di Maurizio Balsamo[1]
[Il saggio che segue, il cui titolo originale è Dinanzi a una distruzione smisurata, apre il numero 1, 2016 di «Psiche», una rivista della Società psicoanalitica italiana diretta da Maurizio Balsamo e pubblicata dal Mulino. Distruggere è il titolo complessivo del numero 1, 2016].
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Quale rapporto esiste fra una tavola di The Pencil of Nature (1844), il primo libro fotografico, e una foto di Hiroshima, dove la luce della bomba atomica ha lasciato sul muro di una casa l’impronta di un uomo volatilizzato, si chiedeva J. C. Bailly (Bailly, 2010) ne L’istante e la sua ombra? In che modo la connessione fra due foto così distanti permette l’irruzione di un pensiero inedito, l’accostamento di ciò che fino ad allora era irrelato ci introduce a mondi finora isolati, a zone del reale che acquistano una reciproca significazione?
È come se la presenza spettrale [della scala] avesse il valore di testimonianza, è come se il fatto che essa esista ancora denunci ancor di più la sparizione della sentinella, se ci si permette di continuare a chiamare così la sagoma dell’uomo o della donna che si vede sul muro. Irradiata, essa si è trasfigurata, irradia se stessa. Al pari dell’ombra polverizzata, come l’ombra polverizzata, contribuisce all’enorme carico d’inconscio ottico, all’enorme potenza latente dell’immagine. Nel momento stesso in cui potremo separare il mondo delle ombre-dei morti- da quello degli oggetti reali, questa scala, se ha continuato a esistere, fa oscillare tutto il reale, dove dunque sarebbe rimasta, dal lato delle ombre: vi è coesistenza dell’inabissato e del risparmiato, ma ciò che è stato risparmiato ristagna altrettanto nell’evidenza del niente. La scala è come la guardiana di questo niente, è ciò che dimora in senso al reale incavato dove l’inabissato riemerge in superficie formando un’immagine. (Bailly, 130).
L’accostamento, meglio, il montaggio che pone-come nel Mnemosyne warburghiano- nuove tessiture della storia, permette di ripensare il già là, dando voce a ciò che si è sepolto, inabissato, non solo nella sparizione delle cose o delle persone, nella loro distruzione, ma nella stessa apparenza o presenza delle cose, che acquisiscono un valore di deposito fantomale, una realtà spettrale[2]. Realtà su cui aveva già insistito Roland Barthes quando aveva definito, ne La camera chiara (Barthes, 1980, 11) colui che è fotografato “il bersaglio, il referente, sorta di piccolo simulacro, di éidolon emesso dall’oggetto, che io chiamerei volentieri lo Spectrum della Fotografia, dato che attraverso la sua radice questa parola mantiene un rapporto con lo ‘spettacolo’ aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto”.
“Una delle conseguenze, e non tra le minori, dell’evidenziazione di questo campo di agitazione immanente-osserva ancora Bailly- è quella di legittimare i salti storici, di dare profondità a ciò che sfugge ai regimi tradizionali di storicità: il montaggio ritaglia una storia interna delle immagini che surfeggia liberamente sopra la cronologia” (Bailly, 114). Il che non cancella lo specifico di quella data, di quella realtà, di quell’evento, ma permette di liberare “la potenza germinativa di questi rapporti latenti che la storia effettuata-effettiva non ricopre mai interamente” (idem). In tal senso, la storia della distruzione si mescola, si iscrive, in quella che si rappresenta nella sua realtà visibile, ne è non solo il negativo o il differenziale cronologico (il prima e il poi), ma ciò che accompagna, persiste, si occulta, in ciò che sopravvive a se stesso. La coesistenza di ciò che è risparmiato e di che è stato distrutto, la possessione del presente da parte di ciò che è scomparso e che attende un modo per tornare, la presenza della perdita in ciò che è visibile, è il tema maggiore di molti autori. Penso ad esempio a Barthes[3], Sebald, Warburg, Benjamin o al lavoro di un artista libanese, Jalal Toufic, che nel “Le retrait de la tradition suite au désastre démesuré”( Toufic, 2011) osservava che se in ogni distruzione sono visibili gli effetti materiali della stessa, bisogna tuttavia prendere in considerazione ciò che egli chiama il ritiro della tradizione a seguito di una distruzione smisurata, il ritiro immateriale dei testi letterari, filosofici e di pensiero, la rottura della capacità di iscriversi in una continuità, la tradizione, e la dimensione di azzeramento del dialogo fino ad allora esistente fra idee, punti di vista, orizzonti, comunità, spazzato via dalla forza della distruzione visibile. La conseguenza di un disastro smisurato è che “la tradizione diviene a volte interamente inaccessibile al pensatore e/o all’artista; oppure ancor più, essa gli resta inaccessibile in tanto che pensatore e /o artista” (Toufic, 12). Sarà allora vitale rendersi conto che la stessa sopravvivenza di un edificio, di una biblioteca, di persone o di documenti, ci rende ciechi di fronte a ciò che in noi non è sopravvissuto, opachi a ciò che è stato distrutto irrimediabilmente e di cui non ci sono tracce apparenti, o che, abbagliati dall’eccesso di visibilità delle rovine, dalla distruzione materiale dei corpi o delle cose, finiamo per occultare ciò che subisce, in maniera invisibile, la stessa sorte. Con questo non si intende sottovalutare il peso di ciò che è stato irrimediabilmente distrutto: lo sterminio di una comunità religiosa, di un’etnia, la distruzione di un museo, l’incendio di una biblioteca, la cancellazione della biodiversità o delle relazioni umane, naufragate in un deserto di violenza indifferente a qualunque pietà umana. Semmai il problema risiede nel fatto che dinanzi a questa perdita non ci sarà più possibile un dialogo diretto con ciò che esisteva prima del disastro, determinando, fra le tante risposte possibili, anche quella sorta di cecità dinanzi al carattere seriale della distruzione, alla sua presenza in ogni luogo e in ogni epoca, la reticenza a renderci drammaticamente consapevoli di questa assoluta ed enigmatica specificità umana di distruggere e autodistruggersi, senza sosta, memoria, né limite alcuno. Come se, ad esempio, la distruzione dei libri o l’odio per le forme culturali trovasse la sua raffigurazione esemplare, unica, nel rogo del maggio 1933 nelle diverse città tedesche ad opera dei nazisti, e non nella infinita serie di cancellazioni della cultura che scorre indenne attraverso i secoli, istituendo ciò che uno storico, Polastron (Polastron, 2009), ha definito come il genicidio: la distruzione sistematica del genio di un popolo da parte dei conquistatori, chiunque essi siano stati. Abbiamo qui due riposte tragicamente strabiche: da una parte la necessità di essere ogni volta immemori della tragedia, come se fosse sempre unica e mai (già ed ancora) accaduta; dall’altra, quella di iscriverla immediatamente, innanzitutto, come risposta difensiva ed assimilatrice, al già visto. Dico innanzitutto perché, era Blanchot che lo segnalava nella sua scrittura del disastro, il disastro non è mai “presente”, è sempre “passato”, data la difficoltà del linguaggio, nella sua dimensione universalizzante, di dire l’immediato. Sicuramente restiamo colpiti dalla cancellazione di Palmira, delle Torri gemelle o dei Budda di Bamyan da parte dei talebani, e in qualche modo viviamo questi eventi come un’irruzione della storia nel suo carattere distruttivo, eppure essi subiscono un destino di relativa diluizione in quell’operazione mentale che assimila immediatamente l’accaduto al già visto, al già vissuto. Con ciò rendendo paradossalmente non avvenuto l’evento in quanto tale data la sua immediata iscrizione in un registro mnestico omogenizzante. È quanto osserva Chéroux (Chéroux, 2010) mostrando come la percezione traumatica del crollo delle Torri gemelle ad esempio, sia stata assunta ed elaborata attraverso uno stile visivo-iconico che ha permesso di leggere l’evento alla luce dell’attacco di Pearl Harbor nel 1941, determinando stili fotografici, rappresentazioni della realtà costruite intorno ad un paradigma di ritorno e ripetizione, e fornire, in tal modo, codici prestabiliti per leggere e affrontare ciò che accadeva. Il trauma era insomma rifotografato e iscritto nella memoria storica di un tradimento, della necessaria punizione e del riscatto che sarebbe seguito nella vendetta e ritorsione successivi. Il romanzo della storia a venire era in tal modo già scritto nelle immagini attraverso cui si leggeva, filmava, montava, il reale. Più o meno ciò che osservava Godard nella sua Histoire(s) du cinéma (Godard, 1988, 138): “et Friedrich Murnau et Karl Freund, ils ont inventé les éclairages de Nuremberg alors que Hitler n’avait pas encore de quoi se payer une bière dans les cafés de Munich”. Accanto a questa ricomposizione del reale, l’ombra che “appare” nella rappresentazione fotografica del crollo delle Torri, la famosa immagine del volto satanico “percepita” nel fumo nero, permette da una parte all’evento di sacralizzarsi, e segnare, con ciò, un nuovo punto zero della storia, dall’altra di filmare il negativo assoluto della stessa foto. La scomparsa delle Torri, la loro distruzione, produce così l’apparizione di una nuova realtà che non allude tanto alla cancellazione, ma che segnala invece la comparsa di un nuovo reale, oscuro, demoniaco, finora coperto, ostruito, dalla presenza fisica dell’oggetto-torre. Forse per tale motivo, Toufic prendeva ad esempio del rapporto fra arte e distruzione, l’immagine del vampiro nello specchio che non si riflette nello stesso, per mostrare – nella pratica della rappresentazione artistica-ciò che è irrimediabilmente scomparso e a cui non abbiamo più accesso[4]. Una questione, come è noto, al cuore delle performances di Parmiggiani e delle sue Delocazioni:
Avevo esposto ambienti completamente vuoti, spogli, dove l’unica presenza era l’assenza, le impronte sulle pareti di tutto quello che vi era passato, le ombre delle cose che questi luoghi avevano custodito. I materiali per realizzare questi ambienti, polvere, fuliggine e fumo contribuivano a creare il clima di un luogo abbandonato dagli uomini, come dopo un rogo appunto, un clima da città morta. Restavano solo le ombre delle cose, ectoplasmi quasi di forme scomparse, svanite come le ombre dei corpi umani sui muri di Hiroshima (Grazioli, 2004, 203).
Occorrerà allora un lungo lavoro di nomadismo per poter realizzare un riattraversamento, un complesso détour per ritrovare ciò che ha colpito una comunità, ciò che l’ha toccata nel suo intimo, l’ha dilaniata nella sua capacità di pensare o di sentirsi a casa propria, un lungo e mai definitivamente consolidato lavoro del tempo perché si possa dare parola a ciò che è perduto, senso a ciò che è stato spazzato via. Forse questo rende ragione di quella attività, (si potrebbe parlare a tal proposito dell’esigenza di riandare a ciò che resta insepolto, non morto nella morte o nella distruzione di tante vite o beni materiali, cultura o trame collettive), che possiamo definire come di un imperativo di “resurrezione”: ciò che rende possibile far parlare di nuovo i sopravvissuti nel loro rapporto con ciò che è scomparso e che può ad esempio essere colto nel fenomeno cinematografico del remake. Il rifacimento/riscrittura/riapparizione del Nosferatu di Murnau ( 1922) nel film di Herzog del 1979, osserva ancora Toufic, permette per esempio ad un film su un vampiro di resuscitare un film sui non morti sfuggito alla distruzione, (come è noto, in seguito ad un processo sui diritti d’autore sul libro di Stoker, fu ordinata la distruzione del film, salvatosi grazie ad una copia conservata dallo stesso Murnau) e che “a causa del disastro smisurato del periodo nazista è esso stesso là e non là ( come l’immagine del vampiro nello specchio) per la generazione che segue a questo disastro smisurato”(Toufic, 16). Là e non là, in questo immaginario della contaminazione, dell’infezione che oscilla fra l’infinita moltitudine dei ratti e l’avvento del nazismo, fra la sporcizia e la peste dell’ebreo da cui proteggersi, fra la presa in carico della distruzione che invade un paese e come ci ricorderà Sebald, in Storia naturale della distruzione, l’ostinazione di volgere lo sguardo da un’altra parte, per tentare di sfuggire ad una realtà insopportabile.. Ma come rendere conto del non visibile, come mostrare la distruzione di ciò che non si limita al visibile? In fondo qui non si pone solo il tema della ripresa o della riscrittura, ma l’idea ben più generale che l’orrore non può dirsi in una sola immagine, in una sola presa d’atto, che c’è sempre bisogno di un più di tempo per pensare la distruzione, per mostrare l’invisibile, per passare dal fatto alla sua decifrazione. Occorre un montaggio di tempi, un accostamento che permetta di scorgere il destino dell’immagine. Ciò che fa comunemente il cinema, o il lavoro analitico nell’istituire, attraverso il metodo associativo, il tempo di una parola rifratta negli infiniti rivoli delle sue risonanze, delle sue allusioni segrete, delle sue stratificazioni, costruendo un dispositivo per il montaggio dei tempi, la possibilità di accostamento e la loro reciproca decifrazione. E’ in fondo quello che Godard osserva quando parla di un biologo come Jacob che accosta due personaggi: “Quando François Jacob, il biologo, scrive: lo stesso anno Copernico e Vesalio, bene, qui lui non fa della biologia, Jacob, fa del cinema. E la storia è qua. È avvicinamento. E’ montaggio (Huberman, 2003, 48). Il montaggio permette, osserva ancora Huberman, di accostare immagini apparentemente irrelate e in questo non è assimilazione indistinta, fusione o distruzione degli elementi che lo costituiscono. Montare un’immagine dei campi -o delle barbarie naziste in generale- non significa perderle in un magma culturale fatto di quadri, di estratti di film o di citazioni letterarie: significa far comprendere qualcosa d’altro, mostrando, di questa immagine, la differenza e il legame con ciò che la circonda in quell’occasione” (Huberman, 50-51). Analogamente non si tratta forse di montaggio nell’osservazione di un Böll, ripresa da Sebald a proposito delle folle di sfollati che migrano senza meta alcuna nelle città tedesche distrutte dai bombardamenti alleati?
Negli anni successivi Böll ha avanzato l’ipotesi che, proprio da queste esperienze di sradicamento collettivo, abbia avuto origine la smania di viaggiare da cui sono animati i cittadini della repubblica federale tedesca, quella sensazione di non potersi fermare da nessuna parte e di dover essere sempre altrove” (Sebald, 2004, 44).
Qui, non si tratta tanto di una causalità sotterranea, in cui un’immagine, sostanzialmente quella antecedente, spiega quella successiva, lo sfollato come origine nascosta del viaggiatore felice di fare esperienze mondane, ma, piuttosto, di una sorta di spettralità della dimensione temporale, in cui un tempo alberga in un altro. È al fondo, la questione della risurrezione non teologica delle immagini prospettata da Huberman, quando sostiene che l’affermazione di Godard, “quale meraviglia poter guardare ciò che non si vede” non è detta da un teologo della fine del tempo, ma da chi è meravigliato dall’intreccio fra cinema e storia, la stessa meraviglia, lo stesso stupore che coglie chi vede, oggi, Hitler muoversi nei cinegiornali degli anni trenta. Una resurrezione/spettralità, che istituisce una permanenza, o meglio: rende visibile, pensabile, raffigurabile, una permanenza del male altrimenti senza oggetto, senza resti, tracce, storia. E’ per questo che Huberman (Huberman, 2015, 72-73) pone il concetto di sopravvivenza in opposizione alla dimensione teologica della resurrezione, assumendo come contraltare all’affermazione di Godard, “l’image viendra au temps de la résurrection”, la tesi pasoliniana dell’equiparazione del montaggio cinematografico al lamento funebre, alla possibilità di conservare delle tracce dell’esperienza passata ( “in un film sono queste frasi che restano”).
Intravvediamo, qui, una procedura correlativa al nostro lavoro clinico di pensabilità della distruzione: strapparla dal contesto in cui essa è inserita, non per annullare il suo peso di realtà storica, ma per tentare di istituire, attraverso questo strappo, una direzione altra e allo stesso tempo, in questa rete associativa, germinare condizioni di trasformabilità. In Histoires du cinéma, Godard mostra spezzoni delle riprese di Stevens dei cadaveri di Buchenwald-Dachau nel 1945. La scena successiva mostra Elizabeth Taylor sul cui grembo riposa Montgomery Clift. Quale rapporto immagineremmo fra le due scene, se la voce fuori campo non ci dicesse che il regista è il medesimo e che uno dei sensi possibili dell’accostamento è che occorre vincere la guerra perché si possa costruire “un posto al sole”, e che, inoltre, come osserva ancora Godard, “la felicità oscura” che gli proveniva da quel film acquista un altro senso quando scopre che Stevens ha cominciato con la pellicola di 16 millimetri a colori per filmare l’orrore? L’immagine non permette alcuna salvezza, nessuna resurrezione, ma rende possibile un lavoro di legame, di accostamento, di rimandi, ci permette di cogliere come la felicità di una scena si stagli sul fondo di orrore di una distruzione totale, come la bellezza di un corpo copra, e si delimiti, intorno alla molteplicità senza nome dei corpi martoriati della storia. Allo stesso tempo, di istituire però un rinvio dell’immagine che permette di fuoriuscire dal blocco della rappresentazione mortifera[5]. Ovviamente non vi è, qui, nessun potere salvifico delle immagini in quanto tali. Come osserva Roberto Esposito (Esposito, 2006) nel cinema si trova ben espressa la figura della compensatio: se la realtà è questa, il cinema permette di sopravvivere ad essa, liberando uno spazio di sopportabilità, ma, allo stesso tempo, è un mezzo per impedire una esplosione. O, inversamente, come sottolinea Didi-Huberman in questo numero di Psiche “Sarebbe questa l’estraneità fondamentale dell’immagine: che la sua stessa animazione, fin nelle sue più inquietanti erotizzazioni, richiama una somiglianza cadaverica che tocca, abbraccia, concerne, investe il corpo vedente tutto intero”.
Bibliografia
Bailly J.C (2010), L’istante e la sua ombra, Milano, Mondadori.
Barthes R. (1980), La camera chiara, Torino, Einaudi.
Cheroux C. (2010), Diplopia, Torino, Einaudi.
Chianese D., Fontana A. (2010) , Immaginando, Milano, FrancoAngeli.
Chianese D., Fontana A. (2012), Per un sapere dei sensi, Roma, Alpes.
Didi-Huberman G. (2003), “Montaggio e memoria”, Discipline filosofiche, 2.
Didi-Huberman G. (2015), Passés cités par JLG, Paris, Minuit.
Esposito R. (2006), Conversazioni sul cinema, Milano, Fata Morgana.
Godard J.L (1988), Histoire(s) du cinéma, 4 voll., Paris, Gallimard.
Grazioli E. (2004), La polvere nell’arte, Milano, Mondadori.
Haidar M. (2006), Città e memoria. Beirut, Sarajevo, Berlino, Milano, Mondadori
Naeff J. (2014), “Absence in The Mirror: Beirut’s Urban identity in the aftermath of civil war”, Contemporary French and Francophone Studies, vol.18, nr-5
Polastron L. (2009), Livres en feu. Histoire de la destruction sans fin des bibliothèques, Paris, Gallimard.
Sebald G. W. ( 2004), Storia naturale della distruzione, Milano, Adelphi.
Toufic J. (2011), Le retrait de la tradition suite au désastre démesuré, Paris, Les prairies ordinaires.
Note
[1] Maurizio Balsamo, Docente di psicopatologia psicoanalitica, Università di Parigi 7, psicoanalista, Società psicoanalitica italiana, Roma
[2] “Une image n’est pas forte parce qu’elle est brutale ou fantastique mais parce que l’association des idées est lontaine, lontaine et juste”, (Godard, 1998, vol.4, pag.259). L’immagine di Hiroshima è invece accostata, da Godard, nelle sue Histoire(s) du cinéma, alla foto di una partigiana ebrea impiccata dai nazisti nel 1945.
[3] “Davanti alla foto di mia madre bambina, mi dico: sta per morire: come lo psicotico di Winnicott, io fremo per una catastrofe che è già accaduta. Che il soggetto ritratto sia o non sia già morto, ogni fotografia è appunto tale catastrofe “(Barthes, 1980, 96)
[4] Su questo punto si è invece espressa criticamente Judith Naeff secondo cui Toufic finisce per santificare gli oggetti culturali, costituendo un’identità per la Beirut post-disastro in termini essenzialmente di assenza, “dimenticando che le narrative e le pratiche attraverso cui la gente da significato producono delle differenze nel tempo e attraverso lo spazio” ( Naeff, 2014, 556). Sul rapporto fra memoria da cancellare nei suoi rimandi tragici e la prospettiva temporale rivolta al futuro dell’omogeneizzazione architettonica nella città di Beirut, cfr. Haidar (Haidar, 2006).
[5] Sul ruolo delle immagini nel lavoro analitico cfr. Chianese e Fontana (2010) , Immaginando, Milano, FrancoAngeli; Per un sapere dei sensi, ( 2012), Roma, Alpes
[Immagine: Gerhard Richter, Bombardieri (gm)].
Finalemente un punto di vista psicoanalitico che si confronta col Mondo. Molto interessante, e grazie a LPLC per avergli dato spazio e visibilità.
Ottimo.