di Guglielmo Pianigiani
[Da qui a settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Ripubblicheremo alcuni interventi usciti qualche tempo fa. Quello che segue è apparso il 26 luglio 2015].
Nelle recenti settimane la televisione italiana ha diffuso, in diretta, alcuni concerti del giovane pianista cinese Lang Lang. Oltre all’inaugurazione dell’Expo di Milano, Lang Lang si è esibito a Firenze, Roma, Torino, e di nuovo a Milano (Teatro degli Arcimboldi). Ormai non si può parlare più di giovane promessa: il pianista trentatreenne è una delle star più richieste e contese fra le sale concertistiche e gli eventi musicali del pianeta. Ciò che vorrei provare a indagare è la natura, a mio avviso paradossale, di questo successo. La tesi di fondo è che Lang Lang risponde in toto all’estetica del postmoderno, nei pregi e soprattutto nei difetti. Vi è sempre un momento, nello star-system globalizzato, in cui l’immagine supera il contenuto, il marketing l’effettivo valore, l’apparenza la sostanza. Per rimanere nell’ambito della musica “colta”, è il caso di fenomeni difficilmente spiegabili quali Bocelli e Allevi, in cui si manifestano – da un lato – una voce artificiosa e intubata (termine tecnico) e – dall’altro – una personalità infantile e di scarsa profondità musicale (minimalista e new-age).
Il caso Lang Lang, tuttavia, mi appare più interessante, anche perché il livello dell’artista è senza dubbio superiore a quello degli due appena citati. Per entrare nel suo mondo credo che risultino assai utili alcuni riferimenti alle Lezioni americane di Calvino, pubblicate postume e incompiute nel 1988. Con quel testo Calvino tracciava le coordinate ideologiche e mentali del postmoderno, individuando costanti e ambiti di dominio categoriale. Una sorta di asse cartesiano di topoi in grado di far leggere la nostra epoca sotto il reagente di elementi-chiave, potenti come formae mentis imprescindibili e diffuse: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. Risulta sorprendente come ciascuna di esse sia del tutto compatibile con lo stile esecutivo di Lang, al punto da costituirne un inconsapevole presupposto ideale, oppure da far ipotizzare nel pianista la loro concretizzazione (e banalizzazione) postuma. Analizziamole una per una.
Leggerezza. È indubbio che nello stile di Lang il gioco leggero delle dita sia un elemento basico. Non parlerei, per altro, di jeu perlé chopiniano o di raffinatezza alla Debussy, per intenderci, quanto di superficialità. La conquista dei pppimpercettibili non risponde a scelte estetico-interpretative, quanto alla dimostrazione di una tavolozza timbrica spesso fine a se stessa. Lo dimostrano i passaggi realizzati con dinamiche leggerissime, ma che non hanno riscontro sullo spartito e finiscono per apparire immotivate. Scrive Calvino: «La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso» (p.17). Ciò accade anche in Lang (lo vedremo fra poco), ma rimane la sensazione acustica dello svolazzo, del ghirigoro privo di radicalizzazione interpretativa.
Rapidità. Questo è forse l’aspetto più sconcertante di Lang: lo stacco dei tempi. Ho ancora in mente la velocità disumana con cui affronta il Primo Scherzo di Chopin o la parte centrale del Secondo. Ho usato l’aggettivo ‘disumano’ di proposito e per due motivi: a) l’effetto da guinness dei primati, quasi il tentativo di battere un record per affermare un predominio fittizio; b) la perdita di ogni naturalezza, di contatto con l’umanità della scrittura, con il dolore profondo veicolato dai temi chopiniani, dissonanti e sofferti. Adesso tutto si è ridotto a performance ginnica, a precipitazione senza senso, a una corsa nel vuoto. È tale la fulmineità del tempo (non la concitazione, che testimonierebbe ancora di una componente umana) che in essa vanno perduti i riferimenti armonici, le articolazioni gerarchiche degli accordi. Tutto si sbriciola in un accatastamento di note da cui emerge solo qualche momento percussivo, isolato come un grido isterico, in una generale cancellazione di direzionalità.
Esattezza. La precisione millimetrica del tocco e della tecnica non difettano a Lang. Da un punto di vista di stretta manualità strumentale il talento del pianista è innegabile. Sebbene non si possa parlare sempre di esattezza filologica, data la singolarità di alcune scelte esecutive. Ricordo un evidentissimo staccato (ben palesato al pubblico) in corrispondenza a una nota con corona (e, dunque, lunga e tenuta) in un brano dalle Stagioni di Čajkovskij. Risulta molto più presente un’idea di esattezza come sottomissione alla logica del microscopio, al particolare che viene ingrandito e sottolineato senza motivazione, solo per il gusto di sorprendere e incuriosire. I passaggi rapidi e difficili divengono un pretesto per la comunicazione di bravura, esaltazione narcisistica del sé e rimozione dei valori compositivi. Non è il pianista al servizio dell’autore, ma il compositore che offre materiale alla centralità assoluta del solista.
Visibilità. Può dirsi visibilità in Lang proprio questo gioco di «iconologia fantastica» (p.94) che in Calvino prelude al delinearsi di una prospettiva visiva, all’intrecciarsi enigmatico delle infinite combinazioni (Le città invisibili, Il castello dei destini incrociati). Vi è una comune aspirazione alla trasparenza e, forse, all’oggettività. Il pianismo di Lang, in effetti, non conosce segreti, non indugia su clinali enigmatici: tutto appare in quanto è; o esiste nella sua apparenza. Semmai vi si aggiunge l’esteriorità del visibile, la fenomenologia del sé come interprete, la sapiente gestione del movimento del corpo, delle mani (indimenticabile in suo salutare ogni volta il pubblico a mo’ di benedizione papale…). Il viso si contrae in smorfie di dolore, allude a beatitudini; il busto oscilla lasciandosi cullare dalla musica in una manifestazione fisica che è parte fondamentale del gioco scenico (eppure anche in questo lontano anni luce dalle idiosincrasie autentiche di un Gould).
Molteplicità. La quinta categoria ci coglie di sorpresa. In effetti, lo stile di Lang convoglia mescolanza di generi e di stili, oriente e occidente, scuole pianistiche, tecniche, interpretazioni. Ma se in Calvino il senso del molteplice indicava al lettore la sfida a un mondo complesso, e lo metteva in allarme, in Lang il sovrapporsi degli stili si colloca après le deluge, è conseguenza oggettiva di una condizione storica, non scelta meditata e consapevole. Il pianoforte postmoderno contiene in sé tutta la tradizione, la conosce e la consuma in un fuoco d’artificio tecnico, disinteressato di ogni valore che non sia l’hic et nunc esecutivo. È un pianismo che fa a meno di ogni mediazione storica, che congiunge passato e presente in un indistinto adesso oltre ogni volontà di determinazione e definizione. Per questo il successo di Lang sarà, per il momento, privo di ombre e di tentennamenti: il pianista si offre al pubblico con la stessa leggerezza di un clown, a regalare emozioni senza tempo, come un performer ginnico che non impegna l’intelletto del destinatario quanto ne stimola l’appagamento immediato. L’estetica del postmoderno non chiede che questo.
[Immagine: Lang Lang]
Lang Lang afferma di essersi innamorato della musica guardando Tom e Jerry. Per quanto adori Tom e Jerry, credo che questo spieghi molte cose
accurata ed interessante.