cropped-foto-2.pngdi Calogero Lo Piccolo

[Il testo che proponiamo oggi è tratto, con dei tagli, dal saggio di Calogero Lo Piccolo compreso nel libro a cura di Cavalleri, Lo Piccolo, Ruvolo, con introduzione di Salvo Federico, pubblicato pochi mesi fa da Mimesis L’inutile fatica. Soggettività e disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneo. Il volume rielabora l’esperienza di un seminario dove psicoterapeuti, psicologi del lavoro, attivisti sociali dei Cantieri Culturali della Zisa (Palermo), si sono messi assieme, anche lasciando da parte i tecnicismi delle proprie discipline, per ricostruire delle narrazioni e un orizzonte collettivo di comunicazione intorno alle nuove forme di disagio soggettivo prodotte dagli assetti economici e dalle mitologie del precariato e della flessibilità.
Dopo una Prefazione (di Salvatore Federico), i saggi compresi nel volume sono: L’inutile fatica di essere se stessi (Calogero Lo Piccolo); La fatica di essere creativi (Salvatore Cavaleri); Il narcisismo e la Polis (Giuseppe Ruvolo); Qualche considerazione su La fatica di essere se stessi di Ehrenberg (Luigi Ferrari); Senza madri (F. Berardi) (dbr)]

Son trascorsi quasi vent’anni da quando Alain Ehrenberg si è interrogato sulla natura sociale della epidemia depressiva che da tempo attraversa la società francese, e non soltanto quella.

Titolava il suo lavoro La fatigue d’étre soi.

Sottotitolo:Dépression et société .

La domanda guida che attraversa tutta la riflessione interroga non soltanto sul cambiamento di natura delle sindromi depressive dei secoli scorsi, ma anche su quale siano le questioni che oggi sostanziano il vissuto depresso.

L’ipotesi di Ehrenberg è che la transizione dalle sindrome melanconiche psicotiche del passato alle miriadi di forme depressive contemporanee si imperni tutta sulle profonde trasformazioni che hanno attraversato nelle nostre rappresentazioni mentali e culturali le nozioni di soggettività e di soggetto.

La depressione è oggi l’unità di misura delle molte variabili in cui si scompone il disagio interiore. Per tutti gli anni ’40 essa è stata solo una sindrome comune a gran parte delle malattie mentali, di scarso rilievo sociale. Nel 1970 la psichiatria dimostra invece, cifre alla mano, che la depressione è il disturbo psichico più diffuso al mondo, mentre gli psicoanalisti annoverano tra i loro pazienti una quantità crescente di depressi. (A. Ehrenberg: 1998)

Questo è l’incipit del testo, lungo cui si dipana una densa dissertazione sul senso contemporaneo del dato epidemiologico.

La tesi di fondo, già molto nota, è che le vecchie tipologie depressive un tempo legate al costrutto di colpa, si attualizzino oggi attorno ai costrutti di inadeguatezza e vergogna, ciò ovviamente sulla base delle trasformazioni culturali che hanno attraversato il concepimento stesso di soggettività e del soggetto.

La depressione si assicura il successo nel momento in cui il modello disciplinare di gestione dei comportamenti, ossia le regole d’autorità e di conformità ai divieti che finora hanno orientato la storia delle classi sociali così come quella dei due sessi, devono far posto a norme che stimolano ciascuno all’iniziativa individuale, sollecitandolo a diventare se stesso. Conseguenza di questa nuova normatività la intera responsabilità delle nostre vite si colloca non solo in ciascuno di noi ma anche nello spazio collettivo: La depressione si presenta come una malattia della responsabilità in cui domina il sentimento di insufficienza (ibid.)

L’aspetto interessante del discorso è che l’imperativo ad essere se stessi ha avuto una ricaduta di tipo clinico, un’altra di tipo sociale e politico, e su questo intreccio critico vorremmo provare a ragionare oggi, non solo per valutarne gli incastri indubbiamente problematici, ma anche per cominciare a coglierne i potenziali creativi e le possibili vie d’uscita dal disastro.

La prima questione fondamentale da evidenziare è cosa ha voluto dire, negli ultimi decenni, essere se stessi? Su quali modelli sociali si è modellato l’ideale percorso di soggettivazione personale, quale ordine del discorso ha attraversato e attraversa il dover essere, con quali ricadute, ma anche a pro di che.

Per dirla alla Foucault, come si dispiega oggi la bio- politica e la microfisica del potere?

Tutte le analisi sono molto concordi nel rintracciare il punto di svolta nella transizione da un regime normativo ad uno apparentemente più libertario, in cui i percorsi individuali possibili non sono più solamente in partenza definiti per censo di nascita ed ordine familiare, quanto dalla piena realizzazione delle qualità e dei talenti di cui ciascuno dispone.

Tesi molto fascinosa, da cui è difficile dissentire, figlia peraltro dei molti movimenti libertari che hanno attraversato il sociale in alcuni decenni cruciali del secolo scorso.

Utilizzando un linguaggio strettamente analitico, si potrebbe affermare che si è assistiti ad un deciso slittamento delle strutture super- egoiche dalla Coscienza morale all’Ideale dell’Io.

E certamente tutte le evidenze cliniche ci mostrano quanto oggi la sofferenza ed il disagio psicologico siano legati a vissuti di insufficienza, di inadeguatezza, di deficit, e che le angosce inconsce prevalenti non sono più soltanto legate alla colpa quanto alla vergogna.

Se questo è il punto di partenza, necessario diventa interrogarsi su quali siano le soluzioni possibili, le vie d’uscita potenziali e se ad esiti ineluttabilmente catastrofici dobbiamo rassegnarci, o che altre vie percorrere.

La scommessa che vorremmo provare a giocare oggi è affermare che la crisi economica, culturale e sociale in atto contiene certamente in sé un potenziale distruttivo, i cui costi in termini di sofferenza esistenziale sono sotto gli occhi di tutti, nel sentimento di incertezza e precarietà divenuto compagno costante di ciascuno.

Al contempo la crisi può contenere un potenziale grandemente creativo e costruttivo, se favorisce la nascita di un nuovo paradigma di soggettività alternativo a quello fallimentare e prevalente dagli anni ottanta in poi.

Quali sono gli imperativi categorici che hanno segnato il dover essere se stessi negli ultimi decenni? Quali le parole chiave che hanno marcato l’ordine transpersonale del discorso?

Autonomia, essere all’altezza, essere iper formati, essere performativi esteticamente e intellettualmente, essere flessibili e mobili, essere competitivi, essere sempre in formazione. Essere imprenditori di se stessi.

La società della prestazione (Leistungesellschaft) è interamente dominata dal verbo modale potere, in contrapposizione alla società disciplinare che esprime divieti e si serve del dovere. A un certo punto della produttività, il dovere si scontra rapidamente con i suoi limiti.
Per accrescere la produttività, viene rapidamente sostituito dal potere.
Ai fini dello sfruttamento, l’appello alla motivazione, all’iniziativa e al progetto è più efficace di frusta e comando. Come imprenditore di se stesso, il soggetto di prestazione è libero, dal momento che non è sottoposto a nessun altro che lo comanda e lo sfrutta, ma in realtà non è libero, perchè egli sfrutta se stesso del tutto volontariamente. Lo sfruttatore è lo sfruttato. Il soggetto è al tempo stesso vittima e carnefice. L’autosfruttamento è molto più efficace dello sfruttamento estraneo, perchè si accompagna a un sentimento di libertà. Lo sfruttamento diventa possibile, così, anche senza dominio (Byung- Chul Han Eros in agonia).

Anche la riflessione di Byun- Chul Han parte dal dato epidemiologico sul vissuto depressivo, messo dal filosofo in diretta connessione con la fine dell’Eros:

La depressione è una patologia narcisistica. Vi conduce l’esagerata autoreferenzialità, che è deviata in modo patologico. Il soggetto narcisistico- depressivo è esaurito e logorato da se stesso. E’ senza mondo e abbandonato dall’ Altro.
Eros e depressione sono contrapposti tra loro. L’Eros strappa il soggetto da se stesso e lo volge verso l’ Altro. La depressione, al contrario, lo precipita in se stesso. L’odierno soggetto di prestazione narcisistico è teso soprattutto verso il risultato (Erfolg). I risultati implicano una conferma di un soggetto attraverso l ‘Altro, così l’ Altro, privato della sua alterità, si degrada a specchio del soggetto, che conferma quest’ultimo nel suo ego. Questa logica del riconoscimento coinvolge ancor più profondamente il soggetto narcisistico nel suo ego. si sviluppa, così, una depressione da risultato: il soggetto di prestazione affetto da depressione sprofonda e annega in se stesso-

E’ ovvio che quella di cui si sta ragionando in questo ordine del discorso non pretende di essere qualcosa che esaurisce tutto il campo delle depressioni cliniche, nè dal punto di vista fenomenologico nè da quello dell’eziologia.

Ma certamente molto calzante è la descrizione di un certo malessere esistenziale che si riversa oggi nelle richieste di aiuto terapeutico.

Tali fenomeni non si sono autogenerati, ovviamente.

Non è sorprendente il fatto che la depressione dilaghi nell’epoca in cui si afferma come dominante un’ideologia di tipo imprenditoriale e competitivo. Dall’inizio degli anni ottanta, in seguito alla sconfitta dei movimenti operai e alla affermazione di un’ideologia di tipo neoliberista, si è imposta l’idea che dobbiamo considerarci tutti imprenditori. A nessuno è concesso concepire la propria vita secondo criteri più rilassati ed egualitari. Chi si rilassa rischia di finire sul marciapiede, o all’ospizio o in galera.
Le cosiddette riforme liberiste che vengono imposte ininterrottamente a una società sempre più frammentata, sconfitta, impotente a reagire, obnubilata dall’ideologismo predominante, mirano a distruggere ogni sicurezza economica per i lavoratori, e a esporre la vita di ogni lavoratore al rischio di impresa. Un tempo il rischio era appannaggio dei capitalisti, i quali investivano sulle proprie capacità e ne ricavavano enormi profitti o dolorosi fallimenti. Ma il rischio era affar loro. Gli altri oscillavano fra miseria e relativo benessere, ma non erano stimolati a rischiare per avere di più. Oggi invece < siamo tutti capitalisti>, come ingiungono gli ideologi riformatori, e quindi tutti dobbiamo rischiare….
L’idea essenziale è che tutti dobbiamo considerare la vita come un’impresa economica, come una gara in cui c’è chi vince e c’è chi perde” (Franco Berardi (Bifo) Dopo il futuro. Dal futurismo al cyberpunk. L’esaurimento della modernità)

Non si potrebbe dire in maniera più chiara. Bifo centra chirurgicamente il nocciolo della questione, e non a caso questo testo nasce da una serie di intrecci che hanno nelle sue riflessioni uno degli snodi centrali della propria genesi.

E subito arriviamo ad uno dei punti chiave del paradosso soggettivo, per come si pone oggi nella contemporaneità.

Il fatto è che al momento non importa quanto tu sia formato, non importa quanto tu sia competitivo, non importa quanto tu sia flessibile e pronto a rischiare. Non essendo più nei rampanti anni novanta, tale modello non regge più. E non regge perchè sul marciapiede, o all’ospizio, o in galera rischi di finirci comunque.

E’ la crisi bellezza, per parafrasare una citazione cinematografica.

Il testo di Ehrenberg, dicevamo all’inizio, è stato concepito e scritto negli anni novanta.

Il modello di self imperante riflette quelle categorie.

In cui un pò tutti per fede o per necessità siamo rimasti incastrati.

Le categorie, cioè, fondanti l’ideologia luccicante del neo liberismo, sopravvissute alla caduta delle ideologie totalitarie del novecento e pervenute alla fine della storia.

Ideologia neo- liberista non per questo meno totalitaria e totalizzante, e fortunatamente sottoposta all’usura della storia essa stessa.

Ecco un primo bagliore di luce possibile: l’ideologia oggi più in crisi è esattamente l’ideologia neo liberista, sbriciolata dalla crudezza dei fatti.

E’ dentro questa aporia che a me sembra che i nostri strani tempi si muovano: siamo all’apice triste della realizzazione delle strutture economiche neo liberiste, catturati dentro le anguste maglie della attualizzazione del modello dal punto di vista sociale ed economico, che nella zona dell’euro hanno trovato un nome ed una applicazione tragicamente pratica denominata politiche di austerity, però l’ideologia fondante la stessa, quella che fino a ieri l’altro l’ha mitologicamente sostanziata e giustificata, già si è sgretolata.

Rendendo finalmente inutile la fatica di essere se stessi.

Almeno secondo quel modello.

[…]

Un altro dei nodi intrigati del contemporaneo ordine del discorso è su quale tipo di bivio ci prospetti il futuro. Tante analisi convergono drasticamente sul motto lacaniano ou le pére ou le pire.
A osservare da una certa distanza il paesaggio intellettuale contemporaneo…, è facile scorgere il tessuto di un discorso comune che attraversa i più diversi ambiti della pubblicistica e della ricerca. Questo discorso…., si organizza attorno a due punti rilevanti, tra loro strettamente connessi. Il primo definisce la società contemporanea in funzione di quella che sarebbe la loro caratteristica fondamentale: la sparizione del limite. Il secondo precisa che con il limite sparisce anche la tessitura dei legami (amorosi, familiari, sociali) caratteristici delle società del passato, cioè che con la dissoluzione del limite si produce una rottura del legame. (Paolo Godani Senza padri. Economia del desiderio e condizioni di libertà nel capitalismo contemporaneo)

Da cui discende che l’alternativa possibile unica sia oggi costituita o da un caotico inseguimento di un godimento senza limite che presto o tardi ci condurrà alla dissoluzione, oppure da un repentino ritorno alla legge del padre.

Godani segnala il rischio, più che concreto, che questo bivio prepari un ritorno deciso dello stesso ordine paternalistico che i movimenti politici degli anni sessanta e settanta avevano fortemente messo in crisi.

In verità l’evidenza clinica odierna ci dice che non è del tutto esatto affermare che ci troviamo al cospetto di una dissoluzione delle strutture super egoiche.

La questione è molto più complessa, come già affermato prima, poiché più che ad una dissoluzione del Super Io dovremmo fare riferimento ad una sua mutazione, o ad uno slittamento funzionale.

Alla prevalenza della Coscienza morale sembra oggi essersi sostituita la prevalenza dell’Ideale dell’ Io. Alla tirannia dell’ Io devo quella dell’ Io Posso.

Rimanendo pur sempre al cospetto di sistemi tirannici, non certo dentro praterie libertarie. E ciò ci riporta direttamente al discorso iniziale di Ehrenberg sui vissuti depressivi legati al deficit piuttosto che alla colpa. E una buona parte del lavoro terapeutico attuale si impernia esattamente sulla necessità di rendere meno tirannico il rapporto interno con l’Io posso.

C’è un fraintendimento di fondo nella lettura che Recalcati fa, soprattutto negli ultimi testi, del discorso sulla mancanza del limite. Nessuno, ovviamente, pensa che possa esistere benessere e sanità mentale, relazionale e sociale senza una concezione del limite. Ma il limite al desiderio resta pur sempre una funzione regolativa inconscia, interna, che non può essere tout court appiattita sulla sussistenza della norma esterna e sociale.

E questo fraintendimento ha pericolose ricadute non tanto e soltanto da un punto di vista terapeutico, quanto da quello politico, preparando il terreno per il ritorno ad ogni tipo di Reazione.

Come già sta avvenendo.

Per questo occorre continuare ad interrogarci su quale modello di soggettività sia oggi sano ed utile perseguire, politicamente e antropologicamente.

Oltre l’Io Devo, oltre l’Io Posso.

E per far questo ripartirei, per non saturare troppo il discorso, esattamente da uno dei tanti punti d’origine che è possibile individuare alla giornata odierna. Al nostro essere qui, inseriti dentro un più ampio contesto di reti che si interrogano e sperimentano nuove pratiche possibili, nel lavoro culturale, nel lavoro sociale, in quello politico e in quello terapeutico.

Non possiamo che partire da nuove pratiche di cura e di scambio. Dalle molteplici esperienze che in varie parti del mondo si sono andate sperimentando, i movimenti di Occupy, ad esempio, quelli che partendo dal tema dei beni comuni hanno cercato di rivitalizzare luoghi in abbandono per trasformarli in opportunità di vita per i soggetti, per i quartieri, per le città.

Qui a Palermo, ad esempio, in un gelida mattina di un gennaio di alcuni anni addietro, in tanti ci siamo ritrovati a prenderci cura di alcuni spazi in abbandono, i Cantieri culturali della Zisa, per avviare un ragionamento sui Cantieri che volevamo, che era un ragionamento sulla polis che volevamo, sul lavoro culturale, sui beni comuni e la gestione collettiva degli stessi.

E la cosa che ha reso straordinariamente intensa quella esperienza è stata che è diventata una opportunità per tanti di raccontarsi a partire dalle proprie condizioni di malessere esistenziale, di desideri frustrati, di vite e talenti mortificati dalle regole non neutrali che consegnano ad esistenze precarie.

Esperienza intensa, protrattasi a lungo, altamente imperfetta, che tanto ha segnato e seminato.

O anche esperienza fallimentare, secondo tanti partecipanti, secondo determinati parametri.

Perché solo una piccola parte degli obiettivi che quel movimento si era posto sono stati realizzati, perché i Cantieri sono ancora al minimo sindacale della loro possibilità, perché sulla possibile gestione della governance di realtà tanto complesse siamo ancora sostanzialmente impreparati, perchè uscire dal paradigma pubblico – privato risulta epistemologicamente ostico, come tutta la questione sui beni comuni dimostra, con tutte le ambiguità che il tema include.

E però, ciò non mi pare così essenziale.

Quello è stato un atto di resistenza, che ha prodotto e continua a produrre tante resistenze, esistenziali, politiche e culturali, che ha prodotto soprattutto reti sociali, culturali, affettive, politiche.

Nuove soggettività e nuovi paradigmi devono oggi anche affrancarsi dall’ossessione del successo, del fine ultimo delle cose, che non esiste, in ultima analisi del futuro.

Se il futuro non è più quello di una volta, cogliamo l’opportunità e radichiamoci nel presente, nel valore che i momenti e le cose hanno in sè e nella loro capacità seminale.

Il parametro del successo sta dentro una concezione particolare dell’individuo, non la più veritiera, né tanto meno l’unica possibile.

E qui riprenderei la parte finale del testo di Godani, per chiarire meglio ciò che intendo, e la direzione più radicale della mia riflessione.

Una parte del discorso di Godani riguarda esattamente la concezione dell’individuo, fondata gruppoanaliticamente sull’ipotesi che il singolo individuo altro non sia che la singolare e transitoria incarnazione di tratti comuni e universali, replicabili.

[…]

Se la smettiamo di sopravvalutarci in quanto individui, forse la smetteremo anche di sottovalutarci, e in più potremmo anche liberare nuove possibilità di stare al mondo con altri comuni a noi.

E qui sta forse la parte più interessante del testo di Godani, quella più politica e sociale, che tanto ha a che fare con i movimenti politici e sociali, e le possibili istruzioni di un loro uso.

La dissoluzione del padre è la possibilità unica per sostituire all’ordine di filiazione quello di fratellanza e sorellanza.

[…]

Riferimenti Bibliografici

 Ehrenberg La fatigue d’ètre soi.Depression et societé- Edition Odile Jacob, 1998 Paris

(trad. it. ) La fatica di essere se stessi– Giulio Einaudi Editore, Torino 1999

Franco Berardi (Bifo) Dopo il futuro. Dal futurismo al Cyberpunk. L’esaurimento della modernità.

DeriveApprodi, Roma 2013

Byung- Chul Han Agonie de Eros– Matthes § Seitz, Berlino 2012 (trad. It.) Eros in agonia– Nottetempo, Roma 2013

Paolo Godani Senza Padri. Economia del desiderio e condizioni di libertà nel capitalismo contemporaneo– DeriveApprodi, Roma 2014

Walter Siti Resistere non serve a niente– Rcs Libri S.P.A., Milano2012

Murakami Haruki 1Q84– Giulio Einaudi Editore, Torino 2012.

[Immagine: Kevin Hays, detentore del record mondiale di risoluzione del dado di Rubik: https://www.youtube.com/watch?v=yHvFL92RXP4 (dbr)

 

2 thoughts on “La tirannia dell’ Io posso

  1. E’ chiaro che occorre un livello di mediazione non disponibile oggi, al livello in cui agisce il comando ideologico. Essere all’altezza, fino a essere imprenditori di se stessi, e l’amore sostituito dall’eros, che è solo domanda e mancanza, spiegano come “la crisi” sia prodotto, oltre e prima che causa.
    La mediazione del raccontarsi è più che niente, ma l’individuo, sopra o sottovalutato, riferito solo ai suoi pari fratelli e sorelle, non si alza sull’orizzonte. Il padre, il padre… e la madre? Quella che ha cresciuto tutti i figli? (Si considerino meglio le litanie lauretane: sedes sapientiae, domus aurea…)

  2. Vorrei accostare (only connect) il bell’intervento di Lo Piccolo con quanto viene detto su un grande filosofo del Novecento, Isaiah Berlin, da un suo studioso John Gray (1995) in un contributo in cui si adotta anche la distinzione tra Illuminismo e Anti-Illuminismo (o Romanticismo).
    Per cominciare, mi sembra che la polarità lacaniana di cui sopra trova un riscontro nella concezione di Berlin del conflitto morale che “mira ad aprire un ‘tertium quid’ fra relativismo e assolutismo, tra particolarismo e universalismo, nella nostra comprensione dell’etica” (p. 64).

    “Per Berlin, la modernità di Machiavelli sta nel suo pluralismo, nella sua intuizione che almeno nei governanti e nei principi, se non nei loro sudditi, non si possono combinare le virtù cristiane e pagane, che tendono a escludersi a vicenda” (p. 65).
    “Dove Berlin è straordinariamente originale […] è quando combina l’affermazione della costanza nella natura umana con la negazione che quella costanza privilegi una forma di vita come la migliore per la specie – cosa che fece Aristotele inserendo le locali virtù della forma di vita che gli era familiare nella sua descrizione dell’essenza umana. Berlin pensa che la nostra sia una specie piena di inventiva e di risorse, incline a creare per sé nuove forme di vita di cui non si possono specificare ‘a priori’ le particolari concezioni del bene (p. 67).
    “L’idea della incommensurabilità in etica è un attacco a tutte le posizioni tradizionali nella teoria morale, […] una critica all’idea della perfezione che ha stimolato il pensiero occidentale almeno dai tempi di Platone e della dottrina della Forma del Bene. […] La realtà e la profondità di questi conflitti indicano un difetto nella stessa idea di perfezione, piuttosto che una qualche imperfezione nella nostra comprensione” (p. 69-70).
    “Berlin sembra perciò sostenere che le forme più sviluppate di comprensione teorica siano destinate a lasciare incompleta e piena di lacune la nostra concezione del mondo” (p. 71).

    Il discorso vale a livello del singolo individuo (l’uomo moderno) come degli equilibri di potere sociali e politici.

    “La reazione all’illuminismo che invocava la volontà contro la ragione, la singolarità contro l’uniformità, il particolare contro l’universale, la creazione e la novità contro l’emulazione e l’obbedienza alle regole” (p. 72).
    Berlin condivide degli anti-illuministi il “rifiuto dell’antropologia filosofica […] in cui la costanza della natura umana è intesa come un nucleo sottostante e invariante di passioni o moventi, che le convenzioni e forme culturali variabili possono solo celare o alterare. […] Non c’è dubbio che la filosofia illuminista della storia, con una civiltà universale come ‘telos’, sia poco plausibile […] Berlin non condivide la convinzione ottimistica di Herder [I. Berlin, “Vico ed Herder: due studi sulla storia delle idee”, a cura di A. Verri, Roma, Armando, 1978 (1976)] che popoli diversi, posti su linee di sviluppo culturale divergenti e incommensurabili, troveranno necessariamente possibile una coesistenza pacifica. […] La differenza più profonda con il particolarismo romantico […] è la ricorrente enfasi di Berlin sulla necessità di bilanciare l’affermazione della differenza culturale – che, come Herder, ritiene sia essenziale per il benessere ‘individuale’ – con il rispetto del minimo morale universale. […] Quella di Berlin rimane una posizione razionalista in quanto non afferma che ci siano fonti di conoscenza – rivelazione, autorità, istinto o tradizione, per esempio – alle quali possiamo ricorrere quando la ragione ha svolto il suo compito e tuttavia ci lascia insoddisfatti. […] In Berlin, comunque, il progetto dell’illuminismo non è associato al tentativo di costruire una teodicea secolare, politica o storica, che possa soppiantare le teodicee trascendentali che la ragione non sanziona, e che anzi ha minato. Il progetto dell’indagine razionale non serve affatto il bisogno metafisico della specie, che è un bisogno di consolazione. […] Se l’affermazione romantica della differenza individuale e delle differenze di culture incommensurabili possono in effetti essere riconciliate con l’impegno illuminista per l’emancipazione umana universale, […] la piena accettazione della differenza individuale e culturale non comporta necessariamente il rifiuto di quel minimo morale universale che – con tutti i suoi inerenti conflitti e dilemmi razionalmente insolubili – è l’orizzonte costante della specie (p. 73-75).
    Citazioni tratte da John Gray, “Costanti e differenze: il contributo di Isaiah Berlin alla vita intellettuale”, in I.B.: filosofo delle libertà, a cura di Pietro Corsi, Milano, “la Rivista dei Libri”, 1995, pp. 60-75 (trad. di Lisa Zaffi).

    Post Scriptum
    Ho letto che Tony Blair (e quindi George W. Bush) è stato accusato (da un tribunale informale) di aver scatenato una guerra “a tesi” contro l’Iraq di Saddam Hussein con motivazioni infondate; l’eterogenesi dei fini ha portato alla guerra di civiltà che rattrista la nostra quotidianità (ultimo episodio la strage di Nizza).
    Non mi risulta che i due ex-statisti siano stati accusati ufficialmente e portati davanti a un tribunale internazionale (L’Aja?) come “criminali di guerra”, cosa che è successa in anni recenti ai macellai della ex-Jugoslavia. Forse perché i capi degli stati più potenti riescono a farla franca, come nella vita di tutti i giorni gli imputati più ricchi riescono a non andare a processo o ad essere assolti.
    La crudeltà dell’attentatore di Nizza non ha nulla di umano, neanche le bestie si riducono così… è assai difficile ritrovare il “minimo morale universale” caro a I. Berlin; ciononostante uno dei figli più nobili dell’illuminismo, Condorcet tracciò un quadro del progresso umano mentre si nascondeva alla giustizia rivoluzionaria che era in vena di tagliare le teste… in quella Francia oggi vittima delle ritorsioni di cittadini che non si sentono accettati e integrati nel sistema paese.
    L’insegnamento di Berlin ci dà ancora da riflettere.

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