cropped-maturità-2016-materie-1024x681-1.jpgdi Francesco Rocchi

Ecco, gli Esami di Stato, o “maturità” come tutti continuano a chiamarli, sono ormai praticamente esauriti, anche quest’anno. Il rito è stato portato a termine, il copione è stato recitato un’altra volta, e voi, cari studenti, avete avuto il vostro momento di pathos.

 Pathos profondo e da voi sinceramente vissuto, e che probabilmente è stato l’unica parte reale ed onesta in quella che altrimenti è poco meno che una truffa. Studenti miei, è bene che lo sappiate, se alcuni di voi non l’hanno già intuito: è stato tutto uno scherzo. Un gioco delle parti che probabilmente troverebbe il plauso di Pirandello, ma come spettacolo teatrale, non come momento finale di un lungo percorso scolastico.

Perché dico questo? Perché mi permetto di essere tanto tranchant? Perché, ragazzi, l’esame non l’avete fatto soltanto voi quest’anno, ma anche io, ovviamente da commissario (esterno, per la precisione). Vedevo la vostra ansia, e vedevo il dietro le quinte. Non che ci sia nulla di particolarmente arcano nell’attività di un commissario, ma il contrasto rimane stridente lo stesso. La sensazione straniante e stranita, poco piacevole, di una generale mancanza di senso in quel che stavo facendo.

Ma entriamo più in dettaglio. Vi devo una spiegazione, dopotutto. Cominciamo dalla questione della commissione mista. Avete passato mezzo anno scolastico ad avere paura dei commissari esterni, mentre quelli interni sono diventati i vostri numi tutelari. Vi siete chiesti il perché dell’esistenza stessa dei commissari esterni? La domanda può sembrare banale, tanto ovvio siamo abituati a considerare la cosa, ma non lo è affatto.

La spiegazione standard la conosciamo: il commissario esterno è più oggettivo, meno coinvolto, meno interessato a promuovere “a prescindere”. Di contro, il commissario interno è buono, mite, comprensivo e, quindi, poco oggettivo, solo che conosce i candidati, e con questo dovrebbe poter fornire un’adeguata contestualizzazione agli sforzi e ai risultati di voi ragazzi. Nell’insieme, questi due opposti poli dovrebbero generare una commissione equilibrata.

E’ un vero peccato che tutto questo non stia insieme e che finisca per non avere alcun senso, ad uno scrutinio più vicino. Tanto per cominciare, ogni commissario copre una materia diversa dalle altre, spesso radicalmente diversa, e non c’è praticamente nulla che un docente di lettere possa dire a quello di matematica e fisica, o viceversa, in relazione al lavoro svolto in quelle materie. In che modo questi due docenti si dovrebbero influenzare a vicenda? Su che piano dovrebbero incontrarsi? In generale, il punto di incontro si trova ad un livello assai vago e generale, anzi, decisamente generico: “Il ragazzo studia”, “Il ragazzo non si applica”, “Questo è bravino, mentre quest’altro fa tanto ma concretizza poco” e altre amenità dello stesso tipo. Si tratta di quel general-generico, sono costretto ad aggiungere, che nella nostra scuola è tutt’altro che raro e che agli esami trionfa incontrastato.

Un tempo i commissari erano tutti esterni (tanti, ma davvero tanti anni fa) e quest’idea di “bilanciamento” non esisteva, se non per la presenza di un coordinatore che faceva da avvocato del diavolo. Poiché però una commissione del genere oggi pareva troppo difficile (e forse troppo costosa, azzardo), ecco che si è stabilito il principio della commissione mista. Un colpo al cerchio e l’altro alla botte, ma senza che ciò abbia nulla a che vedere con alcun criterio logico e disciplinare.

In realtà, la presenza di commissari esterni ha una ragione più profonda di quella che ci raccontiamo di solito. E questa ragione è la fondamentale sfiducia che lo Stato italiano ha per i propri docenti. Lo Stato evidentemente pensa che i professori curriculari, quelli che conoscono gli studenti, non farebbero un buon lavoro se lasciati a sé stessi. Può sembrare ovvio, anche questo, ma non lo è affatto. E’ solo l’abitudine che ci porta a crederlo. Siamo infatti abituati ad una pubblica amministrazione in cui si dà per inteso che il sottoposto sia renitente alle indicazioni del superiore, e che il superiore sia a sua volta un satrapo arbitrario. Un retaggio arcaico tra il tardo-antico e il fascista, fatto di gerarchie verticali in cui ogni livello dell’amministrazione è sostanzialmente indifferente a quelli che ha sopra e sotto, e in cui ogni impiegato lavora bene soltanto sotto l’influsso del timore della punizione. Non penso certo che nella scuola, come nel mondo del lavoro, tutto debba funzionare sulla base di un’allegra fiducia in tutto e in tutti, ma in un’amministrazione sana e funzionante la fiducia -una fiducia non cieca e priva di controlli, beninteso- è fondamentale. Ed è proprio la fiducia che manca nella scuola.

Un commissario esterno non è diverso in nulla dal commissario interno, tant’è vero che lo stesso professore che un anno accompagna la propria classe alla maturità, l’anno dopo viene mandato da qualche parte a fare l’occhiuto membro esterno. E’ solo il fatto di essere esterno che lo qualifica, null’altro: non l’esperienza, non l’anzianità, non il curriculum. Solo l’estraneità. Un’estraneità che, in teoria, dovrebbe preservarlo dall’influsso corruttivo dell’ambiente, e dargli una severa autorità. Nell’immaginazione del burocrate che ha inventato questo sistema, il tetragono commissario esterno sarà quello che senza fallo smaschererà quei sei del professore interno che in realtà sono dei quattro, quegli otto che in realtà sono dei sei, e così via. Perché un professore interno debba regalare voti non è chiaro, ma l’importante non è capire donde sortirebbe tanta generosità da parte degli interni, bensì correggere i voti e fare finta di nulla.

La cosa buffa, infatti, è che una volta che sia stato sancito che i professori interni hanno regalato i voti, tutto continua come prima: i docenti interni ritornano alle loro classi e ai loro voti presumibilmente gonfiati, e ci penserà qualche altro commissario esterno l’anno successivo a ristabilire il giusto equilibrio. Non c’è l’intenzione di riflettere insieme con i docenti interni e di cercare di migliorare i loro modi e criteri di valutazione: si dà per inteso che il mondo vada così, e che sia sufficiente mandare un docente esterno dopo cinque anni di scuola a rimettere a posto le cose. Il professore interno è fatalmente inaffidabile, ma il suo influsso negativo non può essere eliminato, bensì soltanto tollerato e corretto: non è concepibile che le cose possano essere altrimenti che così.

Se mi si permette l’excursus, è lo stesso principio – la stessa forma mentis – che vediamo in azione nel sistema delle graduatorie per l’assunzione dei docenti: il sistema assume che i dirigenti scolastici, se lasciati a se stessi, recluterebbero soltanto amici e parenti, ragion per cui sottrae loro la tentazione e stabilisce graduatorie automatiche, lasciando al loro posto dirigenti che si presumono corrotti, ma che non si intende sostituire, come se questa particolare forma di corruzione fosse congenita ed inevitabile in ogni preside. Allo stesso modo, si tollera che i docenti interni mettano voti sostanzialmente inaffidabili, e che continuino a farlo indisturbati.

C’è qualcosa di cinico, in tutto questo, di machiavellico pessimismo, ma vi siamo completamente assuefatti. Ma se pensate che le mie elucubrazioni siano troppo negative, ragazzi, potete analizzare il vostro esame su un piano più banale e minuto. Come pensate che siano state formate le vostre commissioni? L’esame è il momento clou del vostro percorso scolastico, e sapete – perché vi è stato ripetuto fino allo sfinimento – che per esso dovrete dare del vostro meglio. Come vengono nominati quei commissari che devono raccogliere dalle vostre mani il meglio che sapete fare? Pensate forse che i docenti nominati abbiano particolari abilità, competenze o anche soltanto particolare esperienza?

Non illudetevi. Il gioco delle nomine ha un solo vero principio: risparmiare. Sì, certo, i docenti con maggiore anzianità sono preferiti, ma più importante ancora è che un docente non viva lontano dalla scuola cui viene destinato: le indennità di trasferta costano care all’amministrazione, e soldi da buttare non ce ne sono. Quindi non è raro che come commissario esterno si trovi nominato qualcuno che ha molta meno esperienza del docente curriculare, o gente alle primissime armi, o un pensionato. In definitiva, i commissari esterni altro non sono che il rimescolamento confuso e abborracciato dei professori della provincia. Reso tanto più insensato dal fatto che poi, alla fine, questi professori si conoscono un po’ tutti, e si creano le più classiche pastette: io vengo alla tua scuola, ma poi tu verrai alla mia; quest’anno tu hai una quinta ma l’anno prossimo ce l’ho io, e così via. E tanti saluti all’estraneità.

Un tempo questo rimescolamento poteva avere anche un senso: in una scuola rigidamente centralistica, in cui i programmi ministeriali erano prefissati e vincolanti e il percorso quanto più omologato in tutte le scuole, il rimescolamento poteva anche essere una sorta di garanzia, per quanto flebile ed ingenua, che ogni classe fosse indotta a fare le stesse cose delle altre (torniamo alla sfiducia…). Oggi però la scuola vuole e deve essere autonoma e personalizzata, e non ha senso pretendere l’omologazione degli apprendimenti: i percorsi sono (un po’) più liberi, i progetti extracurriculari ampliano molto l’orizzonte, gli stimoli culturali sono sempre più vasti sempre meno facilmente categorizzabili.

Eppure è proprio questo che l’esame di maturità genera, ancora oggi: omologazione. Il timore panico del commissario esterno tarpa le ali ad ogni innovazione, che potrebbe risultare non compresa o apprezzata. Ciò che è facile e rodato prevale inevitabilmente su ciò che è nuovo e ancora poco noto, e il timore di un fallimento agli esami delegittima sistematicamente il docente che prova a percorrere nuove strade. Tutto deve rimanere simile a se stesso.

Ma qual è il senso di quest’uniformità? In alcuni contesti, l’uniformità un senso ce l’ha. Negli esami di Stato per le varie professioni, per quanto corporativi possano essere, il principio è chiaro: i professionisti di un certo mestiere vogliono essere sicuri che i nuovi membri non vadano al di sotto di un certo standard qualitativo, e li mettono alla prova. Lo standard potrà essere discusso, ma non è disancorato dalla realtà: i medici non devono combinare pasticci con la salute dei pazienti, gli avvocati non devono lasciare nelle peste i loro assistiti, i ponti degli ingegneri non devono crollare.

Quale ancoraggio alla realtà hanno gli esami di Stato della scuola superiore italiana? Ormai nessuno: alle università del voto di maturità importa sempre meno, e i datori di lavoro ci contano ancora meno. Ogni professore ha le sue idee didattiche, in virtù della libertà didattica sancita dalla Costituzione, e finisce semplicemente per replicarle senza alcun vincolo o stimolo a cambiarle. Nel caso del commissario esterno, queste idee didattiche, buone o cattive che siano, vengono riversate su un gruppo casuale di studenti che non ne sanno nulla.

E come ciliegina sulla torta, l’esame da solo ha un peso enorme rispetto al lavoro degli anni precedenti: uno studente si gioca cinque anni di lavoro in poche prove mal congegnate, e per le quali si è preparato senza avere chiari punti fermi. La preoccupazione dello studente medio quindi non è controllare di aver capito qualcosa delle proprie materie, di averne capito il senso profondo e lo statuto epistemologico, ma di imbroccare quelle quattro nozioni che un commissario esterno potrà valutare positivamente.

Tra paura, casualità, calcoli algebrici, liti dei commissari, tira e molla tra interni ed esterni, quel che rimane è davvero poco. Soltanto colore e tradizione. Facciamoci un favore, allora. Lasciamoli perdere questi esami. Aboliamoli. Per la goliardia troveremo qualcos’altro, ma risparmiamoci quest’inutile perdita di tempo e spreco di denaro. Tagliamo tutto di netto e i soldi risparmiati usiamoli per rimpinguare lo stipendio di tutti docenti, non soltanto di quelli destinati dalla lotteria dei provveditorati al noioso ruolo di commissario.

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[Immagine: esami di maturità]

 

 

13 thoughts on “Contro gli esami di stato

  1. Per molti ragazzi questo è l’unico esame della vita. Conterà anche poco nella realtà, ma segna un momento di passaggio. Molti allievi (non tutti) tirano fuori risorse impensabili, un certo impegno, una buona presentazione….altri,magari bravi,si fanno sopraffare dall’ansia. Emergono aspetti nuovi e insoliti degli allievi,spesso questa loro prestazione anticipa discrete, brillanti o scialbe carriere universitarie.
    La fine di un percorso va in qualche modo segnata, almeno psicologicamente. Non sono assolutamente per l’abolizione dell’Esame. Con l’attuale sistema vi è una maggiore tutela,più o meno un’ipotesi di voto può essere fatta prima ed il voto è molto meno discrezionale di quello del passato in sessantesimi, con valutazione secca.
    Fosse per me , farei una commissione con tutti esterni.

    Da docente posso comunque dire che è sempre un momento di confronto,sia da interna che da esterna: vedo il lavoro degli altri, vedo le loro sperimentazioni. Da interna correggo e mi confronto con altri, che di solito colgono aspetti nei miei alunni differenti da quelli che rilevo io. Per me è un momento di crescita professionale molto costruttivo. In quindici anni ho imparato molto. Anche quest’anno i rilievi dell’esterno sulle mie classi sono stati preziosi;ovviamente frutto del suo punto di vista, ma da non trascurare. C’è sempre qualcosa da imparare. Forse manca questo,un momento di confronto tra i docenti.
    Sull’incompetenza di molti commissari non so cosa dire: c’è,è vero, non è colpa del sistema,sono gli stessi insegnanti ad essere incompetenti durante l’anno scolastico e altrettanto all’esame.
    Per fortuna non ci sono ovunque combìne e spesso si riesce a lavorare bene. Sarà forse la mia provincia un’isola felice…..
    Non toglierei l’esame, cercherei dei meccanismi per renderlo più omogeneo.

  2. Sostanzialmente sono d’accordo con Francesco Rocchi nel ritenere che attualmente l’esame di maturità dimostra poco o nulla, tuttavia ritengo che la sua abolizione, con conseguente abolizione del valore legale del titolo di studio e sostituzione con prove di accesso all’università e al mondo del lavoro potrebbe non essere l’unica alternativa.

    Si potrebbe pensare, come in questa sede ho già detto altre volte, a un esame con una commissione di soli esterni e a comunicare già ad inizio anno di una rosa ristretta di temi che potranno essere presenti in ciascuna delle prove scritte (ad esempio, già a settembre si anticipa che la prima prova nella tipologia dell’analisi del testo potrà consistere in un brano di Pirandello, Saba o Calvino, che nella tipologia del saggio breve può consistere nel tema dell’immigrazione, o della famiglia nella storia, o del rapporto tra arte e lavoro, analogamente per la seconda prova di matematica dello scientifico si elencano a settembre cinque o sei problemi possibili come i massimi o i minimi relativi di una funzione oppure descrivere come è un arco di circonferenza dentro un triangolo…). Inoltre la terza prova potrebbe essere un test a risposta chiusa uguale in tutte le scuole di un certo tipo (stessa terza prova in tutti i licei classici, in tutti i licei scientifici e così via…) con una griglia di valutazione unica a scala nazionale e infine la riduzione dell’orale non più esteso a tutte le materie (dunque via cose inutili come la tesina) ma a quelle in cui la prova orale è indispensabile, ovvero gli orali di lettere e quelli di lingue straniere. Mi sembra sinceramente qualcosa di fattibile e di realmente serio, certo è meglio non avere alcun esame piuttosto che avere esami che non misurano quasi nulla delle reali conoscenze e competenze degli studenti, come di fatto sono gli esami attuali.

  3. È stata la mia prima maturità dall’altra parte della cattedra: insegno da due anni in una scuola superiore ed ho insegnato quattordici anni alle scuole medie. Scelta come supplente “al volo” dal provveditorato, ho vissuto un’esperienza tremenda, che mi vede sostanzialmente d’accordo con l’estensore dell’articolo; grazie a tale esperienza ho rivisto la mia romantica idea della “prova d’iniziazione” quale credevo fossero gli esami di “maturità”. Mi è stato detto, con una straordinaria supponenza ed acredine, che il mio sgomento di fronte ad orali sciatti e superficiali che per legge (!!!) devono partire dall’argomento di interesse personale (tesine scopiazzate, o costruite senza criteri di attendibilità scientifica, o esposte a pappagallo, o con un’arroganza inaudita e via dicendo) insomma, mi è stato assicurato che il mio sgomento verrà mitigato dopo almeno cinque anni di questa esperienza che, ora posso dirlo con qualche titolo in più, non serve a nulla. Guardando i voti finali dei miei studenti, che hanno sostenuto questi “esami” con altre persone, tali voti rispecchiano i risultati complessivi della loro carriera scolastica. Allora, a che servono gli esami? Così, proprio a nulla. O si fanno seriamente, per prima cosa eliminando queste squallide tesine, o si fanno esami all’inizio di ogni anno, dopo l’estate, per garantire l’accesso ad ogni anno di studenti realmente prepararti a sostenere il nuovo programma didattico, o si eliminano del tutto: mi risulta che altri Paesi si siano orientati verso quest’ultima soluzione.

  4. Dopo quasi trent’anni di esperienza, posso solo essere d’accordo con Bradamante. Gli esami sono, per i ragazzi, una delle poche esperienze intense nell’era in cui qualcuno parla di “fine dell’esperienza”, una prova di iniziazione tanto più necessaria in una società dove pare che l’adolescenza miri a prolungarsi fino ai cinquant’anni e oltre. Non sempre le cose vanno bene, non sempre i commissari sono preparati, è ovvio. Spesso, però, l’esperienza è positiva e utile per tutte le parti in gioco. Curioso, inoltre, che l’intervento sembra ignorare che per alcuni anni, neppure troppo lontani (era ministro la Moratti) la commissione è stata composta unicamente da interni. Il cambiamento non era stato affatto bene accolto dagli insegnanti, che ripetutamente testimoniavano l’inefficacia e l’inutilità di siffatto esame. Si era tornati, così, alla commissione mista. Certo, la cosa migliore sarebbe tornare a come era stato fino agli anni ’90, ossia alla commissione totalmente esterna, con possibilità di essere mandati da Torino a Palermo e viceversa. Anni lontani, è vero, e – alla luce del poi – particolarmente positivi per la scuola italiana (dal modulo alle elementari al Progetto 92 per i professionali ai programmi Brocca per il biennio delle superiori…). Non ce ne rendevamo conto, il mugugno c’è sempre stato. L’esperienza porta a rivalutare e rimpiangere ciò che non era affatto scontato e che non tornerà più.

  5. C’è molta verità in quello che dice Rocchi. Nonostante questo, dico tre volte no a questa che ormai è una collaudata retorica: abolire, abolire, abolire. Anche perché a dire che l’Esame di Stato andrebbe abolito (almeno questa forma) prima di Rocchi è stato Gavosto, Fondazione Agnelli. Se i posizionamenti ideologici ancora contano qualcosa, facciamoci due domande.

    La vita è mediocre, sporca, al di sotto di ogni ragionevole compunzione, inefficiente, stupida. Aboliamola e aboliamoci e andiamo in vacanza, a questo punto.

    Soprattutto aboliamo ogni evento umano simbolico (sì, un rito di passaggio, come si dice qui sopra), perché noi adulti siamo ormai troppi razionali, occhiuti, efficienti, insofferenti, miglioristi e democratici, per tollerare la realtà.

    (Per argomenti più analitici e intelligenti di queste mie sciocche illazioni, rimando a Durando qui sopra)

  6. Aggiungo solo che, come si poteva intuire dal mio intervento di prima, la mia proposta di riforma dell’esame di maturità era mirata ad evitare che in una scuola un certo tema che compare in esame durante l’anno si sia studiato per sole otto ore, mentre in un’altra scuola quello stesso tema è stato studiato il triplo di ore o di più, nonché l’arbitrarietà di fatto delle valutazioni, specie nella terza prova (diseguale per tutte le materie) e nell’insensato orale.

    Potete tirare in ballo il bisogno di percepire “psicologicamente” la “fine di un percorso”, il “valore simbolico”, il “rito di passaggio”, aggiungiamo pure le canzoni di Venditti e varie commedie adolescenziali ma il problema comunque rimane, ovvero che sempre meno l’esame di maturità viene considerato nell’accesso all’università e al mondo del lavoro e dunque occorre ridiscutere la sua modalità al fine di ridare ad esso un valore effettivo nel valutare conoscenze e competenze dei ragazzi.

    Ciao.

  7. “ Venerdì 26 gennaio 1996 – Dopo trent’anni mi chiedo ancora se fu giusto che quel professore giovane mi bocciasse in italiano all’esame di maturità. Certo, a quel tempo ero un po’ trombone, un po’ troppo facondo, un po’ troppo sicuro di me. Ma che Walter Scott si dice « Uolter » e non « Valter » lui non poteva non capire che lo sapevo benissimo, a meno di non volermi stangare – con l’incontrollabilità di un raptus, mi ricordo perfettamente. Lui aveva un’aria di povero Cristo, e io ero un giovane fortunato e atletico. Penso che fosse comunista. “.

  8. Ringrazio tutti quelli che sono intervenuti per i loro commenti. Qualche risposta qui di seguito.

    @Bradamante

    Il momento di confronto con la docente che ha insegnato italiano ai miei candidati l’ho avuto: ho visto il loro programma, i testi letti, con la professoressa ho anche scambiato qualche parola. Questo è stato il massimo che si poteva avere, realisticamente. A me sembra un bilancio piuttosto povero, laddove invece sarebbe bello avere un forum o una piattaforma di confronto istituzionale e partecipata.

    Non riesco nemmeno a credere, e con questo rispondo anche a @Paolo Durando, che l’Esame di Stato sia “l’unico esame della vita” o “un’esperienza intensa” di iniziazione. Ci sono un mondo ed una vita oltre la scuola, non dimentichiamolo, e non cediamo ad una facile retorica dal sapore nostalgico. La scuola prepara al resto della vita, o almeno offre qualche strumento, e il bello viene dopo. Ben triste deve essere la vita di chi, alla fine della scuola, si sta lasciando dietro il meglio! Concordo molto, in questo senso, con il secondo commento di Michele Dr, che mi pare si sia espresso in maniera efficace.

    In ogni caso, la scuola ha effettivamente un problema di autoreferenzialità: quel che si fa a scuola resta a scuola, in una sorta di bolla. Molto più interessante sarebbe se i ragazzi avessero riscontri esterni e vedessero il loro lavoro messo a contatto con persone che non siano una sorta di genitore vicario quale è il docente. Ma non si vede perché questo debba avvenire una volta sola in cinque anni, in maniera iper-burocratizzata, con assurde medie matematiche, con prove di dubbio valore e con docenti scelti a casaccio.

    @Daniele Lo Vetere

    Quali due domande?

  9. Aldilà della descrizione caricaturale degli esami di stato e di alcune osservazioni di varia umanità che non hanno particolare attinenza con il problema, varrà la pena di ricordare che sotto il ministero Moratti tra il 2002 e il 2006 gli esami di stato furono aboliti de facto anche se non de jure con una commissione di soli interni. La commissione con metà degli esterni fu frettolosamente reintrodotta da Fioroni perché si era creata una gigantesca sperequazione a favore delle scuole private nei voti che rischiava di minacciare il funzionamento del sistema scolastico e penalizzava gli allievi della scuola pubblica: i fatti sono questi, tutto il resto è ideologia.

  10. Quindi manteniamo tutto questo circo, che costa un botto, solo per tenere bassi i voti delle paritarie, che per le superiori sono il 12% del totale?

  11. a Daniele Lo Vetere:

    Bravo!

    Aggiunta: aboliamo anche gli esami da capostazione. Tanto poi se si sbaglia la telefonata e c’è il patatrac si può sempre dichiarare: “Ho sbagliato, non è solo colpa mia, sono una vittima anch’io.”

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