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di Stefania Scateni

 

[Una prima versione di questa intervista è uscita sull’«Unità»]

 

 Il nuovo libro di Carlo Bordini, Memorie di un rivoluzionario timido, edito da Luca Sossella Editore (pagine 188, euro 10,00) è una autobiografia e insieme uno strano libro, poetico, storico e un po’ pazzo, dentro il quale c’è un posto importante per una sperimentazione bizzarra e “ciclotimica”, come se l’autore dondolasse tra avanguardia e giochi di parole. Le parole, le frasi, la punteggiatura decidono di ammutinarsi dalla lingua, confondere il lettore, e stimolarlo a trovare un senso. “Tutte le irregolarità grafiche, grammaticali, ortografiche e sintattiche sono quindi volute – spiega l’autore e scusandosi ai suoi lettori per il disagio -, Mi riferisco ai capitoli che terminano senza punto, all’uso arbitrario delle maiuscole e delle minuscole, alle irregolarità nella punteggiatura, alle parentesi quadre, alle parole deformate: tutti accorgimenti volti al perseguimento di un impasto musicale fatto da dissonanze. Non si tratta infatti di refusi ma dell’uso di un linguaggio deformato di cui ho creduto necessario servirmi per cercare di superare la piattezza dell’italiano televisivo su cui si basa il linguaggio letterario contemporaneo e per creare un impasto sospeso tra sogno e realtà”.


Il poeta Bordini, il rivoluzionario timido, stila un bilancio, un esame di coscienza su due temi: il rapporto con la politica, ovvero il lungo periodo della militanza trotskista, e i grovigli affettivi che hanno caratterizzato il suo rapporto vissuto con il mondo femminile. Il tutto preceduto da un’adolescenza vissuta tra depressioni, cambi di facoltà, fughe e sedute dallo psicanalista. Viene in mente un suo vecchio libro strepitoso, pubblicato alla fine degli anni Ottanta da Fazi: Manuale di autodistruzione. Un libro terribile e comico, che sembra una versione grottesca dell’autobiografia. Un “prequel” di Memorie di un rivoluzionario timido.
“C’è una voluttà nel distruggersi: è noto – scriveva nel prologo. – Io non voglio investigare perché; questo libro non è un’opera filosofica. Vuole essere un’opera pratica”. E il Manuale è veramente un manuale, con tanto di suggerimenti, passo dopo passo, per rendere la vita un inferno, e dove Bordini guardava l’umanità e raccontava con ironia crudele alcuni vizi o vezzi propri di noi tutti: non essere mai contenti di quanto si ha, non perdere l’occasione per riprendere chi ci sta accanto piuttosto che cercare di comprenderlo, fondare la propria vita sul rammarico invece che sul desiderio. Chiediamo all’autore se è d’accordo.

      Il Manuale di autodistruzione – voleva essere una specie di gioco, descrivere la realtà attraverso il pretesto di autodistruggersi con l’idea che l’autodistruzione sia un bene prezioso per la società, perché la gente depressa consuma pochissimo ossigeno, e, quindi, la depressione è ecologica. Quindi il manuale raccoglie tutta una serie di paradossi su come stare male, che poi è quello solitamente che fa la gente in vari modi. La prima fase dell’autodistruzione è la paranoia, poi si passa alla depressione, e siccome i depressi consumano meno ossigeno, quando tutti diventeranno depressi vivremo in una società felice che risparmia l’ossigeno…

 

      Non le sembra che il “Manuale” di ieri e l’autobiografia di oggi si specchino l’uno con l’altro, la fiction si incrocia con l’autobiografia e l’autobiografia con la fiction?

 

Può darsi… L’autobiografia è nata per un senso di colpa. L’ho iniziata nel 1976 perché avevo lasciato una donna. Ero in preda a una lotta con me stesso: “la mollo? Non la mollo?”. Quindi ho cominciato a scrivere per capire bene perché l’avessi lasciata. Il confine tra l’autodistruzione e l’autoliberazione. Per capirlo sono partito da 17 anni prima, ho raccontato i miei viaggi in autostop, la ricerca di qualcosa che mi togliesse un senso di esclusione dal mondo, poi la militanza politica, come chiusura nei confronti di un mondo che ha la verità. L’idea in parte di un trotskismo classico nel trotskismo. Il solito meccanismo mentale che parte da una rivoluzione fallita e si prepara alla prossima rivoluzione, senza sapere che la prossima ondata rivoluzionaria non c’entra niente con le precedenti. Gli strumenti che si sono gelosamente conservati non sono più adatti. E tutte le varie “rivoluzioni”, in fondo, erano sempre un rifugio dalla realtà.

      L’autobiografia quindi è anche una serie di storie collettive, quelle dei movimenti?

 

All’inizio scrivevo per me, e ho continuato, pensando di scrivere i fatti miei, e invece mi sono accorto che stavo descrivendo un’epoca. Nel Manuale descrivevo anche gli anni ’80, la delusione, la distruzione reale di tante persone… Questo nuovo libro invece parte dal 1976 e arriva alla metà degli anni settanta. Racconta le illusioni di quei tempi, di una serie di generazioni. Io sono nato molto prima, per cui non sono stato proprio al centro dell’esplosione, ero già un adulto. Però, come si sa, in Francia il 68 è durato due mesi, mentre in Italia è durato ben 10 anni. Dieci anni di nostalgia e di estremismo totale.

 

      Fin qui la politica, e le donne?


La mia “malattia asociale” consisteva nel fatto della piena sottomissione nei confronti della donna, nel timore morboso di darle un dispiacere e contemporaneamente nelle fantasie sadiche in cui la donna è vista come oggetto, ma la cui caratteristica principale è il fatto che la donna vagheggiata mi ama senza pretendere da me amore e può essere cambiata in qualsiasi momento. Lei si impegna, io no.

 

      Possiamo dire, perché è evidente, che il suo stile narrativo peschi molti elementi dalla poesia. D’altronde lei è più poeta che un narratore.

 

 Sono conosciuto soprattutto come poeta, come narratore molto meno, anche se ho scritto molti romanzi. Credo che sia “colpa” del fatto che la mia scrittura, anche nella narrativa, è molto fuori degli schemi normali e non viene accettata dal lettore. In concreto, se oggi Beckett fosse un giovane scrittore, avrebbe un enorme problema a trovare un editore, e tutt’al più avrebbe un successo di nicchia. Mentre la poesia viene accettata. Come narratore sono meno conosciuto. E sono più poetico quando scrivo narrativa. Sono più complicato, più sperimentale, complesso in narrativa che in poesia. Sono una specie di ibrido, tra il poeta e il narratore. E se fossi un atleta, sarei uno che corre gli 800, gara veloce ma non di velocità e gara di resistenza ma non gara di fondo.

 

Faccio un lavoro di sperimentazione maggiore che nella mia poesia, che invece è relativamente semplice.
Gustavo, un altro mio romanzo, non è stato gradito, per esempio. Lo scrissi cercando di deformare il linguaggio. Il problema oggi è che l’italiano letterario, dopo aver perso tutti i dialetti, è diventato il linguaggio televisivo. Mentre gli inglesi creano continuamente gerghi e neologismi che entrano nella letteratura e nel linguaggio di tutti i giorni. Per questo nel mio nuovo libro ci sono parole deformate, maiuscole sbagliate. Il senso del suo linguaggio è come ascoltare la musica contemporanea, da Shostakovich a Frank Zappa; la maggioranza non ha voglia di capirla e purtroppo la nostra idea della musica è ancora all’Ottocento.

 

      Ha un dialogo con le nuove generazioni di poeti? Segue i giovani che siano poeti classici o sperimentali?

 

      Sì, certo. Le avanguardie storiche, poi riciclate dal Gruppo 63, hanno segnato più generazioni e forse non volendo hanno lasciato in eredità una certa anarchia, non ci sono linee precise, maggioritarie, fondanti, non ci sono neanche personaggi fondanti, sia tra i poeti che tra i critici. I poeti bravi ci sono, esistono, ma sono invisibili. E così noi non li conosciamo.
Parliamo comunque di nicchie e i poeti che si nascondono devono essere cercati e stanati. Non è vero che la poesia non esiste più, anzi, ce n’è molta sul web, invece.

 

      Quindi non è d’accordo con il critico Alfonso Berardinelli, che ha cantato il requiem della poesia. L’Italia è un paese per poeti?

 

      Spero sinceramente di sì. Non sono ancora pronto a morire.

[Immagine: Carlo Bordini]

 

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