cropped-burkini.jpgdi Mauro Piras

Sono già una dozzina le municipalità della Costa Azzurra che hanno vietato l’uso del cosiddetto “burkini”, il costume da bagno che copre integralmente il corpo, usato di solito da donne di fede islamica. A queste si aggiunge la dichiarazione pubblica del primo ministro francese Manuel Valls, che ha appoggiato tali divieti, sostenendo che l’uso del burkini va contro i valori della Repubblica francese.

La discussione che ne è nata è stata etichettata da qualcuno come il tipico dibattito estivo su argomenti più o meno irrilevanti. In realtà, la forza delle contrapposizioni mostra che si tratta di un problema sostanziale, nevralgico per gestire in modo equilibrato i rapporti con le minoranze islamiche in Europa. Le democrazie non hanno trovato ancora un modo univoco per trattare questi problemi. A partire dalla discussione sul velo degli anni novanta e primi anni duemila, il ricorrere di queste tensioni mostra che il percorso da fare è ancora lungo. Tuttavia, il divieto di portare il burkini al mare sembra davvero poco difendibile, e motivato principalmente da reazioni emotive e identitarie contro le aggressioni terroriste subite dalla Francia. Vediamo perché.

Non è possibile giustificare questo divieto per ragioni igieniche, perché si tratta di un costume da bagno vero e proprio, in tessuto tecnico, adeguato alla sua funzione. Né è possibile giustificarlo per ragioni di sicurezza. Non si vede come questo capo di abbigliamento possa rendere più insicuro lo stato di una spiaggia. Né pone problemi di identificazione delle persone, dal momento che il volto è scoperto.

Non si possono addurre neanche giustificazioni di ordine pubblico. Il comune corso di Sisco, in Corsica, ha vietato il burkini dopo la vicenda di una vera e propria rissa tra marocchini e residenti locali. Si è capito poi che questa rissa è stata generata da un comportamento illegale dei marocchini (che hanno chiuso l’accesso a una spiaggia pubblica) e da una reazione eccessiva dei valorosi corsi. Di burkini nessuna traccia. In generale, non si vede perché il fatto che alcune donne lo indossino dovrebbe provocare problemi di ordine pubblico: la situazione non sembra ancora così esasperata da rischiare una rissa ogni volta che una maggioranza di “occidentali” incontra degli islamici in spiaggia.

Non è possibile giustificare il divieto neanche facendo riferimento alla legislazione sul velo in vigore in Francia, né ai suoi principi. Va ricordato infatti che la legge del 2004, che vieta alle ragazze di portare “simboli religiosi vistosi” a scuola, si applica solo alla scuola, appunto. Inoltre, quella legge si fonda sul principio che lo “spazio pubblico” deve essere neutrale dal punto di vista religioso: in esso cioè non deve essere mai esposto nessun simbolo di natura religiosa, neanche da parte di singoli cittadini. Questa idea di laicità è molto contestabile, ma anche se la si accetta non si applica assolutamente al caso del burkini: in questo ambito per “spazio pubblico” si intende qualsiasi istituzione pubblica o sfera di discussione pubblica in cui i cittadini si confrontano in quanto cittadini, non in quanto semplici privati. Un luogo pubblico invece, come la spiaggia, non è uno spazio pubblico, perché lì i cittadini si incontrano casualmente come privati. Un divieto imposto in questo ambito è un divieto che concerne la vita privata, non la vita pubblica.

Un discorso a parte merita la legge del 2010 che proibisce di nascondere il volto negli “spazi pubblici”, vietando così di fatto l’uso del burqa e del niqab. Al di là della legittimità della legge, c’è qui una forzatura della nozione di “spazio pubblico”, dal momento che qualsiasi luogo di incontro aperto o accessibile al pubblico viene definito tale. Tuttavia, anche sorvolando su questa forzatura, il divieto è giustificato dall’esigenza di rendere identificabili le persone. Questa esigenza non si pone affatto per il burkini, perché non copre il viso.

Restano alcune ragioni più generali, che hanno una dignità decisamente maggiore.

La prima è la questione dei “valori occidentali”. Al meglio, si può presentare così: accettare certe pratiche e certi simboli religiosi di sottomissione della donna significa lasciare che si affermino progressivamente dei valori contrari ai principi occidentali e democratici di laicità, libertà e eguaglianza. E questo metterebbe a rischio le democrazie stesse.

La seconda è, più direttamente, la questione dell’eguaglianza: si tratta di pratiche e simboli che assoggettano la donna all’uomo, violando il principio di eguaglianza.

Le due obiezioni si intrecciano e si assomigliano ma non sono uguali. La prima esprime il timore che venga rovesciata la cultura moderna, laica e democratica; la seconda pone direttamente un problema di giustizia, perché denuncia il fatto che queste pratiche trattano ingiustamente le donne.

Tuttavia, anche queste preoccupazioni non giustificano il divieto del burkini.

Se si intende il pericolo corso dai “valori occidentali” nell’ottica di una “guerra di civiltà”, questa motivazione non può essere accettata da una democrazia liberale. Certo, può essere accettata se il nostro obbiettivo è affermare la nostra cultura, la nostra identità, la nostra storia, a scapito di quella di altri popoli e altre civiltà. In un’ottica quindi di affermazione dei destini storici. Ma se davvero la laicità, la libertà e l’eguaglianza sono i principi che vogliamo difendere, allora da questi principi derivano anche la tolleranza religiosa e il rispetto del pluralismo delle concezioni religiose e etiche. Se vogliamo difendere un regime politico democratico che tuteli la libertà concreta di persone eguali, non possiamo avere come obbiettivo il predominio della “nostra” cultura su altre culture, ma la convivenza e l’integrazione. Si può rispondere che “gli altri” invece se ne infischiano della democrazia liberale, e vogliono proprio affermare con la forza la loro cultura. Certo, questo è vero in parte, cioè per quella parte dell’Islam che ha scelto la strada della violenza o, comunque, dello “scontro di civiltà”. Ma intanto non è vero per il resto dell’Islam. E soprattutto la parte violenta dell’Islam non modifica la questione di principio: alla forza si può rispondere con la forza, senza uscire dalla democrazia. Ma non si vede in che modo portare un burkini in spiaggia sia un atto di forza. Non fa violenza a nessuno.

La questione della “difesa dei valori”, però, potrebbe essere intesa in modo più sottile. Si potrebbe argomentare: se, in nome della tolleranza e del pluralismo, lasciamo che si diffondano pratiche antiegualitarie, discriminatorie nei confronti delle donne, allora via via si trasformerà la cultura politica e sociale di sfondo che sostiene la democrazia stessa, rendendo sempre più difficile anche la tutela dei diritti. Questa è un’obiezione molto seria. La democrazia si nutre di culture di sfondo che alimentano valori coerenti con i suoi principi; se invece in una società predominano valori ostili ai principi di eguaglianza e libertà, la democrazia si indebolisce. Tuttavia, anche questa non è una ragione sufficiente per giustificare un divieto che interviene direttamente nella vita privata delle persone. Le trasformazioni sociali delle pratiche e delle culture sono processi complessi e “porosi”, e agiscono in tutte le direzioni. Se si accettasse il principio che per evitare la trasformazione di una pratica si può intervenire per legge, allora si rischierebbe di uscire dalla convivenza tra culture diverse, e si arriverebbe allo scontro. Ogni cultura potrebbe rivendicare questa “tutela giuridica”, per preservare la propria identità. Se si risponde che la “cultura democratica occidentale” deve essere privilegiata perché è quella che sostiene la democrazia, allora comunque si negherebbe il pluralismo: la tutela giuridica dell’identità diventerebbe possibile per una cultura, ma non per altre. Se si accetta fino in fondo il pluralismo implicato dal principio della eguale libertà, la cultura democratica non può essere “protetta per legge” fino al punto da violare la libertà individuale nelle scelte private. La cultura democratica deve invece essere alimentata dal rafforzamento costante dei diritti eguali, che nel rapporto con la pratica sociale rafforzano a loro volta delle convinzioni culturali a loro favore; e dal dibattito pubblico e filosofico, dalla discussione, anche dall’educazione. Ma non può essere “imposta per legge”. Non si manovra la cultura con la forza coercitiva del diritto. Al massimo, si creano le condizioni del suo fiorire.

Resta quindi l’obiezione più importante: il problema del dominio maschile. L’obiezione potrebbe essere formulata così: le donne che portano il burkini in spiaggia sono costrette dalla loro cultura – gerarchica, tradizionalista, maschilista – ad avere vergogna del proprio corpo; e molto spesso sono costrette a farlo direttamente dai maschi della loro famiglia (mariti, fratelli, figli). Quindi sia indirettamente, attraverso la tradizione, sia direttamente, attraverso la costrizione imposta dai familiari, sono costrette a subire una condizione di discriminazione, e di disagio. Il divieto serve a rimuovere questa discriminazione, cioè a impedire che le donne islamiche siano costrette a subire questo dominio.

In apparenza, questa obiezione è forte. Tuttavia, confonde alcuni piani. Affermare il principio di eguaglianza significa certo anche, in alcuni casi, vietare pratiche discriminatorie; ma solitamente questi divieti sono rivolti a chi discrimina, non a chi è discriminato. In questo caso, invece, il divieto è rivolto a chi sarebbe discriminato: è la donna che non può portare il burkini, non l’uomo che non lo può imporre. Allora l’aspetto antidiscriminatoria diventa del tutto presuntivo: si presuppone a priori che le donne islamiche che vanno in spiaggia e si fanno il bagno interamente coperte siano costrette a farlo, non siano state libere di scegliere. Ma questa logica ascrittiva, che definisce il senso del comportamento di un individuo sulla base della sua appartenenza a un gruppo, perché ascrive a quell’individuo un predicato che apparterebbe necessariamente a tutto il gruppo, è la fonte dei più scandalosi pregiudizi. È la stessa logica di ogni tipo di discriminazione sociale, razziale o sessista: se sei povero sei ignorante, se sei ebreo sei moralmente inaffidabile, se sei donna sei irrazionale. Mi esprimo rozzamente perché la logica del pregiudizio è rozza. Qui il principio funziona così: se sei una donna islamica non sei libera. Quindi posso importi di fare quello che io penso sia bene per te, perché non sto violando la tua libertà in quanto la scelta, ai tuoi occhi libera, in realtà non è libera.

Questa posizione viola contemporaneamente tanto il principio di libertà quanto quello di eguaglianza. Il principio di libertà, perché la libertà che le democrazie devono rispettare è quella empirica, osservabile: io non posso presupporre che tutto un gruppo non è libero, perché questo è solo un pregiudizio; ma se non è possibile che un intero gruppo sociale sia “non libero” per definizione, allora devo capire nei casi singoli quando una persona è libera o meno; e devo istituire dei diritti e delle condizioni che garantiscano questa libertà. Quindi devo creare una situazione istituzionale e sociale in cui una donna che si rifiuta di portare il burkini possa appellarsi a qualcuno (e anche a un contesto sociale) contro il marito o il padre o il fratello. Ma è la donna stessa che definisce la sua libertà, non io con il mio pregiudizio. È la donna che denuncia, si rifiuta ecc. Se la donna difende invece la sua scelta di portare il burkini, io allora sto violando la sua libertà solo in nome di un pregiudizio. E quindi, per questa ragione, violo anche il principio di eguaglianza: quella donna, infatti, in quanto donna islamica, viene discriminata rispetto alle donne non islamiche, che non subiscono questa “presunzione della non libertà”. Le donne islamiche, quindi, vedono violato l’eguale rispetto che sarebbe loro dovuto da due lati: da parte dei maschi della loro comunità, che impongono usi discriminatori; da parte del diritto “occidentale”, che le tratta come delle minori sotto tutela.

Ovviamente, si può ancora rispondere che la libertà non è un affare così semplice. Non basta dire “io sono libero” per affermare che si è liberi realmente. Si possono subire le influenze psicologiche e inconsce della tradizione, di una cultura maschilista, di secoli di dominio incontestato, di mezzi sociali e culturali limitati. Ma questo può essere detto di ogni soggetto umano empirico. Nessuno di noi è totalmente cosciente della propria situazione; e nessuno di noi, per quanto lucido, sfugge a forze irrazionali di ogni tipo, che possono esplodere quando meno ce lo aspettiamo. Certo, si può circoscrivere il concetto di libertà, e intenderlo come il fatto di non essere dominato dalla volontà di altri (anche incarnata in tradizioni e pratiche). E si può dire che una persona vissuta sempre chiusa in una certa tradizione può non avere coscienza del fatto che quella tradizione la consegna mani e piedi al potere di un altro (in questo caso il maschio). E in effetti questo è il problema di tutte le forme di dominio sociale, in particolare del dominio maschile. Tuttavia, anche questo non giustifica un divieto che colpisce direttamente una pratica privata che non fa danni a terzi né viola diritti di eguale libertà. In primo luogo perché questo tipo di analisi sociale porta a formulare il pregiudizio analizzato sopra: “se sei donna e musulmana non sei libera”. E poi perché se anche accettiamo che questa è una condizione di asservimento, poiché questo asservimento passa per l’adesione della persona asservita, non potrà mai essere rovesciato con un atto di forza esterno. Solo una lotta di quel soggetto, che si trasforma in qualcos’altro e ritira la sua adesione, con il conflitto, può liberarlo da quell’asservimento. Il divieto si mette contro la sua volontà empirica: se la coscienza non si riconosce nel principio che le viene imposto, questo resta un semplice divieto, una limitazione della libertà personale del tutto ingiustificata.

Concludo con un esempio che cerca di mettere insieme queste due parti del ragionamento. Prendiamo il caso della violenza sulle donne (italiane, quindi occidentali). Quando capita che una donna, anche per anni, tolleri un marito violento, senza denunciarlo, ma subendo passivamente, accettando un ruolo subordinato, in questi casi la legge si mette dalla parte della donna nel senso che la difende se lei denuncia la violenza, oppure persegue il marito in virtù della obbligatorietà dell’azione penale. Ma in nessun modo la legge impone obblighi o divieti alla donna. Nessuna legge impone alle donne di denunciare i loro mariti perché le picchiano. Nessuna legge impone alle donne di ripudiarli, divorziare ecc. anche dopo l’azione penale. La donna è libera di fare quello che vuole, perché viene considerata un soggetto adulto e libero. Se, sulla base di una cultura dell’emancipazione, riteniamo che una donna che sopporta le violenze del marito non sia libera, solo la pressione sociale delle altre donne, della cultura, del dibattito pubblico, solo un percorso personale di trasformazione, che passa anche per il trauma della violenza e del conflitto con il marito, può portare quella donna a vedersi diversamente. Ma non certo una legge che le imponesse di denunciare il marito.

Questo esempio è un caso estremo, complicato dai risvolti penali. Ma se prendiamo in considerazione tante pratiche sociali radicate in un dominio maschile millenario, vediamo che anche in questi casi nessuno penserebbe di risolverli con divieti imposti per legge. Vogliamo vietare per legge, per esempio, un’educazione familiare che spesso rende i maschi irresponsabili verso le faccende di casa e costringe invece le bambine, fin da piccole, ad imparare a farle? Se le cose sono cambiate (non abbastanza) su questo terreno, non è per un intervento del legislatore. O vogliamo proibire alle donne italiane di farsi carico delle faccende di casa, anche quando sono stressate dal proprio lavoro “esterno”, mentre i loro mariti fanno poco o niente, adducendo il lavoro esterno? Le pratiche sociali si trasformano attraverso il conflitto e la critica sociale, non con dei divieti antiliberali.

(Torino, 21 agosto 2016)

[Immagine: surfista in burkini]

 

38 thoughts on “Il burkini e i turbamenti della democrazia

  1. Caro Piras,
    ho argomentato in modo sinile al suo anche se in forma più sintetica.
    Stavolta quindi sono d’accordo con lei, e come sa, non mi succede spesso, e ciò motiva questo mio commento peraltro superfluo.

  2. Caro Mauro, concordo con Cucinotta. Alle stesse conclusioni sono arrivato anche io, in modo, diciamo, più euristico e non seguendo il filo di un’argomentazione logica così lucida. Il punto è sempre quello: sono le donne (magari anche aiutate, se lo vogliono) che dovranno porre fine a queste scempiaggini.

  3. Bravo Mauro, anche io sono d’accordo.
    E comunque il problema si riassume nella pretesa, paternalistica e assurda, di voler emancipare una donna costringendola a denudarsi vergognandosi o a rinunciare al piacere di andare al mare. Come funzionino davvero i processi dell’emancipazione (forse non solo femminile), attraverso i meccanismi progressivi del desiderio, dell’imitazione, e del giudizio individuale, lo suggerisce in fondo la bella immagine che avete scelto come copertina.

  4. In realtà, un dibattito su questo argomento dovrebbe tentare di sottolineare maggiormente un fatto: nel mondo occidentale (cioè nel nostro) gli abiti che una persona indossa appartengono, giustamente oramai, alla sfera estetica dell’esistenza. Ciò significa che, in buona sostanza, giudichiamo chi ci sta intorno positivamente o negativamente, ma soltanto da un punto di vista estetico. Il burka (e tutto ciò che rientra in questa categoria di vestiti; ma ovviamente anche il trucco ecc.), invece, essendo espressione di una cultura – bisogna dirlo – retrograda, ha la pretesa di appartenere alla sfera morale dell’esistenza. Ed è questo il punto sul quale le due culture non potranno incontrarsi.
    Certamente imporre un divieto significa negare qualcosa a qualcuno. Ma la necessità di tali divieti emerge nella misura in cui una società ritiene che i princìpi sui quali essa si regge siano inviolabili. Sarebbe, anzi, veramente riprovevole permettere, in nome della democrazia, delle pratiche repugnanti, le quali, per la loro mera esistenza, negano i princìpi della società in cui si trovano. Il cosiddetto burkini non è altro che la testimonianza, per dirla con Marx, sensibilmente soprasensibile (sinnlich uebersinnlich) della sottomissione femminile nel mondo islamico. Che questa sottomissione avvenga col favore o meno della donna è questione del tutto irrilevante. E ciò non significa trattare le donne alla stregua di minori. Significa, semplicemente, riconoscere che, a volte, le diverse culture non sono soltanto diverse quantitativamente, bensì anche qualitativamente. Soltanto perché alcuni in passato la pensavano in questo modo al giorno d’oggi ci è dato vivere in base a dei princìpi per noi ovvi e inviolabili.

  5. Eleganti ragionamenti ma si dimentica (volutamente?) un particolare: come integrarsi in una società diversa dalla tua, che ti ha accolto, ti ha sottratto ai bombardamenti, alla miseria, ai ribelli che piombano sul tuo villaggio e ammazzano rubano e violentano?
    Non puoi fare un piccolo sforzo per non ricordarmi vistosamente con il tuo abito che sei diversa da me e che tale vuoi rimanere, anche se sono anni che vivi nel mio paese, usi (gratis) le mie strutture sanitarie, la scuola ecc, Se non mangi carne di maiale e non bevi alcool e frequenti la moschea non mi procura alcun fastidio.

    Se vuoi essere coperta ci sono abiti occidentali che sono molto sobri, il costume da bagno può essere molto più “castigato” del bikini . Perchè altre popolazioni (cinesi ,indiani, orientali in genere) che si vestivano come sappiamo, in Italia si vestono come noi pur mantenendo uno stile e un gusto orientaleggiante ?
    Le suore che sulla spiaggia giocano nel bagnasciuga portano una “divisa” proprio per dimostrare la loro
    diversità dalla popolazione comune, come un poliziotto, un sacerdote, un vigile del fuoco.
    Quando si vogliono sentire come gli altri … tolgono la divisa e si vestono come gli altri.

    “Ma è la mia tradizione” risponderanno. E noi sai quante tradizioni abbiamo abbandonato,anche religiose tipo il digiuno del venerdi

  6. “ Martedì 1 febbraio 2005 – « Un altro elemento mi pare fondamentale in Alvaro: il suo dono di veder la realtà attraverso un velo, sicché egli può concludere le quattrocento pagine del suo diario con queste parole: “ La favola della vita m’interessa ormai più della vita. “ » (Arrigo Cajumi, Quasi una vita, in «La Stampa», 10 gennaio 1951) “.

  7. Chiarissimo e lucidissimo, sono d’accordo in tutto e per tutto. Obbligare ad essere liberi (libere) è una contraddizione di principio, una violenza di fatto (psicologica, profonda) e anche controproducente dal punto di vista pratico dell’emancipazione stessa.
    Questo è liberalismo, checché sul burkini teorizzi Flores D’Arcais, dogmatico quanto un papa.

    Dal punto di vista pratico però speriamo che ci basterà difendere questi principi. Se la pratica di convivenza tra culture iperlaico della Francia mostra la corda, mi pare che quello multiculturale inglese non faccia meno acqua (se stiamo almeno alla presenza di islamici radicalizzati e foreign fighters – l’Inghilterra è stata forse tra le prime a produrne).

    Un’ultima osservazione: io non sottovaluterei (a incremento dell’interpretazione e non come chiave sostitutiva) la lettura “consumistica” del burkini, che è pur sempre un prodotto commerciale, pensato da una stilista peraltro mi pare non musulmana: le donne musulmane in questa lettura diventano un target del capitalismo, clienti e consumatrici non meno di noi.
    Certo, magari potremo osservare che il capitalismo ha liberato le donne americane ed europee con la minigonna, liberando il corpo e non facendone clausura; però di sicuro il capitalismo non è arcaicità e tradizionalismo.

  8. Tipico commento da intellettuale da poltrona. che alla fine si diletta e si immerge nei principi astratti e perde il contatto con la realtà delle cose e degli eventi, che invece si ribellano ad essere totalmente condizionati da argomentazioni cosi sofisticate da diventare artificiose. Direi innanzitutto che ci si muove sempre in tentativi, in errori che si possono correggere, anche se volte non lo sono, senza voler imprigionare ciò che avviene in schemi troppo restrittivi. Ma lascerei parlare Karl Popper, che si esprime in maniera non solo semplice ma anche pragmatica (in contatto con la realtà, non solo con il proprio intelletto) : “Il cosiddetto paradosso della libertà è l’argomento per cui la libertà, nel senso dell’assenza di qualsiasi controllo restrittivo, deve portare a un’enorme restrizione perché rende i prepotenti liberi di schiavizzare i mansueti. Questa idea, in una forma un po’ diversa e con una tendenza del tutto diversa, è chiaramente espressa da Platone.
    Meno noto, invece, è il paradosso della tolleranza: la tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi. In questa formulazione, io non implico, per esempio, che si debbano sempre sopprimere le manifestazioni delle filosofie intolleranti; finché possiamo contrastarle con argomentazioni razionali e farle tenere sotto controllo dall’opinione pubblica, la soppressione sarebbe certamente la meno saggia delle decisioni. Ma dobbiamo proclamare il diritto di sopprimerle, se necessario, anche con la forza; perché può facilmente avvenire che esse non siano disposte a incontrarci a livello dell’argomentazione razionale, ma pretendano ripudiare ogni argomentazione; esse possono vietare ai loro seguaci di prestare ascolto all’argomentazione razionale, perché considerata ingannevole, e invitarli a rispondere agli argomenti con l’uso della violenza. Dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti.Dovremmo insomma proclamare che ogni movimento che predica l’intolleranza si pone fuori legge e dovremmo considerare come crimini l’incitamento all’intolleranza e alla persecuzione, allo stesso modo che consideriamo un crimine l’incitamento all’assassinio, al ratto o al ripristino del commercio degli schiavi”.

  9. abbasso di molto il livello delle argomentazioni, per riportare qualche osservazione personale

    Mia nonna paterna, italiana, usciva di casa solo con il capo coperto (con un velo), se gliel’avessero vietato, immagino che sarebbe rimasta chiusa in casa, il capo scoperto non l’avrebbe trovato adeguato fuori dalle mura domestiche.

    Una mia amica tedesca (non musulmana, è ebrea) in piscina porta sopra al costume intero ampie magliette, non si sente a suo agio nel suo corpo e desidera nasconderlo, nessun bagnino a oggi gliel’ha vietato, e quindi lei continua a godere della frequentazione della piscina.

    Una mia amica italiana (atea) in spiaggia ci va vestita e ci rimane vestita, sorveglia i figli che fanno il bagno ma lei non non si cambia e non entra in acqua, penso che questo abbia a che fare con il fatto che è sovrappeso, se la obbligassero ad andare in spiaggia con un costume intero lei (e di conseguenza i suoi figli) ci rinuncerebbero.

    Una signora ligure anzianotta che conosco in estate fa lunghi bagni sempre e solo con la muta intera, dice che si è stufata di venir beccata dalle meduse.

    Vietare il burqini vul dire, di fatto, vietare a donne (musulmane, ebree, cattoliche, atee) di andare in spiaggia e in piscina, e di praticare sport, vuol dire che se hanno figli anche a loro questo verrà vietato.

  10. @ Pollono. Grazie per la citazione da Popper, che rinforza precisamente la posizione da intellettuali da poltrona.

    “Finché possiamo contrastarle con argomentazioni razionali e farle tenere sotto controllo dall’opinione pubblica, la soppressione sarebbe certamente la meno saggia delle decisioni”: appunto, finché possiamo difenderci con la ragione, è sempre la strada migliore (non è un assoluto, ma per ora lo è ancora, per fortuna, visto che qui si parla di donne pacifiche in spiaggia, non di kamikaze. Ma Piras ha già spiegato benissimo perché la logica ascrittiva non funziona).

    “Dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti”: siamo tutti assolutamente d’accordo, infatti espelliamo gli imam che predicano odio e chiederemo che si vigili affinché non ci sia esplicito obbligo per le donne, che invece vi si ribellino, a indossare il burkini.

    Noi intellettuali da poltrona in poltrona stiamo comodi e lasciamo che il nostro prossimo si scelga il proprio destino senza che noi si debba prendere il disturbo di alzarci e impedirgli di vivere come crede, o come può, con tutte le sue zone cieche, irrazionalità, tic culturali, eredità pesanti, coazioni a ripetere sociali e psicologiche.
    Quindi non si preoccupi: se lei fuma, o beve molto, o guarda film porno, o si confessa davanti a un sacerdote, o porta sua figlia sull’altare accompagnandola sotto braccio per poi “cederla” a suo genero, in un rituale patriarcale, noi non glielo impediremo in nome di un presunto diritto di imporle di essere libero.

  11. Marko sostiene che il burkini è una evidenza della sottomissione della donna all’uomo.
    Ciò di cui egli non si accorge è che tra il fatto, indossare il burkini, e la sua interpretazione, la donna sottomessa allì’uomo, ci sta il suo pregiudizio di occidentale.
    Dei musulmani potrebbero allo stesso modo sostenere che sia il bikini l’evidenza lampante della sottomissione della donna all’uomo.
    E’ questo il punto, che sul fatto in quanto tale, non v’è nulla da dire, neanche i più scatenati sostenitori della tesi della proibizione potrebbero sostenere che sia possibile per uno stato liberaldemocratico proibire determinati tipi di abbigliamento, ed allora si carica il fatto di significati simbolici che tuttavia per loro natura dipendono inevitabilmente dal punto di vista dell’osservatore.
    In questo passaggio frettoloso dal fatto in quanto tale alla sua interpretazione, si gioca tutta la fallaccia del ragionamento dei fautori della proibizione.
    Nè si può invocare la libertà della scelta, perchè quando invochiamo il concetto di libertà, ci addeentriamo in un ginepraio da cui è poi arduo uscire.
    Formalmente, in Francia, la forza della legge consente a tutte le donne, quindi anche alle musulmane, di vestirsi come credono senza subire imposizioni altrui, ma tuttavia sappiamo tutti che gli uomini sono esseri sociali, e come tali soggetti al condizionamento dall’ambiente in cui si trovano a vivere.
    Quindi, è certo vero che le donne musulmane vengono condizionate dall’ambito della loro religione, ma potremmo dire che le donne occidentali scelgano davvero il loro abbigliamento senza subire condizionamenti di sorta? Se così fosse, non potrebbe neanche esistere la moda e gli affari colossali ad essa collegati.
    Alla fine, dovremmo credo tutti unanimamente convenire sul fatto che è solo partendo dal punto di vista parziale di cittadini occidentali che troviamo così sgradevole vedere donne in burkini nelle spiagge, e non credo che sia democratico invocare il proprio parziale punto di vista per invocare proibizioni e sanzioni.

  12. Brillanti argomentazioni di un intellettuale che sembra però vivere staccato da certe realtà. Purtroppo per liberare gli schiavi è stato necessario vietare agli schiavisti di far uso libero e indiscriminato delle fasce più deboli. Sembra un paradosso, ma nel contesto del vivere civile, una libertà senza limiti, fa trionfare l’ingiustizia e la prevaricazione del più forte sul più debole e quindi la negazione stessa della libertà. In una democrazia, sono le leggi a sancire l’uguaglianza e le pari opportunità. Sappiamo noi quanto sia difficile oggi garantire questi valori ancora spesso calpestati da mentalità maschiliste dure a morire. Le donne qui hanno però strumenti di ricorso contro gli abusi e le discriminazioni. Pretendere o aspettarsi che siano le stesse donne musulmane a liberarsi da una cultura infarcita di maschilismo violento e da un crescente e strisciante fondamentalismo, significa ignorare la realtà delle banlieues e condannare queste donne alla sottomissione e all’isolamento.
    Non parlo evidentemente delle ricche bagnanti saudite che possono permettersi di comprare costosi e colorati burquini in neoprene !

  13. @Vincenzo Cucinotta: ha ragione nel dire che ciò che io sostengo dipende da un determinato retroterra culturale. Ma ciò non invalida necessariamente il punto del discorso. Anzi, dato che nessuno di noi vive in una specie di iperuranio platonico, ma qui e ora, direi che ogni discorso si trova ad essere eo ipso il prodotto di un determinato contesto (tra l’altro, stiamo scrivendo in un sito che prende il proprio nome da un’opera di Foucault, ergo…) storico-sociale. Ciò non significa che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, ecc. Significa soltanto che, andando al di là della superficie in quanto frutto di un costrutto storico-sociale, bisogna prendere in considerazione il – diciamo – punto focale di un discorso. Ciò che a me stava a cuore sottolineare era, soprattutto, la distinzione tra il vestire in quanto fatto estetico ed il vestire in quanto fatto morale. Nei vari commenti si paragona al burkini il bikini, ma questo paragone, in nome della mia distinzione, sarebbe improprio. Infatti, per quanto il bikini possa esser fatto più per l’occhio dell’uomo che per la liberazione della donna (possiamo anche sostenerlo), non si tratta, per noi, di un fatto morale, bensì estetico. Nessun dubbio su questo punto. Ciò che a me da fastidio è che il burkini (e annessi) vorrebbe riportarci volens nolens alla sfera morale (cosa che, per ciò che concerne il vestire, pensavamo di esserci lasciati alle spalle), e ciò per me è inaccettabile. Non tollerare il nostro modo di vivere è un diritto di tutti. Voler, in nome di ciò, rimettere in discussione ciò che per noi è – fortunatamente – ovvio e sacrosanto, invece, non può esser tollerato.

  14. “ Giovedì 11 ottobre 2001 – « Capisco altresì che il termine “ tolleranza “, per molti, evochi soltanto le case di tollerantissima memoria. », (Dice Eco) “.

  15. Almeno l’articolo pone al centro dell’affaire il rapporto (di dominio) tra i sessi nelle due culture, nella nostra e in quella islamica!
    Non dico in modo esplicito, ma almeno il focus è lì.
    Sfugge però che tra le islamiche, tra amiche ma anche tra le generazioni, coesistano burkini e bikini.
    (Tempo fa sono risalita dal mare in una zona di spiaggia di competenza di una casa di vacanza per suore: alcune erano in costume intero, alcune in bikini, alcune vestite… 30 anni fa.)
    Invito: si faccia una riflessione che si tratta di scelte che le donne stanno facendo, si segua il loro dibattito (Famiglia Cristiana, Manifesto), gli uomini smettano di decidere che le donne si debbono spogliare, che le donne si debbono vestire, “secondo la legge”.

  16. Grazie a Piras per la sua analisi, che dal punto di vista liberale non fa una grinza.
    Non fa una grinza neanche dal punto di vista mio, se si considera la questione nei limiti del dilemma (ridicolo) burkini/bikini. Si vestano/svestano un po’ come gli pare, dice il buon senso.

    Segnalo però a Piras e agli altri che questo è un ballon d’essai, esattamente come la recente provocazione sulla poligamia; con la quale un imam italiano, Roberto Hamza Piccardo, traduttore del Corano, riproponeva identica, a favore della poligamia, la posizione di Derrida sul matrimonio (posizione nichilista pura: non esistono essenze, ognuno ha il diritto di fare come desidera, nessuno ha il diritto di normare le forme del desiderio e dell’affettività).

    Gli islamici (non solo gli islamisti: gli islamici, o almeno le loro avanguardie coscienti) non sono affatto ingenui o sciocchi. Con queste piccole punzecchiature, stanno saggiando le capacità di resistenza degli autoctoni europei, e gli rivolgono contro come un’arma le aporie del liberalismo: la più pericolosa delle quali è che il liberalismo si mette dal punto di vista di un’astratta umanità nella quale virtualmente tutti sono o saranno eguali o almeno eguagliabili, e in questa eguaglianza virtuale dovrebbero trovare un idem sentire; mentre il liberalismo non si mette (non può mettersi) dal pdv delle concrete forme di civiltà, dove invece le diversità sono strutturali, irriducibili, e a volte implacabili fino all’inimicizia assoluta.

    In Marocco (paese islamico che però teme il rafforzamento della fazione islamista) il governo ha fiutato subito la trappola e HA VIETATO, “per ragioni igieniche”, l’uso del burkini nelle piscine e sulle spiagge.

    Lo scopo strategico in vista del quale vengono impiegate queste tattiche provocatorie lievi, persino spiritose, è il seguente: sfruttare il sistema giuridico e culturale liberale, che garantisce agli individui la piena libertà di scelta purchè non lesiva della libertà altrui, e dirottare la tolleranza sistematica liberale DAGLI INDIVIDUI ALLE COMUNITA’.

    “A voi piace così, a noi piace colà: che male vi facciamo? vi impediamo forse di continuare a comportarvi come vi piace? Con quale diritto ci vietereste di fare quel che a voi è permesso, cioè come volete?” (non casualmente, è lo stesso argomento di fondo con il quale il liberalismo respinge le argomentazioni etiche, sociali e politiche dei contrari al matrimonio omosessuale).

    E nella logica liberale, infatti, non c’è ragione alcuna di vietare burkini, poligamia, matrimonio omosessuale, eccetera. Il problema, però, è che oltre alla logica liberale c’è anche la realtà.

    Nella realtà, il multiculturalismo realmente esistente (esistente al presente e soprattutto al futuro), favorisce e anzi incoraggia la formazione in Europa di enclaves nelle quali la lealtà primaria NON va nè allo Stato, nè alla nazione, nè alla cultura europea (ammesso che si sappia che cos’è e che esista ancora).

    In quelle enclaves, la lealtà primaria va a chi ti è simile per etnia e religione, e in secondo luogo alle potenze straniere che ti sostengono direttamente o indirettamente, con i finanziamenti e le pressioni politiche a livello governativo. Non parlo solo delle comunità islamiche: si veda la recente manifestazione violenta della comunità cinese in seguito a un (peraltro rarissimo) controllo di polizia su loro azienda. Organizzati dalle Triadi (le bisnonne della Mafia) e con alla testa rappresentanti diplomatici della Repubblica Popolare Cinese, con tanto di bandieroni rossi sventolanti, migliaia di cinesi sono scesi in piazza e si sono duramente scontrati con le forze dell’ordine italiane.

    La presenza sul territorio europeo di vaste enclaves in cui la lealtà primaria non va allo Stato e/o alla nazione o alla civiltà europea ma altrove, scava una serie di profonde linee di faglia religiose, etniche, culturali e politiche, che sotto l’urto di violente crisi (pilotate o meno, endogene o esogene) possono innescare la guerra civile, a bassa o anche ad alta intensità. La “Svizzera del Medio Oriente”, il Libano, una società multiculturale che sino al momento X era vissuta pacificamente e anzi in modo piacevole e brillante, nel momento x+1, in seguito a una crisi politica esogena, è sprofondato in una guerra civile terrificante.

    Esempio: i “valorosi corsi”, che stanno simpatici anche a me, hanno un movimento indipendentista armato fino ai denti, e come ben sanno le forze dell’ordine francesi, che infatti da quelle parti tengono un bassissimo profilo, sono assai reattivi e hanno la mano molto, molto pesante. In questo caso recente, di fronte a una piccola provocazione islamica (picchiato un ragazzino, minacciati e infastiditi alcuni turisti) i corsi si sono limitati a dare fuoco ad alcune automobili nel quartiere islamico. Così facendo, i valorosi corsi hanno dato una conferma preziosissima ai dirigenti islamisti: “Se vogliamo una reazione molto violenta degli autoctoni, colpiamo lì.”
    Ricordo che la logica degli attentati islamisti – la logica della guerra partigiana – è esattamente questa: provocare la rappresaglia, meglio se da parte dei cittadini, affinchè le comunità islamiche tutte si sentano direttamente minacciate dagli autoctoni e si rivolgano agli islamisti per farsi proteggere.

    E se la prossima volta gli islamisti fanno il morto, o i morti? Se fanno qualcosa nell’ordine di gravità di Beslan? Come reagiscono i valorosi corsi? Si rivolgono alla magistratura e alle forze dell’ordine per avere giustizia? Perdonano cristianamente?Non credo proprio: questi prendono l’AK e restituiscono la cortesia, cioè ammazzano parecchi civili islamici (perchè chi glieli indica i dirigenti responsabili della strage?).

    Le guerre civili cominciano esattamente così: quando lo Stato non ha più nè il monopolio della lealtà primaria, nè il monopolio della forza, i cittadini cominciano a fare da sè. Se ci sono sul territorio varie comunità profondamente diverse, ciascuna organizzata anche politicamente e magari militarmente al proprio interno, lo scontrodiretto intercomunitario diventa inevitabile, e si apre il ciclo della violenza: che si esaurisce solo quando una fazione e i suoi alleati conquistano la supremazia.

    Per concludere: questa scemenza del burkini non è una scemenza, è un esame (piccolo) a cui siamo stati sottoposti. Esito: bocciatura. Verranno esami molto più difficili. Il tema d’esame più importante sarebbe il confronto tra le dinamiche demografiche degli autoctoni europei e degli allogeni. Direi che non siamo preparati.

  17. Concordo. Avrei aggiunto una provocazione forte: la difesa dei valori occidentali comprende la difesa della violenza imposta ad un neonato che viene sottoposto alla pratica religiosa del battesimo. In un paese laico e democratico dovrebbe vietarsi il battesimo fino al raggiungimento della maggiore età. In un paese civile gli adulti e ogni educatore, genitori in primis, dovrebbero educare il minore stimolando il suo spirito critico, in modo tale che da adulto possa liberamente scegliere l’orientamento religioso e culturale che riterrà migliore per sé. Questo è scritto diffusamente nella nostra Costituzione e nei più avanzati testi di pedagogia e psicologia.

  18. Scrive Lo Vetere : “Noi intellettuali da poltrona in poltrona stiamo comodi e lasciamo che il nostro prossimo si scelga il proprio destino senza che noi si debba prendere il disturbo di alzarci e impedirgli di vivere come crede, o come può, con tutte le sue zone cieche, irrazionalità, tic culturali, eredità pesanti, coazioni a ripetere sociali e psicologiche.”

    Grazie Lo Vetere, ha perfettamente illustrato quanto, con qualche fatica, avevo cercato di dire. L`intellettuale da poltrona se ne sta comodo sulla sua seggiola imbottita, con tazza di caffe` oppure bicchiere di whiskey a portata di mano, a cesellare parole, concetti e logiche (soprattutto quelle ascrittive!) in maniera da non lasciare buchi (potrebbero uscirne ragni e scarafaggi) , crepe, falle, o varchi nei suoi ragionamenti, dove potrebbe infilarsi un altro intellettuale da poltrona per dimostrarne la fallacia. E` l`apoteosi del narcisismo, malattia assai subdola perché riesce ad oscurare ogni consapevolezza di esserne afflitti.

    Non sono più tanto ingenuo (sarebbe tempo sprecato) da implorare l`intellettuale da poltrona di alzarsi dal suo soffice sedile, di uscire dalla porta di casa e di esercitarsi ad agire nel mondo reale anziché costruirne una copia artificiosa nei meandri del proprio cervello. Di mettere alla prova dei duri fatti le proprie meditazioni, cimentandosi e compiendo azioni nel turbinio di tutte le altre azioni che vengono compiute su questo pianeta dall`infinita molteplicità degli esseri umani. Perché, giustamente, in questa esperienza ci sarebbe il rischio di avere a che fare con le “zone cieche”, le “irrazionalità”, i “tic culturali” (buona questa !), le ” eredità pesanti” – per non parlare delle “coazioni a ripetere”, vedi mai che tutta questa imprecisione, il caos, le contraddizioni, i paradossi della condizione umana vengano a turbare l`immacolata concezione dei nostri pensieri!

    Mi citi, Lo Vetere, una sola delle cosiddette conquiste della mente razionale o addirittura illuminata che non sia avvenuta nel sangue, nelle lotte, nella violenza – ma soprattutto (questo e` il punto), confutando o addirittura demolendo, nel corso dell`agire, ogni principio elaborato se non in poltrona perlomeno al riparo dalle stranezze e dalle assurdità che il divenire comporta. Poi, il rapporto tra il pensare e l`agire può essere il soggetto di un futuro articolo di un altro intellettuale da poltrona

    A me piace un detto, che non e` uscito dalla mente di un intellettuale pigro, ma da un filosofo pratico, forse uno zio di Lao Tzu : “Chi fa sbaglia” e, prima o poi, il conto – talora chiamato karma – arriva. E` questa la direi inesprimibile bellezza (per alcuni il raccapriccio) della condizione umana. Se poi vuole ulteriori chiarimenti, si legga quello che Krishna dice ad Arjuna nel terzo capitolo della Bhagavad Gita.

    “Quindi non si preoccupi: se lei fuma, o beve molto, o guarda film porno, o si confessa davanti a un sacerdote, o porta sua figlia sull’altare accompagnandola sotto braccio per poi “cederla” a suo genero, in un rituale patriarcale, noi non glielo impediremo in nome di un presunto diritto di imporle di essere libero.” Lo Vetere, ma dove e` andato a finire? A parte che non fumo, non bevo molto, non guardo i film porno, mi tengo ben lontano dalle religioni e dai loro funzionari e non ho figli, non ho dubbi che lei non alzerebbe mai il proprio sedere per esercitare un suo presunto diritto di imposizione. Potrebbe essere un`esperienza spaventosa, per lei. Anche perché ho fondati motivi per ritenere che lei ignori totalmente cosa sia la libertà, sia che essa esista sia che non esista sia che sia il prodotto delle sue cogitazioni – o altro ancora.

    Infine, scrive Piras : “In apparenza, questa obiezione è forte. Tuttavia, confonde alcuni piani. Affermare il principio di eguaglianza significa certo anche, in alcuni casi, vietare pratiche discriminatorie; ma solitamente questi divieti sono rivolti a chi discrimina, non a chi è discriminato. In questo caso, invece, il divieto è rivolto a chi sarebbe discriminato: è la donna che non può portare il burkini, non l’uomo che non lo può imporre. Allora l’aspetto antidiscriminatorio diventa del tutto presuntivo: si presuppone a priori che le donne islamiche che vanno in spiaggia e si fanno il bagno interamente coperte siano costrette a farlo, non siano state libere di scegliere. Ma questa logica ascrittiva, che definisce il senso del comportamento di un individuo sulla base della sua appartenenza a un gruppo, perché ascrive a quell’individuo un predicato che apparterebbe necessariamente a tutto il gruppo, è la fonte dei più scandalosi pregiudizi.” Ecco, questo e` un esempio di come il pensiero si avvolga narcisisticamente su se stesso al fine di rimuovere le contraddizioni che sono insite in ogni ragionare ma che, su un altro piano, sono il pane quotidiano (con salame o formaggio) di ogni agire. Piras e` contro il divieto e si esercita a dimostrare che sarebbe una soluzione errata. Tanto lui non e` un politico, non e` un giardiniere che deve mettere le mani nel letame per far crescere le piante. Con il rischio di grandine o di gelate precoci. )(

  19. @Marko
    I comportamenti, tutti inclusi e nessuno escluso, sono pertinenza della morale, non vedo come si possa dire diversamente.
    Non capisco altresì perchè un fatto estetico non possa anche essere morale, non vedo come si possa metetre i due aspetti in competizione tra loro. La morale qui c’entra nel senso del condizionamento sociale che riguarda tutti noi e non solo le donne musulmane. Mi pare quindi che questa differenziazione che lei propone non sia adeguatamente argomentata.

    @Buffagni
    Condivido totalmente le tue preoccupazioni riguardo alla convivenza con comunità numericamente significative. Quei musulmani sarebbe stato bene che fossero rimasti lì dove erano nati, e credo proporio che la gran parte di loro non avrebbe desiderato di meglio se l’invadente presenza degli occidentali in tutto il mondo non ne avesse reso difficile la loro vita nei luoghi di origine.
    Tuttavia, adesso che stanno qua, e badando a non farne aumentare il numero, bisogna trovare il miglior modo per minimizzare i problemi che inevitabilmente tale presenza ci pone.
    Tu dici che questa del burkini è una deliberata provocazione da parte dei musulmani.
    In assenza di dati in proposito, non mi pronuncio, ma diamo pure per scontata la tua affermazione.
    Bene, io non avrei tuttavia dubbi che proibire il burkini sia la maniera peggiore possibile di rispondere a una tale ipotizzata provocazione.
    Le provocazioni vanno per quanto possibile ignorate, dobbiamo dimostrare che il nostro sistema di governo funziona anche davanti a un burkini. Fare come hanno fatto in Francia, mi pare che sia il modo migliore perchè la provocazione abbia invece pieno successo.
    Nel primo caso diciamo che non ci facciamo influenzare da come le loro donne si vestono, nel secondo diciamo che il nostro sistema è già andato in tilt, non è in grado di operare alla maniera usuale, comincia a creare eccezioni su eccezioni, e di eccezione in eccezione distruggiamo quel sistema a cui pure sembravamo così affezionati.
    E il sistema è quello delle leggi, le leggi devono rispettarle tutti, indipendentemente dal credo religioso, e tutto ciò che la legge non regolamenta, lì non ci facciamo impressionare da significati simbolici.

  20. Capisco il ragionamento di Buffagni e la sua intima non contraddittorietà.
    Però mi piace pensare a una -parziale ma tenace nel tempo e nella geografia- autonoma relazionalità femminile. Anche Raffaella implicava che ci fosse, nel suo commento.
    Se effettivamente esistesse, e almeno in parte posso fare conto che esista, la scena cambia un poco, le enclaves e le etnie non sarebbero i soggetti unici.
    E’ vero però che nelle guerre civili degli ultimi 30 anni l’autonoma relazionalità femminile si è al massimo confinata nella estraneità.

  21. @ Pollono. Guardi, io faccio l’insegnante e non ho nemmeno la poltrona in casa. Mi alzo tutte le mattine per vedere se con le parole riesco a fare anche cose.
    Mi sono incluso ironicamente nella casta degli intellettuali da poltrona solo perché trovo un po’ sgarbato che si inizi un commento con una liquidazione preventiva, e generalizzante, dunque vuota, come “voi intellettuali da poltrona”.
    Dunque ho esercitato il diritto all’ironia, che, spero ne converrà, è un’arma bianca che si dovrebbe concedere all’avversario (dialettico), perché in fondo non fa male.
    Stia sereno, non ho pensieri particolarmente immacolati: solo, mi piacciono le discussioni che mi fanno riflettere, non quelle che appiccicano etichette.
    Cordiali saluti

  22. Dimeticavo la cosa più importante: anche Piras (l’unico che, a rigore, si sia preso dell’intellettuale da poltrona) fa l’insegnante.

  23. Mi chiedo se si possa ancora parlare di noi, di loro e d’integrazione. L’islam è la prima religione d’europa. Quanti figli fanno le famiglie islamiche o più in generale religiose ? Quante figli fanno le famiglie laiche, liberali su tutto ? Io e i miei amici di media ne abbiamo due ogni otto adulti. Ancora un paio di generazioni a questo ritmo e ci estingueremo come le famiglie nobili italiane a metà settecento. Nel momento stesso in cui l’europa illuminista raggiunge la vetta del concetto di uguaglianza civica (matrimoni e adozioni gay) e rispetto delle diversità (fino a nascondere agli scolari certi passaggi della Divina Commedia sui falsi profeti), conosce, complice la crisi economica, il suo momento di declino, prima di tutto dal punto di vista dell’entusiasmo e della fiducia nel futuro. Un italiano (d’antico ceppo) su 600 si converte all’islam e credo non sia costretto da nessuno. Tra l’altro penso che per una donna mussulmana il velo significhi sottomissione a Dio, non direttamente all’uomo, per riceverne in cambio protezione. E probabilmente se avessi detto a mia nonna che era sottomessa a mio nonno solo perché ne accettava il ruolo di capofamiglia, sarebbe scoppiata a ridere. In sintesi: la cultura tradizionale appare retrograda solo a chi tradizionale non è, come me, ai tradizionalisti appare semplicemente sensata. Invece l’Europa liberal ormai non appare sensata nemmeno a molti dei suoi sostenitori. Due vettori che viaggiano in direzione opposta sui binari ma che in un modo o nell’altro finiranno per mescolarsi (un islam europeo credo che non potrà cancellare del tutto Voltaire, Mahomet, la tragedia, a parte)

  24. Caro Cucinotta,
    grazie, mi fa piacere essere d’accordo con lei.

    Grazie Alberto e Barbara :)

    Caro marKo,
    il problema non è di che cosa è simbolo il burkini, ma se è legittimo imporre un divieto a un comportamento nella sfera privata quando questo comportamento non fa del male a nessuno. Inoltre, molti (non solo islamici, non solo religiosi) le direbbero che anche l’esibizione del corpo femminile è una testimonianza della sottomissione della donna all’uomo nel mondo occidentale. Queste discussioni non portano da nessuna parte.

    Caro alberto,
    lei non sta parlando di integrazione, ma di assimilazione: quando vengono da noi, gli altri devono diventare come noi. Mi va anche bene, purché lei non pensi di essere né democratico né tollerante. Io comunque rifiuto l’assimilazione, perché anche altri potrebbero volerla imporre a me, e la cosa non mi piacerebbe.

    Caro adriano barra,
    posso dirle una cosa, con gentilezza, ma non serietà? A me sembra che i suoi commenti siano quasi sempre fuori luogo, e sicuramente lo sono quelli a questo post. Un cordiale saluto.

    Caro Daniele,
    grazie dell’apprezzamento.
    Io non credo però che la risposta alternativa a quella francese sia quella “multiculturale” intesa come “evertyhing goes”. Quella che propongo io, come tanti teorici a cui mi ispiro, cerca di identificare i punti saldi al di sotto dei quali un regime non è né liberale né democratico. Tuttavia, questi punti saldi portano al rispetto delle persone concrete, in carne e ossa, e quindi in generale al rispetto della diversità, entro limiti ben definiti. La discussione pubblica può aiutarci a diffondere un simile punto di vista, evitando due posizioni che non garantiscono l’integrazione, perché o assimilano le minoranze a un modello dominante (modello francese) o disintegrano la società in gruppi isolati (modello inglese).

    Caro Pollono,
    mi piacerebbe essere un intellettuale da poltrona, a dir la verità. Comunque altroché poltrona, io mi metto nei panni del vigile che deve fare la multa a una ragazza solo perché porta il burkini, e pensa che magari ci sarebbero cose più serie da fare, e che rischia un conflitto per niente. Lo sa che la legge francese che proibisce l’uso di burqa e niqab è stata applicata molto poco perché la polizia stessa ha affermato di trovarsi spesso in difficoltà ad applicarla?
    Comunque, parliamo di Popper, che era un noto attivista politico e non un finissimo teorico, dedito alla sola ricerca. Non così fine però nella filosofia politica, ambito in cui è stato forse sopravvalutato.
    In particolare, il paradosso della libertà è del tutto ingenuo, perché qualsiasi teorico della libertà parte dal fatto che la libertà non può ledere quella degli altri. Anche il paradosso della tolleranza è solo in apparenza raffinato, perché se si tollera lo si fa per qualche ragione (se si è indifferenti, non si ha bisogno di tollerare). Queste ragioni definiscono i limiti della tolleranza. Se io tollero per avere la tranquillità, mi va bene qualsiasi cosa che non turbi l’ordine e la pace, e reprimo ciò che invece li turba. Ma se io tollero per rispettare le persone, come deve fare una democrazia, il limite è l’eguale rispetto, appunto. Questo non implica reprimere le opinioni intolleranti, ma farlo solo quando possono essere pericolose per l’ordine pubblico e per il rispetto dei diritti eguali. In casi molto circoscritti, quindi. In ogni caso, vietare a una donna di vestirsi in un certo modo non è eguale rispetto, ma discriminazione. E se non ci sono buone ragioni per farlo, è intolleranza.

    Cara Raffaella,
    grazie per il tuo intervento, che non abbassa affatto il livello della discussione, ma lo innalza, mostrando qual è il vero problema in questa faccenda.

    Caro Daniele,
    applauso per il tuo secondo intervento, mi schiero anch’io tra gli intellettuali da poltrona allora :)
    (Comunque anch’io non ho neanche una poltrona a casa, sigh)

    Cara signora Hunziker,
    questa storia che sarei in intellettuale lontano dalla realtà comincia a scocciarmi, a dir la verità. Comunque la perdono e non la tedio con la mia biografia, e le dico solo: 1) non ho detto da nessuna parte che la libertà è illimitata, questa cosa se l’è inventata lei; 2) per liberare gli schiavi è stato proibito agli schiavisti di comprare e acquistare esseri umani, non sono stati imposti divieti agli schiavi (e non mi venga a dire che nessuno si può vendere schiavo, perché stiamo parlando di rapporti contrattuali, cosa che non c’entra niente con il costume che si indossa in spiaggia); 3) se per lei le donne musulmane non sono capaci di liberarsi da sole, allora vuol dire che per lei le donne musulmane non sono eguali a lei, perché sono meno “essere umano” di lei.
    Io ho più pieta per la gente, perché vivo (lontano dalla realtà, perbacco) facendo un casino di errori.

    Cara chris,
    sottoscrivo: lasciamo che le donne facciano la loro lotta. Ognuno costruisce la propria soggettività e fa la propria lotta. Certo, si può (si deve) essere solidali e anche agire insieme, ma non imporre paternalisticamente una visione.

    Caro Buffagni,
    la ringrazio per l’apprezzamento, ma non la seguo. A lei piacciono gli scenari catastrofici e di “grandi conflitti epocali”. A me no. Non penso che queste piccole cose siano così significative. E poi ho cercato di spiegare che non si tratta di approvare qualsiasi cosa, ma di restare nei limiti di libertà e eguaglianza senza imporre divieti inutili e senza violare quei limiti stessi. Un’idea concreta di eguaglianza, delle persone in carne e ossa, può aiutare molto a integrare le nostre società.

    Caro Pollono (secondo intervento),
    mi dimostri che quel modo di ragionare non è fondato sul pregiudizio (“se sei una donna islamica non sei libera”), e la pianti invece con questa storia di poltrone e letame.
    E guardi che se fossi un intellettuale da poltrona non sarei qui a discutere con lei.

  25. “ Mercoledì 11 giugno 2014 – È venuta l’ora di dirlo: la letteratura non esiste. Credere che esistesse è stato un abbaglio, un equivoco, una puerile aspirazione post-scolastica. Quello che c’è, che c’è sempre stato, almeno per noi, nati a metà del secolo scorso, è sempre stato qualcosa d’altro. Qualcosa che non era lettera-tura, che era contro la letteratura, che la letteratura l’ha sempre “ odiata “ – o male amata, mal aimée – mâle aimèe? -, chissà. Qualcosa di più forte della letteratura, di più potente – pre-potente. Ne abbiamo sempre avuto il sospetto, ma ora lo sappiamo con certezza: la letteratura, e chi la fa, tenta di farla, sogna di farla, è sempre stata fuori luogo, fuori tempo massimo, fuori legge. Al massimo un centro di accoglienza, una carità pelosa, una tolleranza assolutamente repressiva. Del resto, che la letteratura non è di qui si vede benissimo, basta guardarla in faccia (la faccia che non ha). “

  26. caro Piras
    Non ho detto che ” quando vengono da noi, gli altri devono diventare come noi e quindi assimilarsi. Chiedevo umilmente un piccolo sforzo di adeguarsi almeno apparentemente al nostro modo di apparire non di essere.
    Quanto al mio non essere democratico o tollerante, non so e mi interessa poco. Anche la Merkel ha detto che un certo modo di vestire non favorisce l’integrazione o forse voleva dire l’assimilazione? (errore di traduzione dei soliti giornalisti ignoranti?)

    Infine chi pensa che in un futuro prossimo a lei possa imporre l’assimilazione? Gli americani (l’hanno già fatto, i cinesi, i russi o gli islamici?
    Comunque La ringrazio di aver aperto una discussione, direi molto sentita e seguita, con analisi e considerazione interessanti

  27. Rispondo in breve, sono in viaggio.
    @ V. Cucinotta
    Non ho prove che sia una provocazione, tranne la prova indiretta della.simultaneità in molti paesi. La trovo ben riuscita, perché come reagisci sbagli. Il divieto riesce bene in Marocco, dove si è abituati a interventi polizieschi sui costumi. Qui, si finisce nel grottesco e Nell odioso.

    @ M. Piras

    A me gli scenari di grandi conflitti in verità non piacciono per niente, non amo la violenza. Se lei pensa che l’immigrazione di massa non provocherà mai conflitti apprezzabili in Europa, che dite? Spero che abbia ragione, viva l ottimismo che fa dormire meglio.

  28. “ 6 settembre 1991 – « E che scandalo! Era il 1958 quando Aiché Nanà, nel bel mezzo di una festa al Rugantino, si spoglia circondata da giovanotti della nobiltà romana che, appena un po’ scomposti, le fanno cerchio offrendole un tappeto di giacche. Tazio Secchiaroli, il famoso paparazzo della Dolce Vita, immortala tutto dall’alto di un tavolino. E quelle foto vanno su tutti i giornali. L’Espresso titola: “ La turca desnuda “ » (Dai giornali) “.

  29. @ Lo Vetere

    beh, non basterà.

    “Soprattutto, quando queste cose si affrontano con la dovuta serietà, l’ultima cosa da toccare sono i simboli estetici, i simboli culturali che afferiscono alla condivisione di un retroterra. Non si devono proibire né burqa, né turbanti, né crocifissi, né stelle di David. Questi sono oggetti simbolici che possono essere continuamente riiscritti in un orizzonte culturale postmoderno e reinterpretati, rivisti in modo diverso. Lasciarli vuol dire mettere in scena una terra di mezzo della negoziazione e della contaminazione. Le cose importanti sono altre: sono le occasioni di istruzione e di lavoro, sono le possibilità di lavoro e di sostegno giuridico in caso di aggressione, sono i centri antiviolenza e le opzioni di rifugio, sono le borse di studio e i convegni, le cose da fare sono quelle che implicano la possibilità di una libera esplorazione culturale autonoma e autodeterminata. Dialoghi tra donne per esempio, e forse, altrettanto importante, dialoghi tra uomini. Ma dialoghi, appunto.”

    https://beizauberei.wordpress.com/2016/08/18/intorno-al-burkini/

    E credo neanche questo. Bastone e carota.

    http://www.sinistra.ch/?p=5423

    https://www.theguardian.com/commentisfree/2016/aug/24/i-created-the-burkini-to-give-women-freedom-not-to-take-it-away

  30. Ciao Mauro,
    ho letto il tuo articolo su consiglio di Alberto Ferrero. Inizialmente scoraggiata dalla lunghezza dello stesso, ho comunque proseguito nella lettura fino alla fine e posso dirti di averlo trovato davvero molto interessante e soprattutto ben argomentato, grazie anche al fatto che scrivi benissimo. Condivido la linea di pensiero, che ho sempre avuto anche io e che, solo ora vedendola così ben scritta, mi appare lucida e lineare nella mente.
    Saluti
    Giusy

  31. Fermi tutti:
    il burkini non va bene nemmeno ai musulmani integralisti.
    La questione si infittisce di un nuovo capitolo. Da un lato c’è il premier francese Manuel Valls, che lo rifiuta senza se e senza ma appellandosi, con coerenza, alle leggi dello Stato francese. Dall’altro c’è Angelino Alfano, che tira in mezzo la libertà di culto e, in un modo e nell’altro, lo considera tollerabile.
    Con lui ci sono vari imam milanesi, che lo invocano come diritto / forma di rispetto.
    E infine, tanto per complicare le cose, ci sono i salafiti – i super-integralisti del Corano, gli islamici duri e puri.

    Come aveva già segnalato tempo fa sul suo account twitter, Abu Hammâd Sulaiman Al-Hayiti, esponente di spicco dei salafiti di Montreal, il burkini è un falso problema: non può essere permesso (e fanno bene in questo senso le leggi che lo proibiscono) perché è contrario alla Sharia. Così semplice.
    Ma sarà vero? La polizia francese per impedire il burkini sulle spiagge potrebbe usare pattuglie salafite !!!
    Ai visto mai che questo burkini se lo mettono tutte, anche le non mussulmane in cerca di visibilità?

  32. In epistemologia , il dis-velamento della verità passa anche attraverso le ragioni del corpo.

  33. @ Raffaella

    Non vedo luminose prospettive di espansione mondiale per l’iniziativa della “Moschea Mariam” di Copenaghen.

    P.S.: “Mariam” è la Madonna, venerata anche dagli islamici come modello di femminilità maternità, e come madre di Gesù, che per l’Islam è un grande profeta (l’ultimo prima di Maometto).

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