cropped-ungaretti2-2.jpgdi Giuseppe Ungaretti

[Oggi, 16 agosto 2016, ricorre il centenario di una delle più belle e importanti poesie del Novecento europeo. L’ha scritta un soldato della prima guerra mondiale: aveva all’epoca ventotto anni, e dopo aver fatto un bagno, di mattina, nell’Isonzo, di notte poi, guardando le stelle, in mezzo all’inferno della guerra, ha scritto I fiumi. Riproponiamo il testo e alcuni brani tratti da un saggio di Pietro Cataldi (dbr)]

 

I FIUMI

Cotici il 16 agosto 1916

Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo                                                   5
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna

Stamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua                                                              10
e come una reliquia
ho riposato

L’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso                                                              15

Ho tirato su
le mie quattro ossa
e me ne sono andato
come un acrobata
sull’acqua                                                                          20

Mi sono accoccolato
vicino ai miei panni
sudici di guerra
e come un beduino
mi sono chinato a ricevere                                                   25
il sole

Questo è l’Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra                                                                  30
dell’universo

Il mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia                                                                         35

Ma quelle occulte
mani
che m’intridono
mi regalano
la rara                                                                                        40
felicità

Ho ripassato
le epoche
della mia vita

Questi sono                                                                       45
i miei fiumi

Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola                                                      50
e mio padre e mia madre.

Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza                                                 55
nelle estese pianure

Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto                                                          60

Questi sono i miei fiumi
contati nell’Isonzo

Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare                                                                        65
ora ch’è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre

«Mi tengo a quest’albero mutilato/ abbandonato in questa dolina»: metricamente, l’attacco dei due endecasillabi costituisce una falsa pista ritmica: l’unico altro endecasillabo s’incontra nello slargo del v. 55 («e ardere d’inconsapevolezza»), e a misure imparisillabe canonicamente abbinabili al verso maggiore di undici sillabe (quinari e trisillabi) si uniscono, già nella prima strofa, parisillabi in controtempo: un ottonario addirittura sdrucciolo è il v. 5 («prima o dopo lo spettacolo») e un senario il v. 7 («il passaggio quieto»). L’alternanza di parisillabi e imparisillabi rompe ogni tentazione di canto e impone una lettura che riconosca a ogni vocabolo, a ogni versicolo, il massimo di rilevanza espressiva e di attendibilità etica. Il letterato Ungaretti sa, in questi momenti maggiori della sua arte, respingere le lusinghe della convenzionalità degli istituti lirici.

            Suggestivo, però, è il sistema delle rime; e tanto più significativo in un poeta che, in questa fase della sua ricerca, sceglie il più delle volte di farne radicalmente a meno, a sottolineare anche così il valore originario del proprio sermo solutus. Tuttavia le rime e le altre figure foniche, nei casi in cui non vengano estromesse dal sistema dell’Allegria, appaiono allora valorizzate all’estremo (è il caso, per esempio, di Veglia), fino a sfiorare il clangore espressionistico (il caso appena citato è eloquente). Si dica allora che l’impiego della rima e delle altre figure foniche ha nel primo Ungaretti una funzione semantico-espressiva niente affatto dissimulata e discreta, e piuttosto incline a erompere dal tessuto verbale che non a conferirgli omogeneità e armonia.

            Dal primo verso origina l’allitterazione teNGo 1 : laNGuore 3 e soprattutto la decisiva serie di rime in -ato, che evoca il suffisso tipico del participio passato e del passato remoto che per mezzo di esso si compone (mutilATO 1 : abbandonATO 2 : riposATO 12 : tirATO 16 : andATO 18 : accoccolATO 21 : chinATO 25 : ripassATO 42 : rimescolATO 59; una quasi rima è contATi 62), rafforzata di consonanze spesso con omoteleuto (quieTo 7, riconosciuTo 29, viTa 44, conosciuTo 60) e di assonanze (spettAcOlo 5, guArdO 6, passAggiO 7, sAssO 15, quAndO 33). Ben quattordici delle diciannove occorrenze si presentano nella prima metà del testo, caratterizzandolo. La seconda metà risulta d’altra parte energicamente segnata dall’anafora Questo/a/i è/sono, lanciata dalla sesta strofe e presente in tutte le ultime sei. La rilevanza della deissi è d’altra parte già annunciata dai due versi di attacco («quest’albero», «questa dolina») e confermata, fra l’altro, dal «qui» del v. 28. Il rintocco temporale che la serie in -ato comporta si confronta con la pretesa di immobilità che la deissi evoca: quest’ultima conferma la presenza dinanzi alla dichiarazione di perdita che quello comporta. In tal modo la superficie del testo ci mette a contatto con il tema che ne occupa il fondo: il conflitto tra dispersione dell’esperienza e finitudine del soggetto, da una parte, e revocabilità e reversibilità spazio-temporale, dall’altra. Vedremo che anche la verticalità iconica del testo e la tematizzazione fluviale rientrano in questo grande progetto di redenzione. Intanto non si può sfuggire alla suggestione di ascrivere a questo progetto anche la rilevanza che le parole sdrucciole assumono nella compagine fonico-ritmica del testo, quasi che la movenza dattilica che ne scaturisce meglio potesse suggerire il voto di sospensione temporale che costituisce il nucleo vitale del componimento. Ecco allora albero 1, spettacolo 5, nuvole 8, acrobata 19, sudici 23, ricevere 25, docile 30, intridono 38, regalano 39, epoche 43, nascere e crescere 54, ardere 55, torbido 58, tenebre 69 (in posizione di explicit). Di analoga valorizzazione sono forse suscettibili i numerosi polisillabici, indugi protratti sul ciglio dell’adempimento discorsivo (e ritmico-musicale) che possono suggerire, in un contesto così ben caratterizzato in tal senso, il desiderio di indugiare e possibilmente deprecare l’adempimento del tempo. Esemplare, in entrambe le direzioni, la strofe dodicesima. Qui, accanto all’allitterazione queSTo : viSTo : eStese e all’assonanza NIlO : vIstO, si allineano ben tre verbi sdruccioli all’infinito («nascere e crescere/ e ardere»), tutt’e tre trisillabi, tutt’e tre della seconda coniugazione (e dunque con uscita in -ere), nonché solidali anche per il polisindeto e per l’allitterazione fra naSCEre e creSCEre. Ebbene: che cos’altro vuole suggerire questo passo di valzer, oltre che lo slancio vitale, se non la sospensione felice di quella fase esistenziale, allorché era possibile il miracolo di uno sviluppo senza rinunce, cioè un progresso senza tempo? È il tema della continuità, o eguaglianza, nella diversità, cioè della ciclicità temporale; anzi, meglio, della possibile unione di sviluppo (e progresso) rettilineo e di solidità circolare e ciclica: il tentativo, appunto, compiuto al più alto livello della coscienza (e dunque non altrettanto realizzabile) nell’insieme di questo testo, alla luce del conoscersi anziché dell’«inconsapevolezza». Che cos’altro indicano, infine, se non la mimesi di una stagione che aveva saputo sospendere il sentimento rovinoso del tempo, la dilatazione che al verso 55 conferisce il settisillabo «inconsapevolezza» e, soprattutto, il vuoto di accenti tra la 2a e la 10a sillaba (con la determinazione di un endecasillabo del tutto sui generis)?

La struttura strofica risponde a una ragione spazio-temporale: la cornice costituita dalla prima e dall’ultima strofe attesta un luogo (la «dolina» del v. 2) e un tempo (la «notte» del v. 66) che si distinguono da quelli riscontrabili in tutte le tredici strofe centrali. Queste contengono la narrazione di un episodio esemplare svoltosi poche ore prima di quella «notte» (cfr. «Stamani» al v. 9) in un luogo diverso dalla «dolina», il fiume Isonzo. Tale episodio ha rivestito un’importanza particolare, che il poeta tenta di comprendere ed elaborare durante la successiva riflessione notturna. La cornice è dunque il momento della coscienza, nonché il luogo della pronuncia poetica; il momento in cui il senso dell’esperienza viene compreso e il luogo dal quale dichiararlo.

            La cornice corriponde, o dovrebbe corrispondere, alla elaborazione dell’esperienza eccezionale narrata nella estesa parte centrale del componimento. Ma l’elaborazione si rivela difficile e incerta. Innanzitutto violento è il senso di minaccia che incombe sul soggetto, che erompe sulla scena nell’atto di cercare un sostegno e un appiglio, quasi di scongiurare una angosciosa perdita di presenza («Mi tengo…»), e si congeda assediato dalla «nostalgia» (v. 63) e dall’incertezza riguardo la propria identità individuale. La minaccia è innanzitutto quella della guerra, cui ci riconducono il luogo e la datazione del componimento, oltre che la sua collocazione nel macrotesto. Una allusione bellica è leggibile anche nello «spettacolo» del v. 5, metafora eufemistica dei combattimenti: «prima o dopo lo spettacolo» varrà dunque ‘in una pausa dei combattimenti’. La metafora è fra l’altro trascinata dalla similitudine del «circo» (v. 4), tema canonico tra Otto e Novecento, carico di suggestioni malinconiche e di rimandi alla condizione massificata dell’artista nella società moderna: non senza ragione il circo appare dunque qui carico di «languore» (v. 3). Una ripresa del tema si avrà al v. 20 («come un acrobata»).

            Il motivo della fragilità del soggetto e della minaccia che incombe su di esso è riscontrabile anche nel suo doppio vegetale, l’«albero mutilato» (v. 1) cui egli si aggrappa. L’identificazione con l’albero è denunciata a vari livelli. Sul piano sintattico, ambigua è l’attribuzione del participio passato «abbandonato» (v. 2) al poeta o all’albero: ‘io, che sto abbandonato in questa dolina, mi tengo a quest’albero’ oppure ‘io mi tengo a quest’albero, che sta abbandonato in questa dolina’? Certo, sul piano semantico non c’è molta differenza: tanto il poeta quanto l’albero giacciono nello stesso luogo, legati da una specie di abbraccio. Ma l’ambiguità sintattica sottolinea e sancisce proprio questa scambievolezza e reciprocità di destino. Pertinente è poi la metafora antropomorfizzante «mutilato», che evoca quasi per antonomasia la condizione del fante di trincea e il suo rischio di combattente. Sotto questo profilo l’albero raffigura una simbolizzazione del dolore umano, innalzando quasi un monumento naturale alla lacerata condizione del soldato sofferente.

            È tuttavia considerando il significato letterale della metafora, lasciato per ora sullo sfondo, che ne emerge forse la connotazione più forte e caratterizzata, carica di implicazioni intertestuali e culturali. «Albero mutilato» vuol dire, alla lettera, ‘albero che ha perduto parte dei rami’ (forse in seguito ai cannoneggiamenti bellici). Ora, l’immagine dell’albero ferito rievoca l'”archetipo” della selva dantesca dei suicidi nel XIII dell’Inferno. Il rimando è probabilmente rafforzato dal senso di fatale casualità che lega quest’albero, «abbandonato» nel sua squallida dolina, a quelli danteschi, germogliati ciascuno là dove la fortuna li ha balestrati, senza scelta possibile (cfr. Inf. XIII, 97-99). La notte circostante completa infine la suggestiva identità tra i due luoghi. Non sarebbe forse azzardato legare questo rimando intertestuale a una implicita tentazione di suicidio che ha colto il poeta in questo momento della difficile prova di guerra: i temi della morte e dell’incertezza serpeggiano lungo tutto il componimento (a partire dall’«urna» e dalla «reliquia» della strofe seguente), e sappiamo quanto la tentazione del suicidio faccia da sfondo alla vitalità dell’Allegria. Non senza un motivo, la sezione che introduce il tema della guerra («Il porto sepolto») è inaugurata da In memoria, ove solo l’arma del «canto» e la funzione memoriale garantiscono il poeta, foscolianamente, dal destino suicida del suo doppio, Moammed Sceab. Tuttavia, la ragione di questa suggestione dantesca pare più profonda e inquietante, suscitatrice di ambivalenze e contraddizioni culturali in cui si agita il dramma stesso di questo grande testo. […]

            La tentazione del suicidio è, al tempo stesso, minaccia di estinzione e speranza di dissolvimento panico; il nulla che tenta il soggetto non sa decidersi a essere solo perdita o solo promozione unanimistica. E per questo il poeta stesso è incerto sul senso da attribuire all’esperienza regressiva vissuta. Non sarà d’altra parte difficile raccogliere dal componimento i segni della più intensa vitalità e, anche, quelli della morte. Forse, anzi, la più autentica ragione d’interesse consiste nella difficoltà di distinguere, nei casi più significativi, gli uni dagli altri. E se schiettamente vitali saranno la venerazione del sole (vv. 24-25), la trasformazione in una «docile fibra/ dell’universo» (vv. 30-31), la «rara/ felicità» (vv. 40-41); intimamente ambivalenti e misteriosi risulteranno altri segni, pure non meno decisivi.

            Nella seconda strofe, inaugurale del resoconto regressivo del bagno fluviale, l’«urna d’acqua», giustificata anche metaforicamente come rimando alla limpidezza del mezzo equoreo, indicherà valorizzazione e innalzamento, perfino sacrale, dell’esperienza vissuta, così come la successiva «reliquia»; e tuttavia come non raccogliere anche la valenza funebre che ne ricade sul soggetto? E come non ammettere la luttuosa polisemicità del conclusivo «ho riposato»? L’esperienza vitale dell’immersione è anche un’esperienza di morte. Il teschio trapela ancora, nella quarta strofe, dietro il modo idiomatico «le mie quattr’ossa», dove fra l’altro il termine-chiave «ossa» legittima anagrammaticamente il precedente «sasso»: è grazie allo sprofondamento mortuario dell’io che diviene dunque possibile l’azione levigatrice, cioè felicemente omologante, del fiume: «L’Isonzo scorrendo/ mi levigava/ come un suo sasso». Inabissato nella condizione mineralizzata e ctonia, il soggetto può esperire con felicità anziché con angoscia il moto di scorrimento fluviale, altrimenti, nella vita non smaterializzata e corporea, perturbante espressione dello scorrere temporale. L’«acrobata» (v. 19) è un soggetto che sa rinascere, appunto funambolicamente, privo dei gravami della concretezza individualizzante; è un io capace di non essere più chiuso nel limite spazio-temporale dell’identità soggettiva: capace perciò di andarsene «sull’acqua» (v. 20), di congiungere vita e morte in un equilibrio solitamente impossibile.

Perché l’esperienza limite dell’annullamento non patisca solo la perdita, ma sia immediatamente riscattabile in presenza viva, perché insomma l’acrobata possa librarsi magicamente sull’acqua, è necessario che il soggetto sappia rinunciare alla propria identità individuale, raggiungendo profondità segrete dell’io in cui il confine tra io e non-io non abbia più efficacia. È un tragitto, o piuttosto un salto, ben rappresentato nel contrasto tra l’attacco della prima e quello della seconda strofe: «Mi tengo…» vs «Stamani mi sono disteso…». La coscienza, che nella prima strofe tenta di rimettere ordine nell’esperienza vissuta e, come vedremo, si sforza di cogliervi un senso, proprio la coscienza è l’ostacolo, lì e nella solidale strofe conclusiva, alla durata e alla decifrazione della positiva scoperta centrale. Ai protagonistici «Mi tengo» e «guardo» della prima strofe, le successive oppongono l’abbandono del distendersi, del riposare, del lasciarsi levigare dal fiume.

            La tragedia di questo testo, denunciata con chiarezza dalla conclusione, sta anche nell’impossibilità di afferrare e possedere nell’orizzonte della coscienza (prima e ultima strofe) il valore sperimentato per mezzo dell’abbandono e dello smemoramento. Il poeta moderno sa bene, e qui lo scopre Ungaretti, che la strada del senso e della rivelazione risulta ormai impedita, e che il regno della pienezza esistenziale sta su un piano non più comunicante con quello della storia individuale: la verità si è ritratta nella discontinuità, da dove può ancora offrirsi epifanicamente ma non può tuttavia dare durevoli indicazioni di senso.

            A favorire l’abbandono e lo smemoramento stanno più ragioni. Sul piano psicologico, l’immagine della reliquia galleggiante in un’urna piena di liquido sembra suggerire una regressione all’innanzi nascita, nel sacco amniotico. In questo senso, la componente mortuaria della seconda strofe è, al tempo stesso, contraddetta dal richiamo vitalizzante e d’altra parte doppiata da una negazione della vita singola dell’io in direzione del passato (l’innanzi nascita) oltre che del futuro (la morte): il segmento che forma la vita dell’individuo è percorso oltre la sua fine e prima del suo inizio. La disponibilità alla retrocessione temporale è confermata, nella undicesima strofe, dal riconoscimento della propria presenza nel «padre» e nella «madre» e, addirittura, in «duemil’anni forse/ di gente mia campagnola». Anche un’estensione temporale così vasta appartiene qui alle «epoche/ della mia vita» (vv. 43-44); in quella parte del componimento, infatti, dissoluzione dell’io e suo rafforzamento sono inseparabili, e l’espansione temporale è parametro decisivo di un simile miracolo. Il motivo del contenimento e dell’abbraccio che apre alla regressione verrà poi ribadito nel rimando metaforico alle «mani» (v. 37) della corrente fluviale, che penetrando nell’io gli regalano la rara felicità. Ed è un motivo, si direbbe, non altrettanto proficuamente tentato nella strofe introduttiva, dove scorgiamo il soggetto raccolto in una «dolina» simile a un «circo» e «abbandonato» (che potrà valere, anche, ‘disteso, rilassato’) quasi come durante il bagno nel fiume: ma è come se questa volta la vigilanza critica negasse l’efficacia altrove provata di questi catalizzatori. Una medesima immagine circolare e protetta chiude il testo, dove la «corolla/ di tenebre» pare fondere, come vedremo, la fertile promessa di ciò che sta all’interno di una protezione e la scoperta della perdita e dell’incertezza. In ogni caso il cerchio (con le replicazioni in immagini parallele di contenimento e chiusura come quella dell’urna) è in questo componimento tanto il fine da raggiungere, quale stabilità e presentificazione illimitata del lontano nel tempo e nello spazio, quanto il mezzo saggiato per raggiungerlo, quale abbraccio dentro cui l’io tenta di dare un senso stabile alla propria vicenda o trova, con la regressione, un momentaneo equilibrio di pienezza.

            Accanto alla pista psichica, la narrazione del bagno ne suggerisce anche una culturale. Netta è la connotazione sacrale di termini come «urna» e «reliquia» (vv. 10-11); cui si aggiunge il gesto latamente religioso, di una religiosità originaria e primitiva, dell’adorazione del sole ai vv. 24-26. La stessa aspirazione a essere «una docile fibra/ dell’universo» (vv. 30-31) e a sentirsi «in armonia» (v. 35) rispondono in modo trasparente a un bisogno di appartenenza al tutto che non si può definire altro che religioso. In particolare, sembra agire sull’episodio l’energia del sacramento battesimale; senza che paia necessario ricordare l’abitudine, protrattasi fino al XIV secolo, del battesimo per immersione, anziché per aspersione. Ebbene, l’immersione nell’acqua del fiume restituisce al poeta purezza e sacralità («urna d’acqua», «reliquia»), aprendolo a una nuova vita che implica la morte dell’uomo vecchio, segnato dal peccato e dal male, e la nascita di un uomo nuovo: ecco allora la spoliazione degli abiti militari («sudici di guerra», v. 23), vicino ai quali il poeta si “accoccola”, ecco, più profondamente, l’ambivalenza morte/vita di cui si è detto. Come in certi testi di Iacopone, l’uomo nuovo rinasce dal vecchio, ovvero dalla conversione insita nel sacramento battesimale, così come qui il poeta solleva le sue «quattr’ossa» (vv. 16-17) per procedere «sull’acqua». Sul piano della referenzialità, diremo che il soggetto avanza dove l’acqua è bassa, al punto da parere che vi cammini sopra; o, meglio, salta da un sasso affiorante all’altro, con gesti da «acrobata». Ma sul piano della simbologia religiosa non potremo fare a meno di registrare la suggestione cristologica del miracoloso andare al di sopra delle acque (cfr. Mt 14). E d’altra parte la forza di questa porzione di testo sta anche, come si è visto, nella ambivalenza delle immagini, e, per meglio dire, nella loro tendenza a disporsi in contrapposizione polare nel momento stesso in cui si propongono quale accesso a una forma unitaria: «mi sono disteso» (v. 9) vs «Ho tirato su» (v. 16), «sasso» (cioè pesantezza; v. 15) vs «acrobata/ sull’acqua» (cioè leggerezza; vv. 19-20).

            L’accesso alla rinascita battesimale ridefinisce i gesti del soggetto. All’abbandono della seconda strofe e alla passività mineralizzata della terza, dalla quarta in poi si sostituisce un recupero di mobilità attiva: «Ho tirato su… me ne sono andato… Mi sono accoccolato… mi sono chinato…» (vv. 16, 18, 21, 25). E la sequenza di gesti sancisce una sorta di genericità antropologica volta a radicare la specifica esperienza dell’io in una matrice universalizzante, o in una disponibilità metamorfica, fino al riconoscimento di sé quale «docile fibra/ dell’universo» (vv. 30-31). È un riconoscimento che può avvenire solo a patto di accogliere su di sé il non-io, slittando per mezzo delle replicate similitudini dalla reliquia, al sasso, all’acrobata, al beduino; e a patto di vivere radicalmente l’esperienza dell’alterità, riposando come una reliquia, lasciandosi levigare come un sasso, procedendo sull’acqua come un acrobata, chinandosi a ricevere il sole come un beduino. A ogni fase di questa progressione deve accompagnarsi il dovuto mimetismo, perché solo così il soggetto può davvero riconoscersi «una docile fibra/ dell’universo» e credersi «in armonia», toccare, eccezionalmente, «la rara/ felicità» (vv. 40-41). Anche sotto questo punto di vista, tuttavia, per rinascere nell’alterità il soggetto deve scartare da sé l’identità propria puntuale, dismettendo i «panni/ sudici di guerra» (vv. 22-23) del soldato: accoccolato accanto alla divisa del fante, l’agens esibisce in un’immagine sintetica la duplicità sulla quale si regge questa avventura esistenziale, lasciando che per un attimo stazionino accostati il fantoccio cadaverico dell’io chiuso nella propria identità (il soldato) e l’acrobata agile dell’io rinato e trasfigurante all’incrocio delle identità universali. […]

Perdendosi nel trascolorare metamorfico segnalato dalle replicate similitudini il soggetto già trova se stesso; e quanto più crede allontanarsi dal confine della propria identità, tanto più lo ridisegna in una sottile trama di allusioni e anticipazioni: basterà riconoscerle per scoprire, nell’universo, se stesso.

            Tale disvelamento si svolge qui in due fasi, connotate da un diverso atteggiarsi dell’io: nella prima, corrispondente ai vv. 9-26, il soggetto ci si presenta impegnato in una ricerca segnata dal movimento e dall’azione; nella seconda, corrispondente ai vv. 42-62, l’ego agens si trasforma in ego cogitans, e lo vediamo concentrato sulla rievocazione del proprio passato. Dalla bipartizione sono escluse, come si vede, le strofe liminari del componimento, a causa del dislocamento eccezionale; mentre una funzione di cerniera va riconosciuta alle tre strofe centrali che occupano i vv. 27-41. È in esse teorizzata la necessità per l’io di sentirsi «docile fibra/ dell’universo» (vv. 30-31) per essere «in armonia» (v. 35), cioè eccezionalmente “felice” (cfr. v. 41): il che implica la necessità di smarcarsi dalla identità propria parziale per riconoscersi nel tutto, per essere intriso dalle «occulte/ mani» (vv. 36-37) della natura; processo realizzabile solamente a patto di sospendere le leggi della coscienza (e la logica razionale) e di abbandonarsi ai meccanismi profondi dell’inconscio (e alla sua logica).

            Si è già visto che l’azione della prima parte si configura quale catabasi («mi sono disteso», «ho riposato»: strofe seconda) e successiva anabasi («ho tirato su […] e me ne sono andato»: strofe quarta), come a indicare un viaggio in profondità solitamente inaccesse e a propiziare la possibilità del ritorno. Le profondità esplorate sono anche quelle della psiche, saggiata nei suoi meccanismi più intimi e intentati. La rievocazione della seconda parte ha piuttosto i segni della libera associazione, o della memoria involontaria, che non quelli della ricerca consapevole: l’io vi appare posseduto dai meccanismi incosci della condensazione e dello spostamento (“questa cosa è un’altra cosa”); e come la prima parte è gestita dall’io nel tentativo di entrare in armonia con la realtà universale, così la seconda parte è in qualche modo subita, o raggiunta, dall’io, e proprio nella sua particolare passività nei confronti del reale stanno l’effetto di soddisfacimento psichico e il successo esistenziale. Da questo punto di vista, la strofe nona («Ho ripassato/ le epoche/ della mia vita») non significherà ‘mi sono messo a pensare al mio passato’, ma piuttosto ‘si è messa in moto in me una rievocazione, o anche una presentificazione, del mio passato, nelle sue varie fasi’, e anche, perfino, ‘ho riattraversato’, quasi ‘ho rivissuto’. La prima parte, gestita dal soggetto, propizia e rende possibile il successo della seconda, l’espandersi dell’inconscio e delle sue leggi.

Nella strofe decima leggiamo «Questi sono/ i miei fiumi»; ed ecco una giurisdizione nuova nel rapporto con la realtà. Non abbiamo forse registrato meno di venti versi più su la dichiarazione «Questo è l’Isonzo»? Da dove scaturisce, ora, il plurale? Che cosa ha fatto sì che dove c’era un fiume ve ne fossero a un certo punto molti? È qui necessario evitare le semplificazioni che questa durezza logico-rappresentativa suggerisce; come sarebbe spiegare la strofe decima, anche alla luce delle successive, ‘questo fiume, l’Isonzo, mi ricorda altri fiumi legati a diversi momenti della mia vita, ed è dunque come se li ritrovassi tutti in esso’. Una simile spiegazione, riportando nei ranghi della logica “aristotelica” il dettato ungarettiano, vanifica il successo faticosamente conseguito nella poesia e ne falsifica radicalmente il contenuto di verità. Il punto è che qui le forme dell’espressione pretendono maggior rispetto che non le forme del contenuto: nel modo dell’enunciazione sta quella verità che comunque non può darsi nell’enunciato.

            Credersi in armonia, riconoscersi quale docile fibra dell’universo e avere in dono la rara felicità, per adoperare le espressioni di Ungaretti, non è possibile senza che il soggetto assuma, nel rapporto con la realtà e nella sua elaborazione, una forma di logica diversa ed estranea rispetto a quella della razionalità e ruotante attorno alle leggi della cosiddetta logica aristotelica (principio di identità, di non contraddizione e del terzo escluso). È un tipo di logica intuito da Freud e definito da Matte Blanco come logica «simmetrica» contrapposta a quella «asimmetrica» (o «bivalente») della razionalità[1]. Riferendoci liberamente a questa prospettiva, e applicandola al nostro oggetto testuale, diremo che mentre per il principio aristotelico di identità (A = A) ogni singolo fiume è se stesso (e basta), e dunque l’Isonzo è l’Isonzo («Questo è l’Isonzo», al v. 27), al contrario nel dominio della logica profonda inconscia ogni singolo fiume è anche, o può essere anche, un altro singolo fiume e, al limite, tutti i fiumi esistenti (A = B = C, ecc.), dato che è possibile stabilire l’esistenza di determinate qualità costanti in tutti i singoli fiumi (per esempio l’essere, appunto, fiumi) che rendono secondarie le differenze specifiche (l’avere questo o quel nome, l’essere piccoli o grandi, lunghi o corti): i meccanismi di condensazione e di spostamento concentrano l’attenzione sulle somiglianze e ignorano le differenze, così che l’identità prevale sulla disidentità e la simmetria sulla asimmetria, ovvero, in altre parole, l’esistenza di determinate qualità costanti (quelle ricorrenti, poniamo, in tutti i fiumi) consente di formare un insieme omogeneo, i cui requisiti coincidono appunto con quelle qualità; e mentre la coscienza e la razionalità si sforzano di ridurre il più possibile il margine di approssimazione insito in questo meccanismo, aumentando il numero di costanti necessarie per assegnare oggetti e fenomeni a un dato insieme e dunque rendendo il più possibile differenziati, specifici e ristretti gli insiemi, fino a immaginare, nell’attuazione del principio d’identità, un insieme a tal punto selettivo e ristretto da non consentire l’accesso altro che uno e a uno solo degli aspiranti, a mano a mano che si scende nelle zone più profonde della psiche, ecco che invece gli insiemi divengono via via più vasti, tendendo ad accontentarsi di sempre meno qualità costanti per concedere il lasciapassare. Nell’adulto ogni giudizio e ogni pensiero sono comunque il frutto di un equilibrio faticosamente raggiunto tra logica razionale asimmetrica e logica simmetrica insonscia (o antilogica); mentre questa seconda prevale nei sogni, è forte nei bambini e lampeggia nei lapsus e nei sintomi nevrotici. Avviene dunque in questo componimento quel che potrebbe avvenire in un sogno: l’immersione nell’Isonzo diventa a un certo punto l’immersione in un altro fiume, e poi in un altro. E avviene quel che può accadere a un bambino piccolo, incapace di contrassegnare un episodio come quello qui descritto con il nome specifico di un luogo, e portato piuttosto a identificarlo con altri analoghi già sperimentati, sovrapponendovelo. Oppure, anche, accade come in un lapsus, qualora si chiami inavvertitamente «Serchio», o «Nilo», o «Senna» un fiume che invece si chiama (come chi parla sa bene) «Isonzo». Nella regressione propiziata qui dall’immersione e dall’abbandono del soggetto, nella scelta di non puntare sulla logica della consapevolezza e del ragionamento ma sulla facoltà, simile a quella onirica, di associare liberamente e senza mediazione i materiali del proprio vissuto, e nella adozione di una libertà di espressione affrancata dalle leggi della logica razionale Ungaretti ha costruito la possibilità di rendere operative e funzionali le leggi simmetriche dell’antilogica.

            A stabilire un collegamento profondo tra il presente concreto e reale dell’Isonzo e il passato fantasmatico e memoriale degli altri tre fiumi non sta tuttavia solamente una ragione generica, l’appartenenza alla categoria di fiume. È questo un dato in ogni caso rilevante, e profondamente attinente al nucleo di significato del componimento, se si considera, come faremo in seguito, la disponibilità dell’immagine fluviale a costituirsi quale figura dello scorrere temporale. E tuttavia esistono tra questo momento specifico dell’Isonzo e gli altri evocati legami anche specifici che il testo addita per mezzo di indizi vari. Abbiamo già ipotizzato un nesso tra le forme assunte, nelle similitudini, dal soggetto (reliquia, sasso, acrobata, beduino) e le stazioni, qui concentrate in figura fluviale, della sua vita passata. Questo nesso risulta ora rafforzato dal riconoscimento, nell’Isonzo e nell’esperienza di immersione in esso, di segni riepilogativi della vicenda individuale dell’io: l’insieme “Isonzo” (per riprendere la prospettiva della logica simmetrica) si può sovrapporre agli insiemi Serchio, Nilo e Senna, ovvero nello stesso insieme dove sta l’Isonzo è dato scoprire la presenza degli altri tre fiumi, oltre che per la pura appartenenza al genere “fiume” (legge che avrebbe, da sola, reso illimitate e non personalizzate le agnizioni), anche per il lampeggiare di segni misteriosi capaci di ristabilire i nessi di corrispondenza e far scoccare la sovrapponibilità dei dati in questione.

            La più semplice di tali spie è immediatamente verbale: come nella Senna il poeta si è «rimescolato» e «conosciuto» (vv. 59-60), così nell’Isonzo si è «riconosciuto» (v. 29). Al legame garantito dal ritorno dell’identico verbo “conoscere” si somma quello aggiunto dal recupero, nel passaggio, del suffisso “ri-“, che pare quasi pretendere una flessione iterativa dell’affermazione relativa all’Isonzo, mettendola anticipatamente in successione rispetto al precedente della formazione parigina: ‘l’esperienza della guerra (che l’Isonzo rappresenta) mi ha nuovamente fatto conoscere me stesso, come già era accaduto, in modi specifici, durante il formativo soggiorno parigino (raffigurato dalla Senna)’; e il “riconoscersi” è dunque esperienza, al tempo stesso, di novità e di ripetizione, che dice la rottura del tempo e ne dice, anche, la continuità. Il presente, per inciso, sembra d’altra parte pretendere una qualche maturazione, se al «torbido» (v. 58) della Senna è ora subentrata la limpidezza dell’«urna d’acqua» (v. 10); e tuttavia non andrà tralasciato che il «torbido» ritorna nei vestiti «sudici» di guerra (v. 23). La progressione, se c’è, sta nella accresciuta coscienza della continuità; non certo nella pretesa di evolversene: sta nel riconoscersi «meglio» quale «docile fibra/ dell’universo» (vv. 28-31), cioè nel sentire con più chiarezza («meglio», appunto) ciò che in ogni altra tappa, purché significativa, il soggetto aveva già sentito.

            Una seconda spia riguarderà proprio il tratto più schiettamente “ideologico” attribuito all’esperienza del bagno nell’Isonzo, il riconoscersi docile fibra dell’universo. E questo era appunto il modo di sentire all’epoca dell’infanzia egiziana, nella sua appassionata «inconsapevolezza» (v. 55): cioè nella non ancora nata necessità di distinguere e di distinguersi, tanto efficacemente collocata nella generica spazialità delle «estese pianure» (v. 56).

            L’esperienza presente dell’Isonzo è dunque esperienza di inconsapevolezza, come l’infanzia lungo il Nilo, e di conoscenza, come la giovinezza francese; è un attimo che riepiloga e organizza, dando unità: l’inconsapevolezza non è scalzata dalla conoscenza, come già non lo era nel torbido di Parigi, e la conoscenza non è negata dall’identificazione panica. Quella di oggi è l’occasione rara (e felice) in cui si esprimono insieme sentimento di identità individuale e sentimento di identità cosmica, in cui l’io diviene tutti senza per questo perdere se stesso.

            La terza spia, infine, è l’«urna» (v. 10) in cui l’io galleggia come una «reliquia», e che accoglie e blocca il ritorno del passato lontano e perduto del Serchio degli avi, il cui tempo incerto si spalanca come distanza nei «duemil’anni» e sfuma nel «forse» dello stesso v. 49.

Essere una docile fibra dell’universo, credersi in armonia vuol dire predisporsi dunque, nell’assunzione metamorfica su di sé del molteplice delle correspondances, al recupero nel presente del passato, personale e universale, vuol dire predisporsi all’attraversamento delle epoche, allo scavalcamento dei margini della temporalità: così come l’acrobata procede sull’acqua vincendo le leggi fisiche e negandosi all’affondamento; come il beduino onora, inchinandosi al sole, il ciclo diurno dei ritorni; come la reliquia vince la logica del trapasso, attualizzando al di là di essa la durata di un valore e la sua conservazione oggettuale; e come infine il sasso perdura nel trascorrere del tempo e consegna a ogni nuovo giungere dell’attimo presente l’eredità della sua persistente memoria geologica. Per conoscersi, l’io deve affidarsi al magma dell’indistinto, seguendo all’interno di esso una pista di senso che strutturi un’identità entro il mutevole (un durare dell’identico). È quanto il componimento ripete ossessivamente, nella sua esplosione di luoghi, tempi e situazioni cangianti, replicando a ogni strofe, senza eccezione, il pronome io. Non si tratta solo di un sottinteso grammaticale: l’io non è solo la maîtrise del discorso. È piuttosto un io che entra comunque, in ogni strofe, anche le minime di due versi, quale attore e quale oggetto (cfr. i vv. 1, 9, 14, 17, 18, 21, 22, 25, 29, 32, 34, 38, 39, 44, 50, 51 – due volte -, 53, 59, 60, 61, 63, 65, 67 -due volte): le venticinque occorrenze, in sessantanove versi, della forma mio/mia/mie/miei/mi/me rappresentano una media di una ogni 2,76 versi, ovvero una ogni undici parole (che sono in totale 228, compresi i 25 articoli); il che vuol dire che circa il dieci per cento del lessico è investito direttamente dalla prima persona, mentre un’altra porzione significativa lo è indirettamente, rappresentando l’io del locutore, d’altra parte dichiarato identico al soggetto dell’esperienza riferita. Un paradosso vuole dunque che alla forza centrifuga dello scioglimento unanimistico quale docile fibra dell’universo contrasti una non meno energica forza centripeta ruotante attorno all’io. La scommessa dei Fiumi, si è detto, sta d’altra parte proprio nel paradosso di voler salvare l’identità dell’io affidandola all’indistinto naturale.

            È solamente grazie a tale esorcismo che risulta possibile contenere e dominare le due ragioni di insensatezza che assediano il soggetto minandone l’identità individuale: la collocazione nello spazio e quella nel tempo. L’appartenenza del soggetto a un qui e ora riguarda la sua finitudine e insidia la tensione verso il significato, che stenta a trovare soddisfazione al di fuori della processualità temporale e del tracciato nello spazio.

            È una condizione di impasse dichiarata dalle strofi liminari del testo. Nella prima vari elementi cooperano a definire la puntualità della collocazione spaziale del poeta, dai deittici «quest’albero» e «questa dolina» alla diagnosi di finitezza non riscattata dal senso del participio «abbandonato»: essere abbandonati in un luogo vuol dire accogliere il sentimento della casualità e l’angoscia che gli è compagna, vuol dire riconoscere la propria esperienza a tal punto circoscritta da non comprendere relazioni in grado di riscattarla dall’insensatezza. Accanto alla percezione della finitudine spaziale si annuncia poi lo smarrimento nel tempo, cioè la perdita del senso dello svolgimento temporale: «prima o dopo», leggiamo al v. 5. La reazione del soggetto all’avanzare del perturbante consiste, in questa sezione del testo, in un gesto di presa fisica nei confronti delle cose («Mi tengo», ad apertura) e nell’atteggiamento di investigazione («guardo»). Ma non è questa la strada per ricacciare l’insinuazione della finitezza individuale, se radicandosi alle cose il soggetto può al massimo sprofondarsi più ancora nella loro mancanza di redenzione (e «mutilato» è l’albero cui va a tenersi), e se stendendo lo sguardo dell’investigazione al di là dell’orizzonte può accadere di scorgervi una possibilità di pace («il passaggio quieto/ delle nuvole sulla luna») priva tuttavia di contatto con la condizione puntualmente diversa, di angoscia e di turbamento, in cui si agita l’io. Vedremo anzi come sia proprio a causa di questa ricerca di un pertugio che unisca contingenza spazio-temporale e dimensione dei valori che la scommessa di questo componimento ricada leopardianamente sul proprio enigma anziché aprirsi, come tenta di fare, all’epifania simbolistica del significato pieno.

            Se già la strofe d’apertura contiene e annuncia le ragioni della finitudine, è tuttavia soprattutto nella conclusiva che la maestà del tempo rivendica la propria sovranità sulla vita individuale e sulle sue pretese di significato. Nella strofe ultima ci si mostra appunto sia la tensione verso il passato, esperito come perdita e mancanza («la mia nostalgia»), sia l’incertezza del futuro («la mia vita mi pare/ una corolla/ di tenebre»). Anche nella conclusione, d’altra parte, incontriamo il deittico «questa» (v. 63), a stringere lo spazio dell’esperienza alla sua sola località, e l’avverbio «ora» (v. 66), definita restrizione della sfida temporale al presente: di nuovo, come all’inizio, qui e ora. […]

L’identica dominante stilistica, il basso continuo dei deittici spaziali (se ne contano ben undici), assume dunque ben diversa connotazione a seconda che corrisponda al momento della riflessione e dell’interrogazione oppure a quello della fusione unanimistica: il rintocco della contingenza che i deittici portano con sé esprime la condanna della limitatezza, nel primo caso, oppure schiude la reversibilità di limitato e illimitato, di presente e di lontano, nel secondo. Il successo provvisorio dell’immersione nell’Isonzo consiste proprio nel riscatto dalla contingenza e dal limitato (il “qui”, il “questo”), che non vengono negati ma trascesi, non quindi elusi o dialettizzati ma redenti, con moto magico.

            La particolare strategia nell’impiego dei tempi verbali conferma la necessità di basare il successo, sia pure temporaneo, sulla dichiarazione di presenza circa ciò che è passato e perduto. Nella prima strofe incontriamo, accanto a un altro meno significativo, due forti presenti («Mi tengo» e «guardo»), cui, dalla seconda alla quinta strofe, tengono dietro i tempi canonici del passato narrativo favoloso, il passato prossimo («mi sono disteso», «ho riposato», ecc.) e l’imperfetto («mi levigava»[2]). Il rapporto fra il presente della prima strofe (notte) e il passato delle seguenti (mattina precedente) configura dunque un ritorno indietro della memoria razionalmente gestito. Lo stacco della sesta strofe, con il brusco passaggio dal passato al presente, può sul momento non provocare sorpresa, qualora si attribuisca al suo presente («Questo è l’Isonzo») la funzione di un presente storico; tanto più che segue, nella stessa strofe, un nuovo passato prossimo («mi sono riconosciuto»). Anche il presente della settima strofe, venendo a enunciare una regola generale, non suscita sorpresa («Il mio supplizio/ è…»). La prima strofe relativa al bagno in cui il presente campeggi da solo, come nella strofe d’attacco ma in diversa collocazione temporale, è l’ottava («Ma quelle occulte/ mani/ che m’intridono/ mi regalano/ la rara/ felicità»); e da qui, ben segnalata dal «Ma», si apre infatti una nuova dimensione. La nona strofe espone per l’ultima volta un tempo passato in posizione reggente («Ho ripassato»), ponendo fine alla condizione sospesa e oscillante che caratterizza le quattro strofi tra la sesta e la nona, dopo le quattro coerentemente al passato, segnando l’abbandono della zona di passaggio dal ricordo razionalmente gestito al possesso pieno e presente del passato. La decima strofe apre una serie di cinque (fino alla quattordicesima inclusa) in cui il presente domina in tutte le proposizioni principali, riservandosi alle secondarie la funzione di comunicare, con il loro solido passato prossimo («hanno attinto», «mi ha visto nascere…», «mi sono rimescolato/ e mi sono conosciuto»), la felice resurrezione del passato nel presente e, meglio, la fusione, nel nome del presente, dei due momenti: esattamente come anticipato dalla strofe sesta, parlando del vicino (ma già perduto a sua volta) Isonzo. Anche in questo caso, la brevissima strofe decima («Questi sono/ i miei fiumi»), la meno estesa del componimento, è quella che esibisce con più vigore il miracolo di questa sfida: come il singolare dell’esperienza tangibile assume su di sé e restituisce il plurale delle esperienze trascorse e sfuggite, e come il deittico rivendica la resurrezione davanti agli occhi della lontananza anche più remota, così il presente egualmente disceso su tempi tanto lontani e diversi tutti li redime e valorizza.

            Ben diverso, dopo la ripresa già analitica della quattrodicesima strofe («Questi sono i miei fiumi/ contati nell’Isonzo»), il presente che dilania la quindicesima e ultima strofe: «è», «mi traspare», «è», «mi pare». Anche il presente dice qui, come l’anafora del deittico «Questa» e la specificazione dell’avverbio temporale «ora», la condanna della finitudine, la prigionia dell’attimo. L’unità magica fusionale esperita nelle strofi precedenti lascia di nuovo il campo all’analisi delle specificità («in ognuno», cioè in ogni singolo fiume per sé preso). È sospesa l’esperienza eccezionale di parlare il passato al presente, ovvero il passato e il presente, il singolare e il plurale, il vicino e il lontano, il puntuale e l’illimitato con le stesse parole, nella stessa lingua.

            Davanti ai passi del soggetto sembra spalancarsi la dimensione nuova e inquietante del futuro: «la mia vita mi pare/ una corolla/ di tenebre». In questa conclusione così polisemicamente densa e suggestiva non potremo fare a meno di registrare infatti un rimando alla condizione sospesa e incerta dell’io, che attende di svolgersi e trovare compimento, uscendo dall’ambivalenza e dalla contraddittorietà che l’espressione «corolla/ di tenebre» evoca. Se nel decisivo «tenebre», cui è affidata la clausola, dilaga il perturbante notturno (ora senza luna) già intravisto nell’attacco, e che a questo punto significa costrizione e condanna nel qui e ora e nella sua incertezza, spazzando via e rovesciando la luminosità del bagno mattutino, tuttavia la voce «corolla» non è riducibile alla subalternità metaforica nei confronti del seguente «tenebre»: quanto il ‘cerchio di buio’ soffoca le aspettative del soggetto, negandogli ora il possesso autentico del passato e dunque dell’identità e dunque le speranze future, tanto la positività vitale della ‘corona di petali per ora misteriosa’ reclama uno spazio, ancora, per la fiducia nel compimento possibile, a maggior ragione se, analizzando il rimando botanico della «corolla», ne sottolineamo la funzione di contenitore dell’apparato riproduttore del fiore, germe impregiudicato del futuro. E non sarà d’altra parte arbitrario leggere il legame tra l’«albero mutilato» dell’incipit e la «corolla» dell’explicit in chiave di risarcimento potenziale dentro un medesimo asse semantico-metaforico. Dietro il negativo esplicitato dalla sospensione conclusiva si agita dunque un non meno autentico positivo alluso. E d’altra parte, l’immagine della corolla non riprende anche, e nel modo più gentile e vivace, la figura-chiave del cerchio? Quella che già si è registrata nella strofe iniziale: sfumata nella «dolina», netta nel «circo». È anche nella ripresa di questa immagine di perfezione che la conclusione del componimento sancisce la peculiarità della propria scommessa di senso e il suo limite effettuale. L’immagine del cerchio che s’incide sui limiti del testo è una myse en abîme di questa scommessa, ne è la posta in gioco e ne è lo scongiuro apotropaico: ci dice l’ambizione di controllare lo sviluppo lineare e dispersivo del tempo costringendolo dentro il ruotare della reversibilità, di fare del fiume un lago, e ci dice l’ansia che spira sui confini della voce, sul suo apparire e risprofondare, sull’inizio e sulla fine del bagno nell’Isonzo, di questa poesia e di ogni cosa. Al soggetto restano, insieme, il triste sigillo del dilungarsi dispersivo del fiume e il lascito promettente della sua eccezionale dilatabilità, la verticalità senza ritorno della struttura testuale e il suo intimo tendere al cerchio.

[1] Cfr. I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bilogica, Einaudi, Torino 1981.

[2] L’imperfetto «levigava», unico nella poesia, indica, tra tante azioni puntuali, la continuità dell’azione del fiume-tempo e congiunge nel moto di un certo fiume (l’Isonzo) quello di ogni altro fiume, unificando l’esperienza nel segno della ripetizione (e della circolarità).

 

[Immagine: Giuseppe Ungaretti (dbr)]

2 thoughts on “I fiumi

  1. Capisco che il centenario de “I fiumi” capiti proprio il 16 agosto, ma pubblicare nel bel mezzo del periodo estivo di “distrazione di massa” la lettura davvero magistrale di Pietro Cataldi, così profonda e ricca di implicazioni e suggestioni soprattutto psicanalitiche tutte da discutere e approfondire, mi pare un (piccolo) errore. Ma tant’è. Anche avvenimenti importanti e tragici (Aleppo, Yemen) accadono mentre si è in vacanza. Spero che questo post venga ripubblicato in un periodo più propizio. (E che anche su Aleppo e Yemen qualcuno scriva cose serie e approfondite…).

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