cropped-cropped-CABA09551.jpg[Da qui a settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Ripubblicheremo alcuni interventi usciti qualche tempo fa. Quello che segue è uscito il 6 maggio 2015].

a cura di Francesca Santucci

Francesca Santucci: Cominciamo da una domanda sulla scrittura. A partire da Ora serrata retinae, la sua scrittura evolve in una parabola sempre più vicina alla prosa (penso alla sua terza raccolta, Esercizi di tiptologia, per cui qualcuno ha parlato di “proesia”); viceversa, nei libri di prosa, troviamo spesso innesti di alcuni versi (c’è un meccanismo di ready made linguistico di cui lei ha parlato anche ne L’enigmista e l’invasato). A proposito di questa ibridazione tra prosa e poesia, qual è il discrimine (se lei ritiene che esista), tra la sua produzione poetica e prosastica?

Valerio Magrelli: Si tratta davvero di un’ibridazione. Non c’è un compromesso, una via di mezzo: la poesia e la prosa sono proprio due correnti che si intersecano; certo, la seconda nasce successivamente, esattamente dodici anni dopo che avevo pubblicato i versi: i primi versi sono dell’80, le primi prose del ’92. Dopo dodici anni, scopro una strada per la prosa, una soluzione che mi evita l’invenzione di personaggi. FS: Ne ha parlato come di “saggismo autobiografico”. MV:Esatto. Io le chiamo “prose”, ma mi trovo bene nella definizione di “saggismo autobiografico” e, perfettamente, anche con la tanto famosa autofiction. Se vogliamo, è quella strada maestra del Novecento da cui vengono sia Proust che Céline. Curiosamente, lessi una bellissima intervista a Claude Lévi-Strauss, che disse “il mio piacere di scrittore è Proust e Céline”: lui non solo univa i due più grandi romanzieri del Novecento francese, ma anche i due più segnati dall’auto-finzione; quindi, in un certo senso, non è casuale che l’antropologo sia stato così attento: erano due esempi di scrittura etnografica. Insomma, dal ’92, nasce l’idea, la scoperta di una possibilità per la prosa, attraverso dei racconti autobiografici: quelli di Esercizi di tiptologia; racconti talmente autobiografici, che i primi due hanno per titolo un anagramma. FS: Alle lagrime, roviVM: E Rivelarmi al gelo, esattamente. Quindi, c’è una potentissima radice autobiografica, in questi scritti. Esistono dei racconti precedenti (che, naturalmente, ho bruciato tra le fiamme perché ritenuti particolarmente brutti), in cui cercavo una strada senza futuro, quella dei nomi propri: per me dire “Sergio” o “Stefano” vuol dire paralizzarmi immediatamente. C’è un po’ la vecchia idea di Paul Valéry dell’arbitrarietà del narrato, il quale, al contrario, ha una potente necessità, ma di natura diversa. Ancora oggi continuo a intrecciare le due cose, poesia e prosa, ma anche con altre dimensioni. Mi piace molto l’idea di un libro 3d: per esempio, in Geologia di un padre, ci sono le poesie, ci sono le prose, ma ci sono anche i disegni. Sono tre dimensioni con cui mi piace giocare, però, da un certo momento in poi, prosa e poesia si distinguono decisamente dal disegno. C’è un nuovo libro che deve uscire tra uno o due anni che, curiosamente, parla dei disegni di Fellini. È un libro su commissione, ma in realtà è molto autobiografico, per mille motivi; e, chissà, di nuovo ci saranno poesia, prosa e disegni, però questi ultimi non saranno miei.

Di solito ho una scansione, per quel che riguarda i versi, di una volta ogni sei, sette, otto anni, grosso modo. A questa, si è sovrapposta la produzione delle prose. Poi, addirittura, è uscito da poco un librettino per Manni dove c’è un micro atto teatrale. Adesso mi piace molto l’idea di essere un poligrafo.

FS: Sulla dimensione di autobiografismo: la definizione di “saggismo autobiografico”, riguardante la tetralogia prosastica, è evidente per Nel condominio di carne e Geologia di un padre, però penso ad alcune prose di Addio al calcio eLa vicevita, in cui il soggetto narrante si trova in situazioni particolarmente iperboliche e rocambolesche, quasi straordinarie, ed è particolarmente difficile per il lettore credere che si tratti di autobiografismo. Mi riferisco, ad esempio, in Addio al calcio, alla partita di pallone nell’altopiano irlandese tra due formazioni sterminate composte da contadini, curiosi e turisti, e, per quanto riguarda La vicevita, al rapimento per gioco di un passeggero del treno, legato e issato sullo scomparto delle valigie. Valerio Magrelli coincide sempre con la voce narrante all’interno di questi componimenti, o c’è qualche spunto di invenzione?

VM: Il “saggismo autobiografico” della tetralogia prosastica (a proposito, le comunico che tutti questi quattro libri dovrebbero uscire in un unico volume, presto) è letteralmente tale: se devo dire la verità, fino adesso la coincidenza tra me e la voce narrante è assoluta. Le dirò, anzi, che in un racconto avrei voluto inserire un elemento d’invenzione, e mi incuriosiva molto farlo, per la prima volta. Era il racconto di una violenza, in cui avrei voluto inserire qualcuno che arrivasse a punire l’azione; ma poi, alla fine, non ce l’ho fatta. A tutt’oggi, la mia mancanza di fantasia è totale.

FS: Proseguiamo con una domanda sulla sua formazione. Lei ha frequentato un liceo sperimentale; parafrasando Mallarmé, ha dichiarato “la distruzione è la nostra perpetua”. Quanto ha inciso sulla sua formazione di scrittore un’impronta culturale in cui l’avanguardia era concepita come tradizione?

VM: Molto: pensiamo che il mio primo lavoro universitario, che poi è diventato una monografia, fu sul Dada. InGeologia di un padre, per esempio, c’è il racconto di quando regalai un disco di Schönberg a mio padre, che rimase perplesso: bene, anche queste sono tracce. Quel liceo ha segnato profondamente la mia cultura; e poi (è un dettaglio apparentemente poco interessante, ma, per me, autobiograficamente, è stato cruciale): si usciva alle cinque di pomeriggio. Per me la scuola non finiva mai, invadeva la mia vita; ed era un caso unico, ad eccezione di quanti fossero in collegio. Non parliamo, poi, dell’inverno: uscivo nelle tenebre. Era lontanissima casa mia, dovevo fare quasi venti chilometri in motorino con un mio amico, in due, traballanti, sotto la pioggia. Questo liceo era una specie di detenzione, se ne consideriamo il lato negativo. In positivo, posso dire che avevamo una classe docente di primissimo ordine: giovanissimi, gente laureata magari tre mesi prima, ventiquattrenni che facevano lezione a noi diciottenni e diciannovenni; e poi figure di grandissimo valore. Per non parlare delle materie che studiavamo: architettura, fotografia, yoga, psicanalisi, scultura; c’erano proprio dei corsi, era come un’università. La mattina seguivamo le materie obbligatorie (che poi, alla fine, erano quelle che conoscevamo meno), e invece il pomeriggio c’erano materie alternative. Tale dimensione era calata, poi, in un universo di grandissima violenza: era il periodo delle assemblee, dei fascisti, delle bombe, delle BR, della lotta armata, di Lotta continua. Indubbiamente, questo liceo mi ha segnato molto.

FS: L’interesse per l’arte che si evince dalla sua produzione è ascrivibile ad un’istruzione di questo tipo? Nei suoi testi, lei cita molti artisti contemporanei: mi riferisco, tra gli altri, a Moore, Giacometti, Orlan, Schwitters (oltre alle diverse spie che riflettono il suo legame col Dada, s’intende).

MV: Sì, direi di sì. A ciò aggiungerei le passeggiate con mio padre, per la scoperta della Roma barocca (penso a Borromini ed altri). Da ragazzo disegnavo, più che scrivere. Addirittura, ho fatto delle sculture, delle ceramiche. In seguito, ho abbandonato completamente, ma mi è rimasto questo riflesso condizionato. Ad esempio: la prima cosa che faccio, in qualsiasi città in cui vado, è visitare il museo; e così ho fatto anche con i miei figli. Altre cose, magari, hanno attecchito più faticosamente, lo vedo proprio con loro: per esempio, loro non vanno ai concerti. Nella mia formazione, invece, era quasi ovvio che si dovesse fare tutto. La mia è stata una generazione (in questo sono stato fortunato) in cui vigeva una specie di enciclopedismo, tra gli studenti: tutti dovevamo suonare, tutti dovevamo sapere tutto di tutto. Quello che ha preso più piede, a casa mia, credo sia proprio l’arte: tutte le pareti sono piene di quadri di miei coetanei, con cui ho fatto delle mostre. Io lavoro moltissimo con i pittori; spesso, scrivo un’introduzione e loro mi regalano un’opera, in cambio. Non posso dire di essere un collezionista, però è rimasta una passione decisiva per l’arte.

FS: Ancora sull’arte e, in particolare, sul Dada: oltre agli evidenti riferimenti interni ai suoi testi, mi sembra che abbia influenzato anche l’organizzazione del suo materiale. A parte il ready made linguistico, c’è questo concetto duchampiano di sospensione del gusto che potrebbe spiegare (chiedo a lei conferma) la soppressione di una seconda raccolta, dopoOra serrata retinae, che lei aveva ritenuto troppo simile al primo libro. C’è un bisogno, lo ha dichiarato in alcuni interventi, di differenziarsi, distaccarsi dalla produzione precedente; come una sorta di rinnovamento.

VM: Sì, mi rivedo perfettamente. Io mi considero un privilegiato, perché faccio il lavoro che amo di più: insegnare e studiare per insegnare. Tengo spesso dei corsi scegliendo il programma in base a libri che prima non conoscevo, o conoscevo troppo poco. Sembra paradossale: economicamente, si preferisce lavorare sul conosciuto, così si fatica meno; ma la noia è superiore alla fatica. I tre quarti dei miei corsi sono incentrati sempre su opere che non conosco, perché preferisco faticare, che annoiarmi. È un’evoluzione continua: cioè, se io conosco mille autori, di questi mille, solo alcuni mi svelano qualcosa che non sapevo mi appartenesse; questo è un po’ il meccanismo. Quando studiavo il Dada avrò visto Ball, Tzara, Breton, Soupault; ma su Duchamp è veramente scattato qualcosa. Allora, per me, alcuni problemi, alcune esigenze, provengono da lui e (cosa importante) dalla lettura che Octavio Paz dà di Duchamp. Indubbiamente, per me ripetermi è qualcosa di intollerabile. Con questo, sembra paradossale, alcuni tra i miei pittori preferiti (cito soltanto Morandi e Rothko) sono pittori della ripetizione infinita, della variazione sul tema. Quindi, non è un partito preso. Ecco, se c’è una polemica verso cui sono molto agguerrito è quella sulle poetiche. Non ho mai capito come sia possibile abbracciare una poetica e portarla avanti per tutta la vita. Per me è il contrario: prima scrivo l’opera e poi ne desumo una poetica. È bene essere originali, e questo vale come sentimento personale, non come principio: per me è impossibile scrivere due libri che, sostanzialmente, siano uno il doppione dell’altro; viceversa, gli artisti che amo di più sono proprio quelli che riescono a variare all’infinito.

FS: Parliamo di poetiche, allora. Lei è stato più volte accostato al Postmodernismo, e per la sua opera si è parlato di un ricorso all’ironia. Questa cifra ironica che, talvolta, si desume dalla sua produzione, ritiene sia vicina all’ironia caratteristica del Postmodernismo?

VM: Mah, io ho un problema con questa definizione. Innanzitutto, distinguerei: il Postmodernismo in architettura vuol dire una cosa e in letteratura vuol dire un’altra, del tutto diversa; ecco, per quello che riguarda la letteratura, per me il postmoderno è un insulto. Ho avuto una lunga chiacchierata con Andrea Cortellessa, che mi considera postmoderno.FS: Sì, Cortellessa ha definito Ora serrata retinae come la prima raccolta poetica postmoderna. VM: Sì. Me lo ha anche spiegato molto bene, però io non riesco a accettarlo; semmai, io mi sentirei premoderno, nel senso in cui può essere premoderno il Dada: è il momento della rottura del moderno, e io mi sono formato lì. Io posso tollerare l’accostamento a degli scrittori che non amo, se li consideriamo modernisti; ma non posso sopportare d’esser messo vicino ad uno scrittore che non amo, e che per di più è postmoderno. Da una certa angolazione (e Cortellessa lo ha spiegato bene), non c’è dubbio che io possa rientrare all’interno di questo paradigma. Ma c’è un elemento fondamentale che me ne dissocia: è un sentimento pulsionale, lirico, della materia, che non sarà mai riassorbibile completamente all’interno del Postmodernismo. Sì, è vero, io gioco, ma allora preferisco la definizione di manierismo. FS: La sua, del resto, è un’ironia mai ridanciana; è un atteggiamento quasi ghignante, c’è del sarcasmo. VM: Esattamente. Se dovessi indicare, appunto, le pagine che fanno ridere, io citerei Belli, Céline, autori del riso ma, è il caso di dire, riso amaro come il sangue. Nel Postmoderno, in poche parole, vedo qualcosa di artefatto, artificioso, che è lontanissimo dalla mia sensazione carnale, animista della letteratura.

FS: La sua è una scrittura aperta alle forme prossime di vita: agli oggetti domestici, casalinghi, anche tecnologici; ritroviamo una dimensione dell’infra-ordinario perecchiano, cara alla poesia di Montale. L’uomo stesso, in molti suoi componimenti, è vittima di un processo di oggettivazione, di una metamorfosi reificante, e questa dinamica si sposa bene con una riflessione sulla prosasticità dell’esistenza e sulle alienanti attività cui l’uomo è sottoposto nel vivere moderno (che troviamo a partire da Didascalie per la lettura di un giornale; ma penso, anche, all’ultima poesia edita nel volume per i 50 anni di Bianca Einaudi, in cui la memoria di un defunto viene ridotta a password). Mi chiedo quanto, e come, questo atteggiamento oggettivante sia compatibile con un intento poetico di antilirismo (intendendo una poesia che vuole dichiaratamente essere “alta attraverso il basso”, chiamando gli oggetti con il loro nome): lei esclude il gabbiano a favore del telefono, delle macchine, dell’autobus, del codice PUK, della tassa IMU.

VM: Appunto per questo, parlavo di animismo. Io avverto quest’atteggiamento, tipico delle società primitive e dei bambini, di prendere a calci l’oggetto che mi ha ferito. C’è una proiezione antropomorfizzante per cui tutto viene dotato di un’anima. Quando parliamo di antilirismo, per essere più preciso, s’intende la mia contrarietà ad un lirismo d’accatto, ad un lirismo ottenuto attraverso il poetese condannato da Sanguineti, cioè, attraverso qualcosa di preconfezionato; viceversa, a me interessa, come lei ha detto molto bene, l’idea di affidare quest’onda, questa spinta sentimentale, al telefono, alla vecchiaia descritta come la carta smagnetizzata. Magari ci sono oggetti che, per pigrizia, non abbiamo ancora visto in una prospettiva poetica. Ecco perché cito spesso un poeta francese, in Italia poco noto, Jean Follain, il quale scrisse una poesia bellissima: c’è un signore che ha bisogno di appendere un quadro e va dal ferramenta a comprare i chiodi; gli aprono un cassetto e lui resta colpito, emozionato, dal vedere un cassetto pieno di chiodi luccicanti. Ecco: tutto può essere poesia, non si tratta di andare a cercare le cose più astruse; ma di partire rinunciando a quelle già troppo abusate: i gabbiani al tramonto.

FS: Parliamo di questa prospettiva animistica. Nel discorso sulla reificazione, abbiamo citato una dimensione castrante del vivere quotidiano, (ne Il violino di Frankenstein, lei parla di “burocrazia del corpo”). Se l’uomo diventa fermacarte, oggetto, potrebbe essere portato a concepire le invisibili forze della burocrazia o l’inspiegabile funzionamento del computer come delle entità soverchianti. Crede che il meccanismo reificante e quello animistico siano parte di uno stesso circuito o siano indipendenti? Cioè: la riduzione dell’uomo ad oggetto è correlata a questo sentimento animistico della materia?

VM: Sì, indubbiamente, c’è come uno scambio. Nel condominio di carne ha una pagina in cui racconto “teschi giravano per casa”. Mia madre, essendo medico, possedeva i materiali che passavano nei suoi corsi. Quindi, aveva un teschio; ricordo che lo verniciai di giallo. Oggi queste cose, da una parte, ci sembrano appartenere ad ere geologiche antichissime. Inoltre, ci fu l’incidente motociclistico (c’è la mia radiografia, come un “autoritratto”, sulla copertina di Nel condominio), che accentuò una dimestichezza col tema funereo. Da un lato, allora, c’è un senso di estrema familiarità con la morte e, questo, in senso reificante, come ha detto lei; dall’altro c’è una specie di inferno, una realtà che si ribella contro l’uomo. Ne ho parlato in un saggio intitolato Pandemonium, facendo riferimento specificamente a Bosch, agli Inferni delle sue tele: brocche con le gambe, coltelli con gli occhi.

FS: Dunque, troviamo: uomini che diventano oggetti, oggetti antropomorfizzati e, ne parlavamo all’inizio, situazioni spesso iperboliche. Mi chiedo, allora, quanto la cifra metaforica della sua scrittura, che è molto forte, potenzi oppure rallenti, a suo parere, il realismo dei componimenti.

VM: Per me è fondamentale che il testo abbia un suo movimento. Molto spesso mi trovo a seguire in maniera quasi mesmerica, da rabdomante, una pista che si apre nel linguaggio e nelle cose: si tratta di due campi che interferiscono; come un campo magnetico. Per esempio, tra ieri e l’altro ieri, ho cominciato due testi, però non so dove andranno, quale forma prenderanno. Questa prima fase consiste nello smarrirsi, nel lasciarsi andare. Poi, col tempo, si susseguiranno molti interventi, viceversa, compositivi (nel senso letterario del termine). C’era un grande, strano poeta americano, Basil Bunting, che ho citato qualche volta, che dice: “quando un poeta prepara la sua raccolta, inchioda le tavole della bara”. Ricordo questa citazione a distanza di trent’anni. È una visione molto funebre, ma anche molto vera: si tratta di dare sepoltura, di dare una veste quantomeno definitiva alle proprie parole. Però, le ripeto: arriva alla fine. Io, spesso, seguo le poesie, le divido in due, le unisco, le giro, le riscrivo, le traduco; ma tutto il resto viene dopo. FS:Non esiste un disegno, neanche approssimativo, iniziale? VM: Mai. Per esempio, le logiche numeriche sui capitoli: 45 come i 45 minuti in Addio al calcio; 83 come gli anni di mio padre in Geologia di un padre. Sia nel primo che nel secondo caso, in realtà, l’idea mi è venuta alla fine, e sembra assurdo, da parte di uno che ci gioca sempre. In entrambe le occasioni, comunque, è stato come trovare un salvagente, perché sentivo che la materia mi sfuggiva di mano: c’era qualcosa di amorfo che non potevo sopportare. Ecco, direi che ricorro a questi espedienti per cercare una forma; ma tutto avviene strada facendo, perché la vita del testo è lunghissima, per me. Spesso posso tenerlo tra le mani sette, dieci anni prima di pubblicarlo.

FS: Parliamo allora della sua ultima raccolta edita: Il sangue amaro. Abbiamo ancora un timbro etico e caustico tra le liriche di questo libro, però, a tratti, mi sembra che la voce sia in qualche modo più nostalgica e, soprattutto, che faccia il suo ingresso un sentimento inedito: la solitudine (penso, ad esempio, ad una poesia sulla scrittura nei bagni pubblici, oppure alla sezione La lettura è crudele). Mi chiedevo se la polemica accusatoria delle prime pagine (pensiamo alla poesia su Alba Parietti) e questa riflessione amareggiata e intimista appartenessero ad una stessa parabola; cioè, se lei avesse previsto per questo libro un progredire di accuse e sarcasmo alternati a pensieri malinconici.

VM: Sì, indubbiamente. Ma, certo, i testi sono frutto di riflessioni nate in occasioni diverse (seppure, ovviamente, circoscritte), perché dall’ultima raccolta, del 2006, sono passati otto anni. Lei pensi che, addirittura, c’è una poesia che ho inserito nelle seconde bozze: insomma, sono otto anni interi, fino all’ultimo giorno. Spesso sulle bozze cambio le posizioni dei testi, mi è successo soprattutto con Disturbi del sistema binario, che è uno dei libri più lavorati. Dal 2006 ci sono stati otto anni di viaggi, di esperienze, di vita: in otto anni succede di tutto. Nel momento in cui, però, presento una raccolta (che per me ha a che vedere con qualcosa di estremamente coeso, come un organismo), cerco di distribuire i testi. In questo caso, c’è una parte precipua per le invettive (la sezione Il policida) e una parte più nostalgica (ad esempio, in Paesaggi laziali). Cerco sempre di ricreare una macrostruttura, una coerenza interna. Questa è la cosa più difficile e anche questa è, ovviamente, una questione di gusti. Ecco perché odio la poetica: detesto tutto ciò che è predittivo. Ognuno fa quello che vuole; a me piace fare questo. FS: La sua è un’antipoetica come l’antimovimento propugnato dal Dada, allora. MV: Sì; in un certo senso, questa è proprio una postpoetica.

FS: Il suo ultimo libro, uscito pochi mesi fa, invece, La lingua restaurata e una polemica, continua un dialogo tra Machiavelli e il Tenerissimo che avevamo già trovato ne Il Sessantotto realizzato da Mediaset. Se, nel primo, i due personaggi disquisivano circa l’abbandono da parte degli italiani dell’istanza del reale, irretiti dall’illusione berlusconiana, nel secondo, Machiavelli e il Tenerissimo continuano a discutere sulla fuga dei cervelli e sulla disoccupazione giovanile, però con delle reticenze: i dialoghi sono censurati, e mi sembra che anche la copertina del libro vada in questa direzione. VM: La copertina del libro nasce da lì, proprio. Perché, censurando i dialoghi, ho voluto tenere i puntini, e allora l’ho dedicato a Emilio Isgrò, che non conoscevo. Tramite un’amica in comune, lui è stato così generoso da leggere il testo e da regalarmi la copertina, realizzata appositamente. FS: E cosa è successo che ha richiesto il ricorso alla censura a partire da Il Sessantotto fino alla scrittura di questo nuovo libro? Perché la comparsa di quelle reticenze? VM: Il mio pensiero si è fortemente incrudito. I puntini, come ho scritto nella dedica, mi sono stati consigliati da due miei amici penalisti. Mi hanno detto di inserirli, perché altrimenti avrebbero dovuto “portarmi le arance a Rebibbia”, come si dice a Roma. Ed è vero, perché c’erano gli estremi della diffamazione. La differenza l’ha fatta quello che io chiamo, ridendo, il “patto Molotov-Ribbentrop de noantri”: abbiamo avuto l’unico caso, credo, nei paesi democratici, di alleanza tra opposizione e governo: una cosa contro natura. Mi viene in mente di avvicinarlo all’amore di Pasifae per il toro; solo che, da noi, non nascerà nessuna Fedra, come ho spiegato nella seconda delle Due quartine avvelenate uscite su “Micromega” del gennaio 2015:

Il berlusconismo, malattia senile/servile del comunismo

Parlavate di Antigone la casta

ma avete preso Pasifae a modello,

ninfomane che venera la Casta

pur di farsi montare dal torello.

FS: Questo libro si conclude con l’immagine di un restauro: dopo il referto di un’Italia fatiscente, macilenta, lo possiamo considerare un messaggio di speranza?

MV: Beh, chi vuole lo può fare, anche se in realtà non ci pensavo molto. Si può considerare un augurio, certamente.

[Immagine: Valerio Magrelli].

1 thought on “Ibridazioni. Intervista a Valerio Magrelli

  1. DddmA: “ Mercoledì 24 aprile 1996 – Col suo magnifico nome d’epoca Benedetta Craveri si chiede oggi: « La scrittura frammentaria era per Joubert una “ necessità “ o una scelta? Era lo strumento espressivo più congeniale a un pensiero che si manifestava per intermittenze o era il segno di una incapacità a sviluppare, sul piano letterario come su quello concettuale, una riflessione filosofica di ampio respiro? Dobbiamo considerare Joubert come un epigono di La Rochefoucauld o come un precorritore di Valery? I Carnets chiudono la grande epoca dei moralisti classici, o inaugurano, al contrario, la stagione del Journal intimo? ». (L’avvenente Benedetta ci informa anche che Valerio Magrelli ha scritto un saggio su Joubert nella collana diretta da, nota bene, Pizzorusso (e Raimondi)). “.

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