudente ignorare. Mentre scrivo, i nostri amici, colleghi e parenti britannici si stanno battendo, per evitare le conseguenze peggiori della Brexit: prendono corpo petizioni, marce e dibattiti su come prevenire una legislazione xenofoba. Ci sono i presupposti, qualora il consenso fosse largo, per rigettare i risultati del referendum o per indirne uno nuovo. Entrambe le soluzioni creerebbero ovvie fratture, ma in un Paese già spaccato in due – se non altro tra vecchi e giovani – le nostre priorità devono essere chiare, anche se questo provocasse dei conflitti. Questo non è il momento di parlare solo tra noi, ma di portare la nostra idea di Europa in ogni angolo della Gran Bretagna, anche nel cuore dell’Inghilterra dove gli elettori, male informati, hanno votato contro i loro stessi interessi. Cosa altrettanto importante, questo è il momento di ricordare ai nostri amici e colleghi del Continente tutto quello che la Gran Bretagna, nei suoi momenti migliori, ha dato all’Europa e a molti di noi. Dobbiamo raccoglierci subito; domani potrebbe essere troppo tardi.

[Immagine: Bandiera europea – fotomontaggio]

19 thoughts on “Perché le cose sono andate storte in Gran Bretagna

  1. Direi che questo articolo raccoglie in maniera ottimale tutte le amenità che sono state dette su questo referendum secondo i più triti luoghi comuni.
    Il primo luogo comune è questa contrapposizione tra città e campagna e tra giovani e vecchi.
    Viene intanto esagerata la contrapposizione. Infatti, se in campagna il 60% è per il “leave” e in città è per il “remain”, è senza senso dire che la campagna ha votato per il leave e la città per il remain facendo di colpo diventare il 60% un 100%. In campagna ha prevalso il sì al BREXIT, ma anche lì molti sono stati per il no: alla fine si scoprirebbe che si tratta forse di un misero elettore su sette che fa la differenza nei due casi.
    Molto più grave il luogo comune che vede la storia umana come un percorso più o meno lineare, per cui c’è chi sta avanti e chi arranca dietro. Se io dicessi che i cittadini sono più conformisti, più condizionati dai media, che chi ha un livello di scolarizzazione maggiore, ha molte opportunità certo di sviluppare una capacità critica, ma che nella pratica tale possibilità non si attua e che quindi studiare di più quasi sempre significa soltanto subire un condizionamento culturale maggiore, allora si potrebbe valorizzare il contadino che confrontandosi con la dura realtà quotidiana del lavoro a contatto della natura, non rimane vittima degli schermi varii, dallo smart phone, al tablet, al notebook, al desktop PC, confondendo ciò che gli passa davanti nello schermo con la realtà. Assumere che il cittadino che cammina con un auricolare nell’orecchio sia avanti non si sa in direzione di quale meta poi, è senza senso alcuno.

    Non ricordo chi ha detto che oggi la classe più istruita, gente come i miei colleghi docenti universitari, è quella obiettivamente meno in grado di interpretare la realtà, prigioniera delle ideologie dominanti da cui dipende anche per il proprio stesso sostentamento.

    Anche sulla dicotomia giovane/vecchio, si dicono cose inesatte, i giovani hanno sostanzialmente disertato il referendum, partecipando con una percentuale ridotta: non si capisce con quale passaggio logico si trasforma un disinteresse in un sostegno al remain.

    L’articolo poi riporta circostanze del tutto false. Mediamente, la borsa di Londra ha subito in questo lasso di tempo un ribasso più modesto rispetto alal media dei paesi UE, come pure sarebbe interessante capire come l’autore correlerebbe l’aumento degli atti xenofobi con la vittoria del leave.

    Alla fine, il nostro si rifugia nel luogo comune degli esperti, che sono tuttavia esperti di nulla. Qui parliamo di politica, e cosa si vuole contrapporre ad essa? Gli esperti, quelli che come classe dirigente hanno portato il mondo ad una crisi recessiva che forse alla fine dovremmo registrare come peggiore perfino della storica depressione del ’29.

    Il punto centrale che però viene fuori da questo artticolo è la mancanza ormai conclamata dello spirito democratico. E’ evidente che il livello di condizionamento ottenuto dai potenti attraverso mezzi mediatici, e che pure potremmo stimare nel 90%. viene ormai ritenuto comunque insufficiente, bisogna raggiungere il 100% perchè tutto ciò si trasformi in quella che io definirei una vera e propria dittatura mediatica.

    Così, personaggi che occupano posti importanti nell’establishment culturale delle nostre società, non esitano a venir fuori con considerazioni che obiettivamente sono ignobili, come l’odiosa distinzione sulla qualità dei voti, sui limiti della democrazia e su qualunque forma di obiezione che sia funzionale a nascondere ciò che appare luminoso come il sole, che essi hanno perso il referendum.

    La questione è semplice, direi perfino banale, è inutile buttarla in filosofia politica, sollevando la tematica dei limiti della democrazia (ne parlava già Tocqueville un bel po’ di tempo fa), che pure è una questione serissima in sè,c’è chi ha vinto il referendum e c’è chi l’ha perso, ed un cittadino con una coscienza sociale democratica dovrebbe semplicemente accettare questo risultato senza sostenere tesi aberranti come quella del peso dei voti.

    Sollevare questioni sullo strumento referendario oggi è evidentemente pretestuoso, serve solo a dire “abbiamo perso, ma avevamo ragione”. La questione delle istituzioni democratiche, del loro uso, dei loro limiti, proprio perchè serissima, non va sollevata quando si perde un referendum, sarebbe come comportarsi da bambini e si chiede di ripetere una gara quando la si perde, ma in una sede opportuna e quando i clamori del BREXIT si saranno spenti.

    Io guardo con estrema preoccupazione non ai risultati di un referendum, ma a questo degrado dello spirito democratico che sto osservando, sperando che qualcuno prima o poi se ne vergogni e rinsavisca.

  2. Mi pare una difesa ingenua, alquanto corporativa e nostalgica dell’Inghilterra cosmopolita d’antan (“val la pena di ricordare, anche a noi stessi, che la Gran Bretagna è stata per secoli una seconda casa per espatriati di ogni angolo del pianeta”). E fa il paio con l’esaltazione altrettanto miope della nazione, a cui vorrebbe a parole contrapporsi.
    Questa globalizzazione a guida USA produce un cosmopolitismo d’élite alquanto fragile e marcio. E altrettanto marcia e gravida di brutti fantasmi, non facili da esorcizzare, mi pare la prospettiva del “ritorno alla nazione”.
    Schiacciati da “opposti estremismi”? A me pare così.
    Si va verso il “crollo del capitalismo”, come suggerisce Vincenzo (Cucinotta) nel suo ultimo commento?
    Oppure “esso può continuare ad esistere solo imponendo un conflitto mediamente ogni mezzo secolo”?
    La prima ipotesi (il “crollismo”) mi è sempre parsa attendista e chimerica.
    La seconda probabile e temibile.
    Ma oggi c’è o ci potrebbe essere una prospettiva che contrasti davvero gli “opposti estremismi”? O bisogna rassegnarsi “realisticamente” ad appoggiare quello che a ciascuno pare “il meno peggio”?

  3. Diceva il compianto Costanzo Preve che oggi si verifica un fatto nuovo nella storia dell’umanità: che gli intellettuali sono più stupidi del tassista, della cassiera, della casalinga di Voghera o di Birmingham.
    Evidentemente, aveva ragione.

  4. Vincenzo Cucinotta e Ennio Abate: per quanto tempo avete vissuto in Regno Unito? Tanto per capire da dove viene questa pretesa di spiegare all’autore dell’articolo come si è svolta una campagna elettorale a cui non avete assistito e cosa vogliono fasce di popolazione con cui non siete mai entrati in contatto neanche per interposta persona.

  5. Perchè Brexit?
    Dice la sua uno che nel Regno Unito ci è nato, ci vive, ci insegna, è anche europeista (ed è anche un’eccezione alla regola previana degli intellettuali più stupidi della casalinga di Birmingham).
    Video in inglese.

    https://youtu.be/rGvZil0qWPg

  6. @ Valeria

    Non sono vissuto neppure nell’epoca preistorica o dei Greci o della Rivoluzione Francese, ecc. Questo m’imporrebbe il silenzio?
    Esprimere in un commento dubbi o obiezioni equivarrebbe a pretendere di “spiegare all’autore dell’articolo come si è svolta una campagna elettorale etc.”?
    Ma allora perché si pubblicano gli articoli?
    Per genuflettersi davanti a chi saprebbe perché vive in quel posto?
    Mamma mia, siamo combinati sempre peggio.

  7. Abate: ‘Mi pare una difesa ingenua, alquanto corporativa e nostalgica dell’Inghilterra cosmopolita d’antan’

    Può elaborare? mi interessa capire in base a quali dati/ esperienze/ passaggi logici l’Inghilterra (che poi capiamoci – l’Inghilterra è England? o United Kingdom? York Londra e Portsmouth sono la stessa cosa in questo contesto?) fosse cosmopolita (quando?), ma non lo sia più (da quando?), indi la nostalgia? non capisco sinceramente. Mi è venuto in mente, quindi, ma sicuramente mi sbaglio, che questa fosse un’apertura un po’ ad effetto, tanto per, corredata poi dalle sue legittimissime opinioni sulla Brexit e sulla rivoluzione francese.

    Buffagni: ‘come pure sarebbe interessante capire come l’autore correlerebbe l’aumento degli atti xenofobi con la vittoria del leave’

    Penso che siano correlabili in base allo stesso principio per cui le borse sono impazzite venerdì 24 giugno. Ripeto che lei questa campagna non l’ha vissuta, ed è un elemento importante non perchè non avrebbe dunque il diritto di avere un’opinione o suggerire molti ed interessanti link, ci mancherebbe, ma perchè non ha visto e non ha percepito il cambiamento di atmosfera, delle conversazioni sugli autobus e nei supermercati, non è quotidinamente oggetto di un dibattito condotto come se lei non potesse vedere, sentire, leggere. Non si tratta di sfumature, di vittimismo, sono convinta che molti altri europei (europei e non, chè poi a rimetterci davvero, in questo clima, sono sempre gli stessi) condividano questa esperienza. Ed io non sono polacca, non sono rumena nè turca, tantomeno una rifugiata.

    Un’ultima osservazione: questi commenti sugli intellettuali distaccati dalla realtà fatti da altri intellettuali che invece ci parlano a nome della fantomatica casalinga (ma perchè poi sempre le casalinghe, non so) mi hanno fatto venire in mente Farage che, dopo aver trascorso 17 anni a sghignazzare e gingillarsi al parlamento europeo, si congeda accusando i suoi colleghi di non aver mai lavorato un giorno un vita loro.

  8. Mi chiedo perchè sia così difficile intendersi, anche quando obiettivamente non ci sarebbe spazio alcuno per fraintendimenti.
    Ad esempio, dalle sue parole, sembra che Valeria non abbia neanche letto cosa ho scritto.
    Ella infatti chiama in causa (cito le sue parole):
    “Tanto per capire da dove viene questa pretesa di spiegare all’autore dell’articolo come si è svolta una campagna elettorale a cui non avete assistito e cosa vogliono fasce di popolazione con cui non siete mai entrati in contatto neanche per interposta persona.”
    Valeria, sarebbe così gentile da dirmi dove avrei preteso di spiegare…etc
    A volte repetita iuvant, e così ci provo a ripetere.
    La mia obiezione è di principio, non considera i dettagli del clima politico in cui si è svolto il referendum, per il semplicissimo fatto che, una volta accertato che non c’è stata costrizione fisica ad esprimere un determinato voto, nè c’è stato broglio (su cui i veri esperti sono gli euroentusiasti austriaci, mi pare), tali condizioni sono del tutto irrilevanti. Tanto sono irrilevanti che questi campioni del voto consapevole non hanno fiatato e non fiatano tuttora quando il risultato delle consultazioni elettorali è a loro favore.
    Io dico insomma che nell’occidente stiamo in un sistema in cui una sempre maggiore consapevolezza nell’esprimere il proprio voto può essere esclusivamente auspicata, ma mai invocata come motivo per mettere in dubbio la liceità del voto e delle sue conseguenze.
    Possiamo per il futuro quindi proporre un cambio di sistema, introdurre forme non so di che tipo di obbligo alla consapevolezza (accertata da chi però?). Ciò che non è solo errato fare, ma è proprio assurdo e scorretto è volere inficiare i risultati della consultazione che come dicevo trovo un atteggiamento infantile.

    Un altro punto.
    E’ la seconda volta che mi capita di essere criticato perchè non avrei informazioni di prima mano e dovrei pertanto tacere.
    Evidentemente, Valeria ed io viviamo in mondi differenti. L’informazione di prima mano semplicemente non esiste, nè può esistere perchè se ad esempio vivo a Londra, non so cosa pensano ad esempio nel “Lake district” e mi devo pertanto affidare ai media, media peraltro disponibili in tutto il mondo. Stare nel Regno Unito non comporta alcun vantaggio rispetto alla conoscenza reale dei fatti, siamo sempre ed inevitabilmente dipendenti dei media ed il meglio che possiamo fare è moltiplicare il numero delle fonti che consultiamo, cosa peraltro possibile da attuare anche trovandosi in Nuova Zelanda, tanto per citare un paese quasi agli antipodi del Regno Unito. Non basta insomma andare al mercato per imporre il silenzio a quelli che non ci sono stati, e mi sorprende che sia necessario precisare in maniera esplicita aspetti così ovvii.
    Per il resto, dipendiamo, sia io che l’autore dell’articolo, dai sondaggi di opinione, dai calcoli fatti da agenzie specializzate sulle varie percentuali per età e per censo e così via, e difatti l’autore dell’articolo invoca proprio questi dati, nulla di nuovo rispetto a quanto c’è stato propinato molto prima da TV, giornali anche nostrani.

  9. @ Valeria

    Nessuna apertura ad effetto. Ma la semplice impressione (tra l’altro introdotta da un «mi pare» dubitativo) di un commentatore, sì, sicuramente più esterno alle vicende dell’autore dell’articolo e di lei, ma che usa uno spazio pubblico per dialogare e chiarirsi di più le idee.
    Non credo poi di aver negato il cosmopolitismo *reale* degli inglesi o detto che sia scomparso da un giorno all’altro. Sospettando però della retorica cosmopolita, ho sottolineato – riferendomi alla globalizzazione a guida USA – l’aspetto elitario di ogni – insisto *reale* – cosmopolitismo.
    Lei però non faccia l’esame di ammissione ai commentatori!

  10. @Valeria
    Riguardo poi la questione degli intellettuali, provi a capovolgere la frase.
    Non è che ciò che dicono gli intellettuali non viene ritenuto attendibile perchè sono intellettuali, ma al contrario, poichè nel merito, ciò che dicono non è attendibile in base a banali considerazioni logiche, si deduce di conseguenza che tanti, troppi intellettuali sono inattendibili.
    Non è quindi che tutto ciò che dicono gli intellettuali verrebbe respinto in base alla fonte, ma, come del resto dovrebbe essere fin troppo ovvio, le opinioni espresse vengono vagliate in base a ciò che esprimono, e uno degli usi collaterali di tale giudizio è concludere che essere intellettuali non aiuta nella percezione della realtà.
    Chissà se sarò stato chiaro.

  11. L’articolo qui proposto come commento alla “Brrrexit” fa onore a questo sito in quanto è un articolo ‘contra se’. Per completare il quadro delle geremiadi sulla “Brrrexit” manca solo che si compiangano i giovani europei che non potranno più usufruire delle riduzioni sugli aerei e degli scambi Erasmus… Occupiamoci ora di cose più serie e cerchiamo di soddisfare l’esigenza di un’analisi dialettica che distingua i molteplici tipi di contraddizioni che si intrecciano e fanno groppo nella “Brrrexit”. Schematicamente si possono individuare quattro tipi di contraddizione: a) singolo Stato capitalistico vs. unione intercapitalistica; b) grande capitale monopolistico vs. piccolo capitale; c) imperialismo vs. popoli dominati; d) capitale vs. lavoro salariato.

    Orbene, occorre individuare, per ciascun tipo di contraddizione, il modo in cui opera e gli effetti che produce sul proprio specifico oggetto, sugli altri tipi di contraddizione e sull’insieme in questione (= formazione intercapitalistica europea). Ad es., la contraddizione a) è chiaramente determinata dalla legge dello sviluppo ineguale del capitalismo, essendo la Gran Bretagna un “anello forte” della catena intercapitalistica europea e avendo essa un vasto mercato in cui operare (il Commonwealth), oltre che storici legami con gli USA, in quanto Stato transatlantico. Non a caso, all’indomani della “Brrexit” la Borsa di Londra ha perso molto meno (il 4%) delle altre Borse europee. La contraddizione b) opera invece all’interno del blocco capitalistico britannico fra il grande capitale monopolistico, interessato all’apertura del mercato europeo per i suoi investimenti e i suoi acquisti di beni di produzione, e il piccolo capitale maggiormente o esclusivamente interessato al mercato interno. Inoltre, in rapporto alla formazione del saggio medio di profitto, supremo regolatore e motore dell’accumulazione, vi è un aspro conflitto per la spartizione del plusvalore prodotto e per gli investimenti nel campo della speculazione (per usare la terminologia marxiana, nel campo del capitale produttivo di interesse), aperto alle scorrerie del grande capitale ma precluso al piccolo per via della sua sottocapitalizzazione (senza contare che il piccolo capitale è maggiormente incalzato dalla pressione della concorrenza internazionale). La contraddizione c) opera esasperando, nel contesto della crisi economica, politica e sociale mondiale, il conflitto tra l’imperialismo (= capitale monopolistico internazionale e transnazionale) tra l’imperialismo europeo e i popoli dominati i quali, non appena ne hanno la possibilità (in Italia questa possibilità non esiste sul piano giuridico-formale a causa del vincolo posto dagli artt. 75 e 80 della Costituzione), rispondono massicciamente, come è accaduto alcuni anni fa in Francia, Olanda, Irlanda e ora in Gran Bretagna, con la loro opposizione frontale nei referendum riguardanti la permanenza nella UE.

    La contraddizione d) è quella fondamentale, anche se si avvinghia in modo trasversale rispetto agli altri tipi di contraddizione, da cui è sovradeterminata. Questa contraddizione investe sia il ruolo centrale del salario reale di classe nella dinamica regressiva dell’attacco alle diverse forme del salario (diretto, indiretto e differito) sia il ruolo stesso della classe operaia nel controllo del mercato del lavoro rispetto ai flussi migratori e all’esercito industriale di riserva. A tale proposito, conviene rammentare che il duplice controllo del mercato del alvoro e dell’esercito industriale di riserva fu il motivo immediato della Prima Internazionale Operia, avvenuta nel 1864 proprio a Londra. Il fatto che la contraddizione d) sia quella centrale deriva dalla natura verticale e oggettivamente antagonistica di questa contraddizione, natura che è comune anche alla contraddizione c), mentre le contraddizioni a) e b) hanno una natura orizzontale e sono interne al fronte capitalistico nazionale e internazionale. Tuttavia, la natura orizzontale di tali contraddizioni non esclude che esse, ‘prima facie’, appaiano e siano quelle determinanti in una particolare congiuntura critica. Riprendendo una terminologia usata per descrivere il rapporto tra lotta al fascismo e lotta al capitalismo, laddove la prima è stata definita come “forma di manifestazione” della seconda (cfr. il rapporto Dimitrov al VII congresso dell’Internazionale Comunista), l’effetto congiunto delle contraddizioni a) e b) si può definire , ‘mutatis mutandis’, come effetto determinato dalla causa strutturale d), che si esprime, a livello del sistema mondiale del capitalismo monopolistico, come legge della ricerca del massimo profitto e della massima intensificazione dello sfruttamento dei lavoratori salariati.

    Infine, è da sottolineare che, per quianto concerne la forza della classe operaia – e quindi i rapporti di forza con la borghesia -, essa è maggiore sul terreno del mercato nazionale – e quindi sul terreno di una politica economica protezionistica – e minima sul terreno del mercato mondiale – e quindi sul terreno delle politiche economiche neoliberiste (come dimostrano le vicende economiche e sociali di questi ultimi decenni). È infatti una verità di carattere assiomatico che, mentre la borghesia si organizza negli ‘spazi, la classe operaia si organizza nei ‘luoghi’, il che conferma la natura tellurica di tale classe. E anche questo è un insegnamento prezioso che la Brrrexit ci consegna e che, sul piano ideologico e culturale, va tradotto nell’antinomia tra il cosmopolitismo che impronta la globalizzazione imperialistica e l’internazionalismo proletario che, in un nesso inscindibile con il patriottismo, deve caratterizzare la risposta del movimento di classe dei lavoratori salariati all’offensiva economica, politica e sociale della borghesia. Una considerazione aggiuntiva merita poi la posizione delle forze opportuniste, qualificabile come “liberoscambismo di sinistra”, che fornisce un appoggio all’imperialismo europeo, esprimendo gli interessi neocorporativi di una serie di satelliti socio-politici dell’imperialismo stesso, dall’aristocrazia operaia alla piccola borghesia e alla burocrazia sindacale. Va, comunque, rilevato che la crisi del capitalismo, il quale letteralmente non ha più nulla da offrire alle masse lavoratrici, squalifica progressivamente questi strati che alimentano le forze opportuniste e riduce i margini della loro esistenza economica, costituiti dalle briciole dei sovrapprofitti imperialistici.

    In conclusione, dopo aver precisato che lo schema or ora esposto collima perfettamente con un’analisi disaggregata dei risultati elettorali del referendum britannico, occorre ribadire che tale referendum, come ha riconosciuto lo stesso Cameron nel suo importante discorso del 23 giugno scorso, ha sancito il voto per la “Brrrexit”, che non era stato previsto dall’élite europea e globale, dai governi capitalisti e dai ‘mass media’, nonché da presidenti e speculatori finanziari. Nonostante una violenta campagna di intimidazione, la maggioranza ha votato per rifiutare l’Unione Europea e la proposta di Cameron. Si è trattato di un colpo notevole all’élite della UE e al disegno di completamento dell’edificio degli “Stati Uniti d’Europa” entro il 2025. Un colpo che ha lasciato non solo la Gran Bretagna, ma l’intera UE in una situazione di incertezza politica, nella quale forze differenti stanno tentando di affermarsi. Il voto per l’uscita non è stato un voto di destra; non è stato un voto razzista o xenofobo, come i ferventi sostenitori dell’UE cercano di affermare. È stato un ampio voto popolare del 52% contro il 48%, solidamente radicato nella classe operaia britannica. È stato un voto dei lavoratori salariati, delle masse popolari, dei poveri contro i ricchi; della gente comune contro i banchieri e i “maghi” finanziari della City di Londra, combinato con le divisioni all’interno della borghesia britannica e dei suoi partiti dominanti. In definitiva, il voto ha espresso il desiderio di riconquistare la sovranità e di rovesciare le politiche neoliberiste della UE, che rendono i ricchi sempre più ricchi e le larghe masse lavoratrici e popolari sempre più povere. È vero che in Iscozia e nell’Irlanda del Nord la maggioranza si è espressa per rimanere nella UE, ma ciò riflette le proteste contro l’imperialismo reazionario e colonialista della borghesia inglese e un’insufficiente chiarezza sulla natura di classe dell’Europa Unita del capitalismo monopolistico. Alcune forze che lottano per l’unificazione dell’Irlanda e per l’indipendenza scozzese hanno chiesto dei referendum a tali fini. Questo è un diritto delle nazioni oppresse, ma cacciare una borghesia imperialista e reazionaria per rimpiazzarla con la borghesia reazionaria unita e imperialista della UE non è nell’interesse dei lavoratori e delle masse popolari di nessuna nazione.

  12. Invio una versione meno cursoria dell’intervento, emendato da alcune sviste formali.

    L’articolo qui proposto come commento alla “Brrrexit” fa onore a questo sito in quanto è un articolo ‘contra se’. Per completare il quadro delle geremiadi sulla “Brrrexit” manca solo che si compiangano i giovani europei che non potranno più usufruire delle riduzioni sugli aerei e degli scambi Erasmus… Occupiamoci ora di cose più serie e cerchiamo di soddisfare l’esigenza di un’analisi dialettica che distingua i molteplici tipi di contraddizioni che si intrecciano e fanno groppo nella “Brrrexit”. Schematicamente si possono individuare quattro tipi di contraddizione: a) singolo Stato capitalistico vs. unione intercapitalistica; b) grande capitale monopolistico vs. piccolo capitale; c) imperialismo vs. popoli dominati; d) capitale vs. lavoro salariato.

    Orbene, occorre individuare, per ciascun tipo di contraddizione, il modo in cui opera e gli effetti che produce sul proprio specifico oggetto, sugli altri tipi di contraddizione e sull’insieme in questione (= formazione intercapitalistica europea). Ad es., la contraddizione a) è chiaramente determinata dalla legge dello sviluppo ineguale del capitalismo, essendo la Gran Bretagna un “anello forte” della catena intercapitalistica europea e avendo essa un vasto mercato in cui operare (il ‘Commonwealth’), oltre che storici legami con gli USA, in quanto Stato transatlantico. Non a caso, all’indomani della “Brrexit” la Borsa di Londra ha perso molto meno (il 4%) delle altre Borse europee. La contraddizione b) opera invece all’interno del blocco capitalistico britannico fra il grande capitale monopolistico, interessato all’apertura del mercato europeo per i suoi investimenti e i suoi acquisti di beni di produzione, e il piccolo capitale maggiormente o esclusivamente interessato al mercato interno. Inoltre, in rapporto alla formazione del saggio medio di profitto, supremo regolatore e motore dell’accumulazione, vi è un aspro conflitto per la spartizione del plusvalore prodotto e per gli investimenti nel campo della speculazione finanziaria (per usare la terminologia marxiana, nel campo del capitale produttivo di interesse), aperto alle scorrerie del grande capitale ma precluso al piccolo per via della sua sottocapitalizzazione (senza contare che il piccolo capitale è maggiormente incalzato dalla pressione della concorrenza internazionale). La contraddizione c) opera esasperando, nel contesto della crisi economica, politica e sociale mondiale, il conflitto tra l’imperialismo (= capitale monopolistico internazionale e transnazionale) e i popoli dominati i quali, non appena ne hanno la possibilità (in Italia questa possibilità non esiste sul piano giuridico-formale a causa del vincolo posto dagli artt. 75 e 80 della Costituzione), rispondono massicciamente, come è accaduto alcuni anni fa in Francia, Olanda, Irlanda e ora in Gran Bretagna, con la loro opposizione frontale nei referendum riguardanti la permanenza nella UE.

    La contraddizione d) è quella fondamentale, anche se si avvinghia in modo trasversale rispetto agli altri tipi di contraddizione, da cui è sovradeterminata. Questa contraddizione investe sia il ruolo centrale del salario reale di classe nella dinamica regressiva dell’attacco sferrato dalla borghesia capitalstica alle diverse forme del salario (diretto, indiretto e differito) sia il ruolo stesso della classe operaia nel controllo del mercato del lavoro rispetto ai flussi migratori e all’esercito industriale di riserva. A tale proposito, conviene rammentare che il duplice controllo del mercato del lavoro e dell’esercito industriale di riserva fu il motivo immediato della costituzione della Prima Internazionale Operaia, avvenuta nel 1864 proprio a Londra. Il fatto che la contraddizione d) sia quella centrale deriva dalla natura verticale e oggettivamente antagonistica di questa contraddizione, natura che è comune anche alla contraddizione c), mentre le contraddizioni a) e b) hanno una natura orizzontale e sono interne al fronte capitalistico nazionale e internazionale. Tuttavia, la natura orizzontale di tali contraddizioni non esclude che esse, ‘prima facie’, appaiano e siano quelle determinanti in una particolare congiuntura critica. Riprendendo una terminologia usata per descrivere il rapporto tra lotta al fascismo e lotta al capitalismo, laddove la prima è stata definita come “forma di manifestazione” della seconda (cfr. il rapporto Dimitrov al VII congresso dell’Internazionale Comunista), l’effetto congiunto delle contraddizioni a) e b) si può definire , ‘mutatis mutandis’, come effetto determinato dalla causa strutturale d), che si esprime, a livello del sistema mondiale del capitalismo monopolistico, come legge della ricerca del massimo profitto e della massima intensificazione dello sfruttamento dei lavoratori salariati.

    Infine, è da sottolineare che, per quanto concerne la forza della classe operaia – e quindi i rapporti di forza con la borghesia -, essa è maggiore sul terreno del mercato nazionale – e quindi sul terreno di una politica economica protezionistica – e minima sul terreno del mercato mondiale – e quindi sul terreno delle politiche economiche neoliberiste (come dimostrano le vicende economiche e sociali di questi ultimi decenni). È infatti una verità di carattere assiomatico che, mentre la borghesia si organizza negli ‘spazi’, la classe operaia si organizza nei ‘luoghi’, il che conferma la natura tellurica di tale classe. E anche questo è un insegnamento prezioso che la “Brrrexit” ci consegna e che, sul piano ideologico e culturale, va tradotto nell’antinomia tra il cosmopolitismo che impronta la globalizzazione imperialistica e l’internazionalismo proletario che, in un nesso inscindibile con il patriottismo, deve caratterizzare la risposta del movimento di classe dei lavoratori salariati all’offensiva economica, politica e sociale della borghesia. Una considerazione aggiuntiva merita poi la posizione delle forze opportuniste, qualificabile come “liberoscambismo di sinistra”, che fornisce un appoggio all’imperialismo europeo, esprimendo gli interessi neocorporativi di una serie di satelliti socio-politici dell’imperialismo stesso, dall’aristocrazia operaia alla piccola borghesia e alla burocrazia sindacale. Va, comunque, rilevato che la crisi del capitalismo, il quale letteralmente non ha più nulla da offrire alle masse lavoratrici, squalifica progressivamente questi strati che alimentano le forze opportuniste e riduce i margini della loro esistenza economica, costituiti dalle briciole dei sovrapprofitti imperialistici.

    In conclusione, dopo aver precisato che lo schema or ora esposto collima perfettamente con un’analisi disaggregata dei risultati elettorali del referendum britannico, occorre ribadire che tale referendum, come ha riconosciuto lo stesso Cameron nel suo importante discorso del 23 giugno scorso, ha sancito il voto per la “Brrrexit”, che non era stato previsto dall’élite europea e globale, dai governi capitalisti e dai ‘mass media’, nonché da presidenti e speculatori finanziari. Nonostante una violenta campagna di intimidazione, la maggioranza del popolo0 inglese ha votato per rifiutare l’Unione Europea e la proposta di Cameron. Si è trattato di un colpo notevole all’élite della UE e al disegno di completamento dell’edificio degli “Stati Uniti d’Europa” entro il 2025. Un colpo che ha lasciato non solo la Gran Bretagna, ma l’intera UE in una situazione di incertezza politica, nella quale forze differenti stanno tentando di affermarsi. Il voto per l’uscita non è stato un voto di destra; non è stato un voto razzista o xenofobo, come i ferventi sostenitori dell’UE cercano di affermare. È stato un ampio voto popolare del 52% contro il 48%, solidamente radicato nella classe operaia britannica. È stato un voto dei lavoratori salariati, delle masse popolari, dei poveri contro i ricchi; della gente comune contro i banchieri e i “maghi” finanziari della City di Londra, combinato con le divisioni all’interno della borghesia britannica e dei suoi partiti dominanti. In definitiva, il voto ha espresso il desiderio di riconquistare la sovranità e di rovesciare le politiche neoliberiste della UE, che rendono i ricchi sempre più ricchi e le larghe masse lavoratrici e popolari sempre più povere. È vero che in Iscozia e nell’Irlanda del Nord la maggioranza si è espressa per rimanere nella UE, ma ciò riflette le proteste contro l’imperialismo reazionario e colonialista della borghesia inglese e un’insufficiente chiarezza sulla natura di classe dell’Europa Unita del capitalismo monopolistico. Alcune forze che lottano per l’unificazione dell’Irlanda e per l’indipendenza scozzese hanno chiesto dei referendum a tali fini. Questo è un diritto delle nazioni oppresse, ma cacciare una borghesia imperialista e reazionaria per rimpiazzarla con la borghesia reazionaria unita e imperialista della UE non è nell’interesse dei lavoratori e delle masse popolari di nessuna nazione.

  13. “ Domenica 15 giugno 2003 – Poi leggo un’intervista a Annie Lennox e penso che, una volta o l’altra, dovrò fare il punto sull’Inghilterra. Io mi ricordo bene che tutto mi sembrò strano fin dall’inizio. Per esempio, i Beatles. Era strano che l’Inghilterra si mettesse a cantare – quel paese di militari, di banchieri, di calciatori, improvvisamente si dava al bel canto (in italiano, anzi, in napoletano nel testo). Che erano tutti un po’ froci già si sapeva – le vice anglais -, ma le canzoni… me ce canzoni… Cantanapoli, anzi cantalondra. Mah. Boh. (Erano gli anni Sessanta, cominciava il tempo della Stranezza) (Maggica Albione) “.

  14. Cara Valeria,

    1) ” ‘come pure sarebbe interessante capire come l’autore correlerebbe l’aumento degli atti xenofobi con la vittoria del leave’ ” l’ha scritto Cucinotta, non io. Non so se l’aumento c’è stato. Non credo ci siano dati ma è possibile, magari sono aumentate solo le manifestazioni di insofferenza, e queste le può avvertire soltanto chi come lei vive sul posto. Non c’è dubbio che una delle ragioni della vittoria del Leave sia stata una reazione identitaria e insulare all’immigrazione di massa, europea ed extraeuropea. Può non essere garbata, ma è naturale. L’immigrazione di massa provoca sempre forti tensioni d’ogni genere, e chi le avverte di più (= chi ha solo da perderci ed effettivamente ci perde, non solo economicamente) dai e dai reagisce. Finchè reagisce così, con i ballots e non con i bullets, c’è da ringraziare il Cielo. Capisco che lei se ne senta infastidita, e me ne dispiace. Spero e credo che tutto si limiti a qualche fastidio.

    2) La colpa del tormentone “casalinga di Voghera” va ascritta ad Alberto Arbasino, nativo di Voghera (dove “incontrava il male di vivere ma non lo salutava”) che nei lontani anni Sessanta inventò questa formula spiritosa. Nel suo intento, la “casalinga di Voghera”, idealtipo esemplato su certe sue zie, rappresentava il solido buonsenso lombardo di cui erano invece privi tanti letterati e intellettuali italiani.

    3) Non sono un intellettuale.

    4) Quando Farage è entrato al Parlamento europeo e ha dichiarato che avrebbe fatto uscire dalla UE la Gran Bretagna, i suoi colleghi si sono messi a ridere. In un suo recente discorso parlamentare, non ha resistito alla tentazione di farglielo notare: “Adesso non ridete più”. Ride ben, eccetera.

    5) La storia ci insegnerebbe che una società multiculturale e/o multietnica non conosce conflitti devastanti solo se governata da un vero e proprio Impero con la maiuscola: con una etnia dominante, una religione civile, un corpus di valori se possibile trascendenti venerato da tutti, un sistema di franchigie per le varie etnie, e un lungo percorso di avvicinamento alla piena cittadinanza per le etnie dominate pesato col bilancino politico dall’etnia dominante. Vedi Impero Austro-Ungarico, Ottomano, Britannico, Romano.

    La UE non è un Impero.

    In uno Stato Nazione democratico, dove una testa vale un voto, una società multiculturale e multietnica è la ricetta per la guerra civile, perchè le linee di faglia politiche e culturali sono molteplici, così che alla prima scossa di terremoto le devastazioni si moltiplicano e possono divenire davvero terrificanti. Per esempio, i partiti politici tenderanno a trovare i loro elettori sulla base delle divisioni etnico-religiose, e quando andranno al governo avranno perlomeno la tentazione di servirsi del monopolio della violenza che gli garantisce il governo dello Stato contro le altre etnie e religioni. Vedi Libano, paesi africani come il Rwanda, Algeria, di recente Egitto, etc. Lo Stato Nazione, per non essere disfunzionale, deve avere una cittadinanza il più possibile omogenea sul piano culturale, etnico, religioso.

    La UE non è uno Stato Nazione.

    6) La UE non è un Impero, non è uno Stato Nazione. Che cos’è? E’ una forma politica disfunzionale in corso di disgregazione, che ha già fatto abbastanza danni all’Europa quando sembrava vitale e si spera non ne faccia di peggiori adesso che declina e muore.

  15. Ma tutti questi intellettuali lo sanno che se il livello della borsa rimane più o meno invariato ma la moneta di riferimento si è deprezzata a livelli che non si vedevano da circa 30 anni, significa che la borsa ha perso in valore?

  16. In realtà Angelo, le cose appena più complicate. Tu vedi le cose dal punto di vista dell’investitore internazionale, evidentemente perchè ormai hai assimilato la globalizzazione come sistema di riferimento. Visto da parte del piccolo risparmiatore britannico, le cose stanno diversamente, il suo titolo si è deprezzato nella stessa misura della sua moneta e quindi il suo potere d’acquisto si è mantenuto constante a meno di movimenti inflattivi di cui finora non si ha notizia.

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