di Ross Gay
alcune poesie nella versione di Damiano Abeni e Moira Egan
[Ross Gay è nato nel 1974 in Ohio, è cresciuto in Pennsylvania e oggi insegna alla Indiana University di Bloomington. La sua terza raccolta di poesia, Catalogue of Unabashed Gratitude (University of Pittsburgh Press, 2015), ha vinto nel 2015 il National Book Critics Circle Award e nel 2016 il Kingsley Tufts Poetry Prize, ed è stato finalista, sempre nel 2015, del National Book Award.
Come il suo fisico imponente (ha giocato come defensive end a football americano e come ala a pallacanestro) si sposa con naturalezza alle piccole cose che costellano le sue poesie, frutti, fiori, ortaggi, bottoni, formiche…, così i grandi temi della crisi americana di oggi – la violenza razziale, l’omofobia – trovano una dimensione quasi domestica nel suo lavoro. Ma questa umanizzazione del disastro avviene senza alcuna debolezza, senza alcuna concessione al dubbio, con una lucidità che in qualsiasi altro contesto parrebbe addirittura freddezza. L’inflessibile tenerezza del lavoro di Ross Gay è ben esemplificata dalle due elegie qui presentate. La prima è già largamente antologizzata e “insegnata” in varie università americane, nonostante sia stata scritta recentemente, dopo l’uscita del pluripremiato Catalogue. La seconda (di cui qui, https://soundcloud.com/inreview/ross-gay-spoon si può sentire la lettura del poeta), riconosciuta tra i brani più significativi di questi ultimi anni.
“Diventare cavallo”, la terza poesia di questa scelta, testimonia la dinamicità creativa che scaturisce dal rapporto fisico, diretto, tra l’autore e la realtà naturale che lo circonda: in Mark Strand l’uomo si trasformava in cane dopo aver “mangiato poesia”, qui il poeta metamorfosa con il toccare l’animale, non l’opera, – e questo mutamento, per quanto dolcissimo, lo porta a ripudiare le proprie parole “in cambio della lenta e onesta lingua dei cavalli”.
Con Ross Gay Le parole e le cose inaugura una serie di presentazioni di poeti vincitori di una fellowship presso il Civitella Ranieri Center. Un grazie alla direttrice, Dana Prescott, e a tutti i suoi collaboratori].
Un piccolo fatto indispensabile
È che Eric Garner ha lavorato
per qualche tempo nel Servizio Parchi
e Giardini, il che vuol dire,
forse, che con quelle sue mani enormi,
forse, con ogni probabilità,
ha messo con delicatezza a dimora
alcune piante che, probabilmente,
alcune di queste, con ogni probabilità,
continuano a crescere, continuano
a fare quello che fanno le piante, come ospitare
e nutrire creature piccole ed essenziali,
come essere piacevoli al tatto e all’odorato,
come convertire la luce del sole
in cibo, come aiutarci un poco
a respirare.
[“Non riesco a respirare” è l’ultima frase, ripetuta undici volte, da Eric Garner, il 45enne afroamericano morto soffocato da un agente della polizia di New York il 17 luglio 2014 durante un controllo per vendita illegale di sigarette]
A Small Needful Fact
Is that Eric Garner worked
for some time for the Parks and Rec.
Horticultural Department, which means,
perhaps, that with his very large hands,
perhaps, in all likelihood,
he put gently into the earth
some plants which, most likely,
some of them, in all likelihood,
continue to grow, continue
to do what such plants do, like house
and feed small and necessary creatures,
like being pleasant to touch and smell,
like converting sunlight
into food, like making it easier
for us to breathe.
Cucchiaio
Per Don Belton
Chi si siede così sul pavimento in cucina
alle due del mattino girando e rigirando
il piccolo corpo muto tra le mani
tastando a occhi chiusi i flessuosi
viticci d’edera delicatamente modellati sul cucchiaio
tornato a casa con me otto mesi fa
da una cena di compleanno dal vicino durante la quale
il festeggiato così fatto di fumo
e alcol e torta è come tornato bambino
e si è addormentato sul pavimento con il pollice
in bocca fino a quando non caracolla nel mio giardino
entrandomi in casa il mattino dopo mentre cuocevo
in padella frittelle di patata dolce, e facendo
come fosse a casa sua, come faceva di solito,
dopo aver assaggiato uno dei miei mattoncini
mi disse che forse potevo aggiungere del lievito chimico
alla sua frittella e che potevo anche mettere su il caffè
e alzare il volume a Nina Simone e, forse, massaggiargli
un po’ i piedi, cosa che ho fatto, il lievito chimico,
mescolandolo bene, e mi piace pensare,
per quanto assai improbabile, che siano state le migliori frittelle
che Don abbia mai mangiato, perché c’era l’olio di cocco biologico
e lo sciroppo comprato da quel tipo che urla
al mercato, con il cappellino arcobaleno,
che balla per dissimulare il suo dolore,
e forse si tratta di un pensiero ridicolo,
ma le patate dolci venivano da una parcella
appena fuori dalla mia porta sul retro, soffocavano
l’erba con i tralci e facevano la loro parte
nel far sembrare il mio giardino selvatico e incolto
all’occhio inesperto, il cavolo nero e la bietola così floridi
che alcuni ceppi trascurati si infilavano nella pacciamatura
e i pomodori ciliegini brillavano come palline
su un albero di natale ubriaco e i tralci dei rovi
si facevano strada coi denti tra la ruggine della spalliera rachitica,
e questo è l’Indiana da dove davvero non vengo, dove,
per anni, ai Negri non era nemmeno concesso di entrare,
e dove le scritte nei cessi degli autogrill possono confermare
il persistere di tali sentimenti, e quando ho detto a Don
di essere preoccupato, una sera fresca di settembre,
preoccupato che l’orto sarebbe potuto sembrare…
Don, nella sua traboccante, floreale bontà, compresa la mia ansia
prima che la enunciassi, uomo di mondo, che settimane prima
era andato a Martinsville in cerca di pezzi d’antiquariato
ed era stato apostrofato nel modo più malevolo da un camion di passaggio
o due, camion probabilmente decorati a stelle e strisce,
che ben conosceva i tifoni che la razza induce le nostre menti a creare,
rigirandosi un dreadlock in una mano e dandomi una pacca con l’altra
chiese, sorridendo triste e sapiente: … negroide?
prima di dire: è bellissimo, tornando così a tormentarsi
per il giovane giardiniere dei suoi sogni,
dai calzoncini corti molto corti, la pancia tanto tirata
e oleosa che ci si poteva specchiare.
Don me lo disse mentre passeggiavamo sottobraccio
per il nostro piccolo quartiere, dopo
avermi chiesto se era cosa che si poteva fare,
è ok?, aveva chiesto, sapendo per lo più
quanto densa e affilata la stupida paura
dei ragazzi per lo più tendenti all’etero possa essere – oh, Don –
passeggiare sottobraccio, spalla a spalla,
la sua mano che quasi mi batteva leggera sul braccio, ci si riposava,
lungo il vicoletto che costeggia il cimitero,
con l’autunno che cominciava a rabbrividire nelle foglie,
e Don una volta aveva sognato di trovarsi in quel cimitero,
vicino a casa sua sulla 4A strada, dove nella vita reale
cantavamo “Missing You” di Diana Ross mentre ripitturavamo
la cucina, in cui una volta gli ho chiesto in prestito
una copia firmata di un romanzo di Jamaica Kincaid al che
Don ha come sibilato tirando dentro l’aria tra i denti per dire
che ero inverosimilmente stupido ma piuttosto carino
e nel sogno del cimitero
in cui querce centenarie sembrano giganti che arrancano
contro un forte vento, dove alcune lapidi sono tanto vecchie
che non ci si legge niente e si chinano all’indietro come per
interrogare il sole, Don veleggiava
a mezz’aria il che, piacevole all’inizio,
diventò terrificante, mi confessò, mettendosi a piangere
ma solo un poco, mentre il mondo sotto di lui
si faceva sempre più piccolo, la sua casa diventava
un giocattolo, gli enormi rami degli alberi come braccia,
ormai, di persone minuscole, che lo richiamavano giù, ma lui
non poteva smettere di salire sempre più in alto, disse, piangendo,
ma solo un poco, e io mi sono infilato
due o tre volte nel sogno, immaginandomi una corda
che gli cingeva i fianchi grazie alla quale Don lo si poteva tenere
legato a questo mondo, afferrandola mentre si sdipanava
a frustate nell’erba ai miei piedi, e stringendola
con tutta la forza mentre quasi mi solleva in aria
e si porta la pelle dei palmi con sé, ondulando lenta in cielo
al che divento come gli alberi qui sulla terra che gridano
Torna, torna,
percorrendo qualche isolato di corsa con gli occhi al cielo, prima
lungo la 4A strada, ma con il vento che lo sospinge qui e là
anch’io scarto dentro ai giardinetti, scavalcando staccionate
non volendo levargli gli occhi di dosso,
non volendo perderlo, mentre veleggia
dentro e fuori dalle nubi e guarda in basso
con quei suoi occhi tristi, proprio come
quando a colazione aveva detto: Sono un sopravvissuto, sono sopravvissuto,
quest’uomo di cinquanta tre anni, nero, omosessuale,
al che facemmo come un piccolo balletto
elencando la miriade di pallottole che aveva schivato,
facendo volteggiare le frittelle nello sciroppo oleoso, con Don
che ogni tanto infilzava l’aria con la forchetta per drammatizzare,
ridendo e sorseggiando caffè e
scrollando la testa come se non ci credessimo,
ed essendo sopravvissuto Don voleva un bambino da amare,
ed avevamo pensato che io avrei potuto fare un figlio
con la mia bella e che lui sarebbe stato il vero padre, che legge storie
e prepara da mangiare e si preoccupa mentre io mi diverto in giardino
e la mia bella prepara l’impasto per il pane,
il che magari avrebbe anche funzionato,
anche se Don non ha mai lavato un piatto in vita sua, e quando gli ho detto
di mettere il suo cornutissimo piatto nel lavandino, si è agitato
sulla sedia e mi ha dato della troia prima di alzarsi a portarcelo,
tornando poi al motivo delle Destiny’s Child sul sopravvivere
mentre raccoglieva l’impasto residuo per leccarlo con questo cucchiaio
che ho in mano, dentro cui guardo, senza vederci niente di niente.
Ho giurato, quando mi sono infilato in questa poesia, che avrei convertito
questo dolore in una specie di miele, con le minuscole musiche
che qualche volta mi riescono in questi artefatti scribacchiati
della nostra desolazione. Non so nemmeno fare una metafora
dal mio riflesso capovolto e a malapena visibile
nel cucchiaio. Vorrei che anche solo una cosa avesse un po’ di senso.
Al che dico: Ma lascia proprio perdere.
Non è questo che importa.
Dopo l’assassinio di Don, l’ho sognato;
l’abbracciavo e dicevo adesso devi andare,
sistemandogli la sciarpa e stringendogli per bene il cappotto di lana,
piangendo e tirandogli giù il cappello russo di pelliccia
per coprirgli le orecchie, baciandogli occhi e guance
ancora ed ancora, devi andare,
allacciandogli stretto il cappotto, unendogli i baveri,
al che Don mi dette uno sguardo con quei suoi occhi tristi,
e mi penetrò con quello sguardo, mi guardò dentro,
come fanno talvolta i miei morti,
che guardano dritto dentro le loro case
in cui si spera ci siano dei fiori
in un vaso su un grande tavolo di legno,
e un paio di sedie comode,
e finestre grandi da cui la luce
si riversa a mondare, a rendere un po’ meno orribile
ciò che per sempre altrimenti farà male.
Spoon
for Don Belton
Who sits like this on the kitchen floor
at two in the morning turning over and over
the small silent body in his hands
with his eyes closed fingering the ornate
tendrils of ivy cast delicately into the spoon
that came home with me eight months ago
from a potluck next door during which
the birthday boy so lush on smoke
and drink and cake made like a baby
and slept on the floor with his thumb
in his mouth until he stumbled through my garden
to my house the next morning where I was frying up
stove top sweet potato biscuits, and making
himself at home as was his way,
after sampling one of my bricks
told me I could add some baking powder
to his and could I put on some coffee
and turn up the Nina Simone and rub, maybe,
his feet, which I did, the baking powder,
stirring it in, and I like to think,
unlikely though it is, those were the finest
biscuits Don ever ate, for there was organic coconut oil
and syrup bought from a hollering man
at the market who wears a rainbow cap
and dances to disguise his sorrow,
and it might be a ridiculous wish,
but the sweet potatoes came from a colony
just beyond my back door, smothering
with their vines the grass and doing their part
to make my yard look ragged and wild
to untrained eyes, the kale and the chard so rampant
some stalk unbeknownst drooped into the straw mulch
and the cherry tomatoes shone like ornaments
on a drunken Christmas tree and the blackberry vines
gnawed through their rusty half-ass trellis,
this in Indiana where I am really not from, where,
for years, Negroes weren’t even allowed entry,
and where the rest stop graffiti might confirm
the endurance of such sentiments, and when
I worried about this to Don on a cool September evening,
worried it might look…
Don in his kindness abundant and floral, knowing my anxiety
before I stated it, having been around,
having gone antiquing in Martinsville a few weeks back
and been addressed most unkindly by a passing truck
or two, trucks likely adorned with the stars and bars,
knowing the typhoons race makes our minds do,
twirling with one hand a dreadlock and patting my back with the other
asked, smiling sadly and knowingly, niggerish?
before saying, it looks beautiful, and returning to some rumination
on the garden boy of his dreams,
whose shorts were very short, and stomach taut
and oily enough to see his reflection in.
Don told me this as we walked arm in arm
through our small neighborhood,
which he asked me if he could do,
is this ok, he asked, knowing mostly
how dense and sharp the dumb fear
of mostly straigt boys can be – oh Don –
walking arm in arm, sholder to shoulder,
his hand almost patting my forearm, resting there,
down the small alley next to the graveyard,
fall beginning to shudder into the leaves,
and Don once dreamt he was in that graveyard
next to his house on 4th, where in real life
we sand Diana Ross’s “Missing You” while decorating
his kitchen, where I once asked to borrow
a signed Jamaica Kincaid novel at which
Done made one sound by sucking his teeth that indicated
I was both impossibly stupid and a little bit cute
and in the dream in the graveyard
where century-old oak trees look like giants trudging
into a stiff wind, and some gravestones are old
enough to be illegible and lean back as though
consulting the sun, Don was floating
into the air which, pleasant at first,
became terrifying, he told me, beginning to cry,
just a little, as the world beneath him
grew smaller and smaller, his house
becoming a toy, the trees’ huge limbs like the arms,
now, of small people, calling him down,
but he couldn’t stop going higher, he said, crying,
just a little, and I have inserted myself
two or three times into the dream, imagining a rope
cinched to his waist by which Don might be tethered
to this world, snatching it as it whips uncoiling
through the grass at my feet, and gripping it
with all my strength until it almost hauls me up
and takes the skin of my palms with it, twisting slowly into the sky
at which I become like the trees here on earth shouting
Come back, come back
running some blocks looking into the sky,
first down 4th, but as the wind sends him this way and that
I too veer through backyards, hopping a fence or two,
not wanting to take my eyes from him,
not wanting to lose him, as he sails
in and out of the low clouds, looking down
with his sad eyes, just as he did
when he said at breakfast I’m a survivor, I survived,
this 53-year-old gay black man,
to which we did a little dance
listing the myriad bullets he’d dodged,
swirling the biscuits in their oily syrup,
Don occasionally poking his fork into the air for emphasis,
laughing and sipping coffee and
shaking our heads like we couldn’t believe it,
and having survived Don wanted a child to love,
and we made plans that I might make the baby
with my sweetie and he could be the real dad, reading
and cooking and worrying, while I played in the garden
and my sweetheart made the dough,
which maybe would have worked,
though Don never once cleaned a dish, and when I told him
to put his goddamned plate in the sink, he writhed
in his seat and called me bitch before plopping it in,
returning to his Destiny’s Child tune about survival,
while he scooped and slurped the remaining batter
with this spoon in my hands, into which I stare, seeing none of this.
I swore when I got into this poem I would convert
this sorrow into some kind of honey with the little musics
I can sometimes make with these scribbled artifacts
of our desolation. I can’t even make a metaphor
of my reflection upside down and barely visible
in the spoon. I wish one single thing made sense.
To which I say: Oh get over yourself.
That’s not the point.
After Don was murdered I dreamt of him,
hugging him and saying you have to go now,
fixing his scarf and pulling his wool overcoat snug,
weeping and tugging down his furry Russian cap
to protect his ears, kissing his eyes and cheeks
again and again, you have to go,
cinching his coat tight by the lapels,
for which Don peered at me again with those sad eyes,
or through me, or into me,
the way my dead do sometimes,
looking straight into their homes,
which hopefully have flowers
in a vase on a big wooden table,
and a comforable chair or two,
and huge windows through which light
pours to wash clean and make a touch less awful
what forever otherwise will hurt.
Diventare cavallo
Passargli le mani sulla pancia,
allentare il morso e asciugare la saliva
dalla bocca mi ha trasformato
in pugno d’erba tra i suoi denti,
in mosca che gli assaggia l’orecchio.
Toccargli il naso con il mio mi ha fatto capire
il trifoglio che fiorisce, il mio occhio lustro nel suo
mi ha reso partecipe dei segreti del vasto campo.
Ma è stato appoggiare il mio cuore al cuore
del cavallo che mi ha fatto conoscere
il dolore dei cavalli. Il dolore
di un ruscello che increspa un prato. La larva
che gli si muove nel cadavere. Mi ha fatto rinunciare
ai miei pollici in cambio della lucentezza degli zoccoli non ferrati.
E così – mi ha fatto mettere via le mie torce.
E così – mi ha fatto mettere via i miei coltelli.
Mi ha fatto sentire la piccola canzone che cresceva
nel mio petto e il mantello del pelo che brillava e rabbrividiva.
E la mia faccia che si allungava.
E queste parole ripudiate, infine,
in cambio della lenta e onesta lingua dei cavalli.
Becoming a Horse
It was dragging my hands along its belly,
loosing the bit and wiping the spit
from its mouth that made me
a snatch of grass in the thing’s maw,
a fly tasting its ear. It was
touching my nose to his that made me know
the clover’s bloom, my wet eye to his that
made me know the long field’s secrets.
But it was putting my heart to the horse’s that made me know
the sorrow of horses. Made me
forsake my thumbs for the sheen of unshod hooves.
And in this way drop my torches.
And in this way drop my knives.
Feel the small song in my chest
swell and my coat glisten and twitch.
And my face grow long.
And these words cast off, at last,
for the slow honest tongue of horses.
[Immagine: I can’t breathe].
Completamente belle. Traduzioni integrali in vista in italiano con originale a fronte, niente?
Caro Antonio Coda,
magari.
Sono cinque anni buoni che nessuno degli autori che propongo viene accolto da un editore.
Ma forse qualcosa si sta muovendo.
Damiano, sappi che grazie a te ho potuto leggere Strand e che le poesie di Mark mi hanno cambiato la vita.
Quindi grazie ad entrambi.
Con stima e affetto.
Damiano,
cercando in Rete non ho trovato altro, in italiano, sulla produzione poetica di Ross Gay, neanche qualche accenno laterale, e l’idea di acquistare l’edizione originale della raccolta si fa più concreta, anche se la mia dimestichezza con la lingua non è tale da poter apprezzare il verso poetico, come invece è possibile accostandogli la versione in lingua italiana, eccellente come le versioni proposte.
In ogni caso, grazie per le traduzioni e per Ross Gay.
Un saluto,
Antonio Coda