di Gianluigi Simonetti
[Da qui a settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Ripubblicheremo alcuni interventi usciti qualche tempo fa. Quello che segue è apparso il 18 maggio 2015].
[Una prima versione più estesa di questo saggio è uscita su «Ricomporre l’infranto». Si tratta della sbobinatura di un intervento orale. Pubblico qui una sintesi della prima parte, che conserva comunque lo stile un po’ sbrigativo imposto dalle circostanze in cui il testo era nato. Di qui anche l’assenza di note e di bibliografia].
1. Innanzitutto due parole sul titolo scelto per questo incontro. Quella di letteratura “di una volta” è categoria anche un po’ ironica: allude a un rimpianto molto diffuso, soprattutto nelle università o nei licei, per quell’antropologia letteraria all’ingrosso moderna e in particolare postromantica, otto-novecentesca, che conferisce all’arte un ruolo di rilievo assoluto nell’educazione sentimentale dei cittadini, alla letteratura un posto chiave all’interno del sistema delle arti. La letteratura sarebbe il linguaggio artistico per eccellenza, quello in cui più forte sopravvive il mandato etico e quasi religioso che la modernità gli aveva conferito; nel linguaggio letterario si sedimentano i valori per vivere bene in società e conoscere l’esistenza nel più profondo dei modi.
Accanto a questa idea nobile e forte di letteratura naturalmente c’è sempre stato uno spazio grande per la letteratura di consumo. Ma i due aspetti non si contraddicevano, anzi si legittimavano a vicenda, sia perché erano teoricamente separati, sia perché si riferivano a due tipi di lettore che potevano occasionalmente sovrapporsi ma che restavano a priori diversi:
– La grande letteratura forma le coscienze, interpreta il mondo (compreso quello che non si vede) e insegna a vivere e attraverso una forma, uno stile e un determinato uso della lingua. Il piacere di leggere fa parte integrante di un atto conoscitivo e non è separabile da esso.
– La letteratura di consumo è mero intrattenimento. Non c’è niente da scoprire o da imparare, anzi il divertimento può nascere dalla ripetizione dell’uguale, o da qualche innocua variazione sul tema.
L’usura di questa ripartizione ha implicato conseguenze molto importanti, ed è stata la cultura umanistica a uscirne più contaminata. A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta la vecchia idea forte e nobile della letteratura si è dovuta confrontare con i linguaggi della comunicazione di massa; con linguaggi estetici, a volte artistici, che avevano poche ambizioni di profondità e nessuna vocazione pedagogica (come è invece pedagogica e ambiziosa l’idea di letteratura tipica della modernità). Linguaggi narrativi potentissimi entravano in concorrenza con la letteratura e in particolare con il romanzo perché immettevano in circolo nella società un numero grandissimo di storie: le storie del cinema, della televisione, dei mass media in generale, adesso anche di internet. Sottoposti a questa pressione gli scrittori del Novecento hanno reagito prima elaborando un complesso di superiorità; poi, con il passare degli anni, si sono sentiti sempre meno saldi sulle loro posizioni. Diciamo che il campo letterario italiano, e occidentale in genere, è passato da un senso di superiorità a uno di inferiorità nei confronti della mediasfera. Cioè, dall’impressione a lungo coltivata di godere di un primato culturale ed estetico sui linguaggi artistici ed estetici concorrenti, alla impressione che abbiamo oggi per la quale sono i linguaggi audio-visuali ad essere egemoni, ed è il campo letterario a sentirsi sempre meno sicuro di sé socialmente.
Questo non vuol dire che la letteratura stia morendo; a trovarsi in forte difficoltà è un certo tipo di letteratura ed un certo tipo di scrittore, che definirei di “stile Novecento”, riciclando una categoria del disegno d’interni e dell’arredamento.
2. La letteratura sta dunque cambiando, mettendo in gioco le sue gerarchie consolidate. Cambiano specialmente laposizione e l’uso che la società attuale fa della letteratura.
La posizione, innanzitutto; nello scaffale simbolico in cui è ordinata, le scritture che conservano spessori ed ambizioni diventano sempre più un prodotto di nicchia, in senso merceologico; e come tutti i prodotti di nicchia, occupano una posizione defilata. La grande letteratura contemporanea non smette di essere scritta, però è sempre più destinata ad una parte ristretta della popolazione, ad un tipo specifico e minoritario di lettore. Il linguaggio della letteratura ‘di una volta’, inteso come mezzo privilegiato di conoscenza, o forma di vita, ha perso la sua centralità nel sistema delle arti: la maggior parte dei cittadini – di fatto – non lo considera più il linguaggio artistico per eccellenza, ma uno dei tanti momenti dell’estetico, non necessariamente il più importante.
In secondo luogo sta mutando l’uso che si fa della letteratura. Se è vero che la letteratura in senso forte è sempre stata una miscela di piacere e scoperta, è altrettanto vero che oggi è sempre meno socialmente intesa come conoscenza, e sempre più come divertimento ed evasione. Questo vuol dire, tra l’altro, che la letteratura è sempre di più qualcosa che fa parte di una esperienza estetica che include ingredienti non letterari (o anche non artistici; in genere connessi a qualche aspetto della comunicazione di massa).
Su questo piano è istruttivo quel che sta capitando alla nostra narrativa. Persa ogni netta distinzione fra alto e basso, si allarga un territorio che una volta era ristretto e nettamente delineato, e che invece sembra oggi occupare quasi tutto lo spazio sociale del romanzo, senza che sia facile identificarne i confini; lo spazio di una narrativa mediocre e media, destinata a lettori di media cultura, mediamente informati, mediamente progressisti, che alla letteratura chiedono insieme elevazione spirituale a basso dosaggio, conferme esistenziali, più qualcosa di intermedio fra il divertimento e il passatempo.
Appartengono a quest’area quasi tutti i libri che fanno dibattito, che interessano ai giornali e ai social network; le opere di letteratura contemporanea che effettivamente legge la maggior parte degli studenti che si iscrivono a Lettere. Ammaniti, Veronesi, Baricco, Giordano, Mazzantini sono i primi esempi che mi vengono in mente di questa cosa strana che non è esclusivamente letteratura di consumo, ma non è neanche romanzo in senso forte. Una narrativa per anime belle, che si appoggia ai valori, alle identità, alle idee che tutti pensano (tutti, in quella fascia di media cultura che abbiamo perimetrato); a confermare ciò che già si sa o si crede di sapere, in una gara col giornalismo di costume che a volte rasenta il crossover – come nei casi emblematici di Gramellini o Serra. Qualcosa di molto diverso e anzi opposto rispetto a ciò che provava a fare, nelle sue migliori riuscite, la letteratura ‘di una volta’, col suo puntare allo smascheramento di aspetti della realtà prima ignoti o non considerati. Per cui, oggi, una scrittura che nasca nel laboratorio dello scrittore (e dell’editore) come ”letteratura media”, incontra una lettura che cerca sempre più una forma di equilibrio, al riparo da sfide troppo impegnative; una miscela di intrattenimento temperato e di istruzione soft che per molti lettori, più o meno inconsciamente, è niente più di quel che ci meritiamo in questo momento della nostra storia.
Ma è importante aggiungere che non è solo questione di singoli autori o di esperienze separate; questa idea media di letteratura, e il lavoro editoriale che ci gira attorno, sono alla base di tendenze vere e proprie, di filoni narrativi. Va in questa direzione, per esempio, la fortuna che negli ultimi tempi hanno riscosso le scritture di genere – e la tendenza a promuoverle come letture di serie A. Ma è da chiedersi se non siano legate a questa sfera mediana anche alcune di quelle scritture adesso molto di moda chiamate “ibride”, o di frontiera, costruite proprio sull’intersezione fra generi diversi, e sulla polemica contro il romanzo. Sono libri che possono avere anche grande qualità e dignità letteraria, e che del resto si muovono in un orizzonte di ricerca che è proprio il contrario del genere, del racconto prefabbricato e dello storytelling più corrivo (è il caso ad esempio di Emanuele Trevi, e quasi didatticamente del suo Qualcosa di scritto). Eppure, anche queste scritture ibride – come le scritture di genere che ne sono apparentemente agli antipodi – hanno qualcosa a che fare con un’idea “debole” di letteratura. Entrambe rifiutano quello che è invece caratteristica di un progetto letterario “forte”, ovvero l’idea che un’opera debba disporre di un’identità e un’architettura complessa, precisa, autonoma, che non ha niente a che fare con i formati e con i generi e neppure con il loro contrario; che se ne frega di trasgredire o rispettare le regole perché magari le reinventa ma in ogni caso non le vede.
Qualcosa di simile avviene, del resto, nel campo della lirica: da trent’anni a questa parte, all’interno del generale movimento della poesia italiana, si profila la tendenza di alcuni poeti a farsi “di genere”, a restringere volutamente lo spazio della propria operatività. Oppure ibridarsi, a scrivere in uno spazio intermedio fra poesia e prosa. Esperienze diverse, con esiti diversi e diversi significati; ma forse anche un comune tentativo di allontanamento dall’ipotesi romantica e postromantica della lirica-supergenere, legata ad un’esperienza o a un modo di viverla unica e irripetibile. Si diffonde un’idea di poeta come artigiano della parola, o come cittadino che scrive, o come vittima di un esaurimento nervoso; non profeta, né santo, né capro espiatorio.
Questo tipo di antropologia letteraria presenta delle immediate conseguenze stilistiche, proprio nel senso per cui lo stile individuale è sempre meno importante. Per l’editoria che conta, per la maggior parte dei lettori, per molti scrittori italiani (soprattutto i più giovani e i più tentati dal racconto) l’impressione è che l’opera letteraria abbia sempre meno a che fare con un’avventura stilistica, e sia invece qualcosa che ha valore nella misura in cui riesce a moltiplicare i suoi agganci con temi o situazioni ‘forti’: opere sono sempre più costruite come casi, o come eventi; intuizioni narrative e soggetti la cui esecuzione stilistica potrà essere sbrigata in tutta fretta, o addirittura delegata.
Questo significa che se nella letteratura “di una volta” lo scrittore si sentiva parte di una tradizione che doveva magari avversare, attraverso un apprendistato stilistico specifico (che era proprio un “lavoro” e a volte un vero e proprio corpo a corpo con la lingua), l’impressione è che oggi ci troviamo davanti ad un’operazione complessiva di semplificazione e di annacquamento di quella sfida; la vera sfida è uscire dal letterario, o meglio essere contemporaneamente lì e altrove. Il che significa che la lingua della narrativa come quella della poesia è sempre meno letterariamente costruita (anche se può essere, ed è spesso, iperletteraria e speziata). Il sentirsi fuori dalla storia della lingua letteraria è anche legato, molto banalmente, alla pressione della comunicazione di massa, che arricchisce o impoverisce la cultura degli autori ma certamente modifica i modelli d’influenza, che appartengono sempre meno alla tradizione italiana e sempre più guardano altrove, anche per la grana della lingua. “Altrove” significa in altre tradizioni non italiane, ma anche in altri tipi di linguaggio. Si è molto complicato l’atlante intellettuale dello scrittore di oggi – per cui ad esempio opere cinematografiche, serie televisive, graphic novel possono costituire un modello anche più forte di quella che può essere la poesia e il romanzo italiano del passato. È dunque cambiato il serbatoio culturale degli scrittori ed è molto diverso il modello sul quale la lingua si forma.
3. La situazione del nostro campo letterario, così come la stiamo descrivendo, chiude o socchiude alcuni mondi, ma permette anche delle scoperte e consente aperture impreviste. Ad esempio è ancora possibile, o lo è più di prima, per i processi cui abbiamo accennato, trovare dei frammenti di grande arte letteraria anche in opere che non si presentano come letterarie. E allora, come spesso ha fatto la critica intelligente, si può provare a recuperare la vecchia forza della letteratura anche in settori che con la letteratura non c’entrano. Nella saggistica (specialmente direi negli studi sociali e scientifici); nelle memorie; nel fumetto; eccetera.
Un altro elemento di ricchezza, collegato al precedente, e che può essere altrettanto liberatorio dal punto di vista del lettore, consiste nel poter dire che la forza della letteratura che si scrive oggi non ha più niente a che fare con il suo blasone. Se nel Novecento l’appartenenza di un opera alla sfera della cultura ‘alta’ poteva essere una garanzia di qualità (e quindi anche un fattore di pregiudizio per il lettore), ora possiamo definitivamente affermare che quest’appartenenza non vuol dire più niente: i luoghi alti sono contaminati quanto i bassifondi, o quasi. La collana “bianca” Einaudi di poesia o lo “Specchio” Mondadori sono state per molti decenni delle collane di prestigio; che un poeta oggi pubblichi in quelle sedi non significa più nulla di per sé. Stesso discorso, in narrativa, per (ad esempio) i ”Supercoralli” Einaudi: Philip Roth può stare accanto a Dario Argento, perché entrambi sono considerati “maestri” di qualcosa – non importa di cosa, quando tutto ciò che è estetico è messo sullo stesso piano. Crollano le vidimazioni culturali e le mediazioni ‘alla fonte’ che avevano retto ancora nel secondo Novecento. Questo ci consente anche di essere dei lettori più liberi – cioè più nudi e più soli – perché in effetti nessuno verifica per noi quello che leggiamo; non il critico del «Corriere», tanto meno il blogger o il lettore che commenta su Amazon (allo stesso modo, neanche i premi letterari di per sé vogliono dire niente, né le recensioni, eccetera). La fine della letteratura “di una volta” significa anche la fine della critica che l’accompagnava – crolla anche quel mondo insieme a quel tipo di garanzie. Senza che niente le sostituisca: la democrazia della rete è ovviamente una farsa, anche da questo punto di vista.
Si può concludere questa premessa con una nota ottimista: non è in pericolo la letteratura in senso forte, ma solo la sua presenza sociale, e il senso politico della sua esistenza. Capolavori di narrativa, di poesia, di saggistica e di critica letteraria continuano a venire pubblicati più o meno come è sempre stato – pochi o pochissimi, al solito. Bisogna cercarli e identificarli con strumenti adeguati, come è sempre stato, ma anche con presupposti che non sono più quelli di prima. Il che equivale a dire: sarebbe sbagliato chiudersi in un’ottica epigonale e in un culto del passato, in una santificazione sterile della letteratura “di una volta”; esistono sempre la grande letteratura, e un pensiero che ci riflette sopra – ma non è detto che si trovino nei luoghi che il Novecento aveva costruito per noi; e neppure – va da sé – in quelli pensati ad hoc dalla comunicazione di massa per ipnotizzare i lettori del presente e del futuro.
[Immagine: Cool Car, Milano, 1 maggio 2015 (gs)].
In attesa di dare un senso al bisogno di un #dialogo_operativo … che permetta i #RitrovamentiDiFuturo reso irrealizzabile da una
“informatica di consumo che ignora le proprie origini”
[
UFFA? – https://goo.gl/NT4epz%5D1)
Declino e fine della letteratura “di una volta”
… “La letteratura di consumo è mero intrattenimento. Non c’è niente da scoprire o da imparare, anzi il divertimento può nascere dalla ripetizione dell’uguale, o da qualche innocua variazione sul tema.”
[http://www.leparoleelecose.it/?p=23910]
2)
Unibo’s Got Talent. L’università nell’epoca del talent show
…. “la formazione degli studenti come prodotto e non come processo, secondo un modello di “professionalizzazione” e di spendibilità immediata delle conoscenze; …” [http://www.leparoleelecose.it/?p=23897]
Il mio commento:
https://plus.google.com/u/0/+luigibertuzzi/posts/gthTVs6WR7w
“ 4 settembre 1984 – C’era una volta la letteratura e la storia della letteratura e la morte della letteratura e la resurrezione della letteratura e la buona letteratura e la cattiva letteratura. C’era. “.
L’articolo rapisce nell’ovvio, con una grazia non comune. La bella scrittura, in questo caso di Simonetti, è destinata alla trasformazione di cui parla? La sua analisi è condivisibile a tal punto da rassicurare, ma è dalla mediasfera che isola il segmento storico letterario (promessa liberatoria). E questa non è asservita alla didattica accademica filtrata, spesso paternalista, se pure non per prima intenzione? L’articolo mi interessa e mi piace, mi sembra che l’autore in punta di dita governi slanci e suggerimenti, ma mi chiedo: cosa rischia?