di Daniele Giglioli
[Da qui a settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Ripubblicheremo alcuni interventi usciti qualche tempo fa. Quello che segue è stato pubblicato il 1 febbraio 2016.
Questo saggio è uscito su «Il Verri»].
Ma io non so proprio come fare, o Socrate, a dirti quel che ho in mente: perché qualunque definizione ci mettiamo davanti, ci gira sempre dattorno, e non c’è verso che voglia star ferma nel punto dove la mettiamo.
Platone, Eutifrone
I)
Innumerevoli sono in Barthes le definizioni di letteratura: un censimento completo terrebbe più dell’indice dei nomi che delle materie. E ancora più abbondante diventa il raccolto se non ci si limita alla forma della definizione propriamente detta (la letteratura è…) e si decide di includervi anche le definizioni indirette, o implicite, o inferenziali sulla base del modello “se/allora”.
Abbondanza che potrebbe sorprendere in un autore nemico di ogni irrigidimento del significato come Barthes, che fiutava nella pretesa di rendere stabile e definitivo il senso la sua bestia nera, lo stereotipo, la naturalizzazione, il segno pletorico che non si riconosce come tale e aspira a confondersi con la cosa o peggio ancora con la sua essenza immutabile. Ma in realtà, ciononostante e anzi forse proprio per questo, l’opera di Barthes pullula di definizioni (non riferite ovviamente solo alla letteratura): rileggerla in questa chiave porterebbe senza dubbio alla luce un segmento significativo di quella che Proust avrebbe chiamato “la grande ossatura inconscia” dello stile di uno scrittore per altri versi così amante del flou, del neutro e del senso perennemente in sospensione.[1] In nessun altro caso, tuttavia, la tensione tra i due poli – precisione lessicografica e latitudine semantica – ha raggiunto la divaricazione che si riscontra quando si ricostruisce la vicenda del lemma “letteratura” dai suoi primi ai suoi ultimi scritti.
A leggerle in sequenza, le molteplici definizioni di letteratura offerteci da Barthes testimoniano di una perpetua indecisione, insoddisfazione, perplessità, attrazione e ripulsa, accettazione e condanna, fascinazione e sospetto, che non è saggio liquidare frettolosamente col semplicismo di cui danno prova i più generosi dei suoi detrattori e i più zelanti dei suoi fedeli: più scrittore che critico, più artista che scienziato, la letteratura è stata la sua tentazione e la sua vocazione mai riconosciuta fino in fondo… Non è forse vero che “scriveva bene?” (frase fatta che Barthes peraltro detestava). Perché chiedergli geometria quando aveva tanta finezza? Non aveva lui stesso proclamato intorno al 1968, e cioè al tempo del suo momento teorico più estremista, l’indifferenza di critica e letteratura, entrambe destinate a dissolversi nel flusso senza origine dell’écriture?
Ritorneremo su questo, né sarà possibile ignorare come nei suoi anni più tardi Barthes si sia interrogato circa l’opportunità di dedicarsi a un tipo di scrittura più tradizionalmente “creativa” (altro termine che non sopportava). Ma non in modo innocente, e sarà stato forse anche per questo che non lo ha mai fatto, almeno fino a che la morte improvvisa non gli ha tolto la parola. Prima però è necessario interrogarsi sulla sua idea di letteratura esaminandola come qualcosa che non inerisce inestricabilmente alla biografia – al corpo, avrebbe detto Barthes – di colui che la maneggia. La definizione è una forma che può includere tutto tranne che il “per me”, se “per me” non si intende il più anodino “a mio parere” ma il più radicale e compromettente “nella mia vita, nella mia esperienza”: è una proposta che vale per tutti in quanto trascende il soggetto che la proferisce. Occorre dunque chiedersi in primo luogo come Barthes abbia contribuito a definire la letteratura a prescindere dal rapporto esistenziale che ha intrattenuto con essa, e poi quanto quel rapporto abbia invece interagito e retroagito su ciò che si pretendeva enunciato a prescindere da ogni istanza individuale.
Quello che segue è un dossier delle sue definizioni di letteratura, deliberatamente incompleto e compendiario rispetto alla mole del materiale raccolto. Lo si presenta in ordine cronologico, non ancora organizzato in vista di una possibile sintesi (una definizione regina che ricapitoli e sussuma tutte le altre) o di un’ipotesi di evoluzione lineare del concetto, come apparirà immediatamente chiaro se si tiene l’occhio sui ritorni, le correzioni, le contraddizioni e anche le incongruenze vere o apparenti. Il lettore che lo trovasse troppo lungo può saltare direttamente alle conclusioni (Barthes per primo approvava e praticava la lettura frammentaria e incompleta); ma nel caso in questione credo che sarebbe un peccato.
II)
1952: Jean Cayrol et ses romans:
– “L’istituzione della Letteratura”.
– “L’atto più umano che ci sia, la Letteratura, perché è il fatto di cogliere il tempo a distinguere l’uomo dall’animalità”.
– “La Letteratura è una pratica della sociabilità – o della carità, se si vuole, perché la sua elaborazione non differisce dal Tempo di cui rende conto; la creazione del destino e la creazione del romanzo sono l’unico e il medesimo movimento di un uomo che vuole collocare teneramente la propria durata lungo il Tempo generale degli altri”.[2]
1953: Le Degré zero de l’écriture:
– “Linguaggio rituale”.
– “Quest’ordine sacrale di segni scritti pone la Letteratura come una istituzione e tende evidentemente ad astrarla dalla Storia, perché nessuna chiusura si fonda senza un’idea di perennità”.
– Con il crollo della “scrittura classica”, dopo il 1850, “la Letteratura, da Flaubert, ai nostri giorni, è divenuta una problematica del linguaggio”, il che l’ha “consacrata definitivamente come un oggetto”, anche se in Mallarmé già si assiste a una “distruzione del linguaggio di cui la Letteratura non sarebbe che il cadavere”.
– “Non c’è Letteratura senza una Morale della forma”.
– Letteratura che “si affretta verso un linguaggio sognato la cui freschezza, tramite una sorta di anticipazione ideale, figurerebbe la perfezione di un linguaggio non alienato”.
– “La moltiplicazione delle scritture instituisce una Letteratura nuova nella misura in cui non inventa il suo linguaggio che per essere un progetto: la Letteratura diventa L’Utopia del linguaggio”.[3]
1953, Oui, il existe bien une littérature de gauche:
– “Si può anche perfino dire che la letteratura di sinistra consolida e sviluppa in sé tutto ciò che non è letteratura, che essa mira a quel grado ultimo in cui la letteratura non sarebbe che altro che la forma rituale della propria messa in questione e il passaggio diretto dal dominio dell’espressione al mondo reale della Storia. Se mai questo momento arrivasse, è possibile che la letteratura muoia. Ma perché si sarà trasformata in Storia”.[4]
1955: Littérature littérale (recensione al Voyeur di Robbe-Grillet).
– Robbe-Grillet scrive da un “margine stretto e mortale”, il solo che produce le opere che contano, in cui “la letteratura vuole distruggere se stessa senza poterlo, e si coglie in uno stesso movimento, distruttrice e distrutta”.
– “Nella congiuntura sociale del tempo presente, la letteratura non può essere insieme in accordo col mondo e in anticipo su di lui, come conviene a ogni arte del superamento, che in uno stato di pre-suicidio permanente: non può esistere che sotto la figura del suo proprio problema, castigatrice e persecutrice di se stessa”.[5]
1957, La Littérature selon Minou Drouet, in Mythologies.
– “La Letteratura non comincia però che davanti all’innominabile, di fronte alla percezione di un altrove straniero al linguaggio stesso che lo cerca”.
– “Una lacrima per Minou Drouet, ed eccoci sbarazzati della Letteratura”.[6]
1959, Littérature et métalangage:
– Il nostro secolo verrà un giorno definito come quello del: Che cos’è la letteratura? Ma Sartre vi ha risposto dall’esterno, la sua posizione letteraria resta ambigua. La vera domanda viene invece dall’interno, “al suo limite estremo, in quella zona asintotica dove la letteratura dà mostra di distruggersi come linguaggio oggetto senza distruggersi come metalinguaggio, e dove la ricerca di un metalinguaggio si definisce in ultima istanza come un nuovo linguaggio oggetto”.
– Da un secolo la nostra letteratura “è un gioco pericoloso con la propria morte, cioè una maniera di viverla”.
– Statuto tragico, impasse storica che non lascia alla letteratura che “la domanda edipica per eccellenza: chi sono? Le interdice con lo stesso movimento la domanda dialettica: che fare? La verità della nostra letteratura non è nell’ordine del fare, ma non è già più nell’ordine della natura: è una maschera che si segna a dito”.[7]
1959, Zazie et la Littérature:
– “Da quando la ‘Letteratura’ esiste (se si giudica dal nome, da molto poco tempo), si può dire che la funzione dello scrittore è quella di combatterla”.
“Non si tratta di fare la lezione alla Letteratura, ma di vivere con lei in stato di insicurezza”.
“La Letteratura è il modo stesso dell’impossibile, perché lei sola può dire il proprio vuoto, e dicendolo, fonda di nuovo una pienezza”.[8]
1960, La réponse de Kafka (recensione a Marthe Robert, Kafka):
– “La letteratura non è che mezzo, sprovvisto di causa e fine”.
– Chiedersi perché si scrive è un progresso rispetto alla beata incoscienza, ma è un progresso disperato e senza risposte: “L’atto letterario è senza causa e senza fine esattamente perché è privato di ogni sanzione: si propone al mondo senza che alcuna praxis venga a fondarlo o a giustificarlo: è un atto assolutamente intransitivo, non modifica niente, niente lo rassicura”.
– “Per lo scrittore, la letteratura è quella parola che dice fino alla morte: io non comincerò a vivere prima di sapere qual è il senso della vita”.
– Lo scrittore è impegnato nel mondo non in una o nell’altra delle sue opzioni, ma “nella sua stessa defezione: è perché il mondo non è fatto che la letteratura è possibile”.[9]
1960, Ecrivains et écrivants:
– Intransitività dello scrittore, finalità pratiche dello scrivente: ”La parola dello scrittore è una merce proposta secondo dei circuiti secolari, è l’unico oggetto di una istituzione che non è fatta che per lei, la letteratura”.[10]
1961, La littérature, aujourd’hui:
– Ruolo non assertivo ma interrogativo della letteratura: “la letteratura diventa allora il segno (e forse il solo segno possibile) dell’opacità storica in cui viviamo soggettivamente; ammirevolmente servito da questo sistema significante ingannevole che, a mio avviso, costituisce la letteratura, lo scrittore può allora nello stesso tempo impegnare la sua opera nel mondo, nelle domande del mondo, ma sospendere questo impegno precisamente là dove le dottrine, i partiti, i gruppi e le culture gli soffiano una risposta”.
– Lo scrittore si impegna in una interrogazione che “non è: qual è il senso del mondo, né può essere: il mondo ha un senso?, ma: ecco il mondo: c’è del senso in lui?. La letteratura è allora verità, ma la verità della letteratura è nello stesso tempo questa stessa impotenza a rispondere alle domande che il mondo si pone sulle sue sventure, e questo potere di porsi delle domande reali, delle domande totali, la cui risposta non sia presupposta, in un modo o nell’altro, nella forma stessa della domanda: impresa in cui nessuna filosofia, forse, è riuscita, e che appartiene allora, davvero, alla letteratura”.
– “La letteratura non è che linguaggio, il suo essere è nel linguaggio”. Ma il linguaggio è già un sistema di senso, un ritaglio discontinuo nel continuum del reale: è in questa “zona di sovrasignificazione, di significazione seconda, che va a istallarsi e a svilupparsi la letteratura. Detto altrimenti, quanto al rapporto con gli oggetti in sé, la letteratura è fondamentalmente, costitutivamente irrealista; la letteratura è l’irreale stesso; o, più esattamente, ben lungi dall’essere una copia analogica del reale, la letteratura è al contrario la coscienza stessa dell’irreale nel linguaggio; la letteratura più “vera”, è quella che si sa la più irreale, nella misura in cui si sa essenzialmente linguaggio, è questa ricerca di uno stadio intermedio tra le cose e le parole, è questa tensione di una coscienza che è insieme supportata e limitata dalle parole, che dispone attraverso di esse di un potere insieme assoluto e improbabile”.[11]
1963, L’activité structuraliste:
– L’artista dice il luogo del senso, ma non lo nomina. “Ed è perché la letteratura, in particolare, è una mantica, che essa è a un tempo intellegibile e interrogante, parlante e silenziosa, impegnata nel mondo tramite il cammino del senso che essa rifà con lui, ma liberata dei sensi contingenti che il mondo elabora; risposta a colui che la consuma e tuttavia sempre domanda alla natura, risposta che interroga e domanda che risponde”.[12]
1963, Littérature et signification:
– La letteratura è fatta con una materia già significante, il linguaggio, ma che serve a tutt’altro scopo da quello della letteratura: comunicare. “I dissidi del linguaggio e della letteratura formano in qualche modo l’essere stesso della letteratura: strutturalmente, la letteratura non è che un oggetto parassita del linguaggio”. Ma “è il sistema parassita a essere principale, perché detiene l’intellegibilità ultima dell’insieme; altrimenti detto, è lui a essere il “reale”.
– “La letteratura non permette di marciare, ma permette di respirare”.
– “La letteratura è Orfeo che risale dagli inferi; finché procede davanti a sé, sapendo tuttavia che sta conducendo qualcuno, il reale che è dietro di lei e che essa trae a poco a poco dall’innominato, respira, cammina, vive, si dirige verso la chiarezza di un senso; ma appena si rivolta verso colei che ama, non le resta tra le mani che un senso nominato, cioè un senso morto”.
– “Dal momento in cui il linguaggio cessa di essere incorporato in una prassi, dal momento il cui si mette a raccontare, a recitare il reale, divenendo così un linguaggio per sé, si ha l’apparizione di sensi secondi, rovesciati e fuggenti, e di conseguenza l’istituzione di qualcosa che noi chiamiamo precisamente letteratura anche quando parliamo di opere prodotte da tempi in cui la parola non esisteva”.
– “La letteratura è stata in ogni tempo, in virtù della sua tecnica stessa (che è il suo essere), un sistema di senso posto e deluso”; è questa la sua “natura antropologica”.[13]
1963, Sur Racine:
– La storia della letteratura è la storia dell’idea di letteratura. Ontologia storica: “L’essere della letteratura ricollocato nella storia non è più un essere”.
– “Desacralizzata (…), la letteratura diventa una delle grandi attività umane”.
– “Statuto speciale della letteratura”, suo “paradosso”: “la letteratura è quell’insieme di oggetti e di regole, di tecniche e di opere, la cui funzione nell’economia generale della nostra società è precisamente quella di istituzionalizzare la soggettività”.[14]
1966, Critique et verité:
– “La letteratura è esplorazione del nome (…). In fondo, lo scrittore reca sempre in sé la credenza che i segni non sono arbitrari e che il nome è una proprietà naturale della cosa: gli scrittori sono dalla parte di Cratilo, non di Ermogene”.
– “L’oggetto letterario, che è un oggetto scritto”.[15]
1967, De la science à la littérature:
– Per la letteratura, il linguaggio non è un strumento come per la scienza: “il linguaggio è l’essere della letteratura, il suo stesso mondo: tutta la letteratura è contenuta nell’atto di scrivere, e non più in quello di ‘pensare’, di ‘dipingere’, di ‘raccontare”, di ‘sentire’”.
– Tecnicamente, eticamente, politicamente, “la letteratura si trova oggi da sola a portare intera la responsabilità del linguaggio”.
– “Il ruolo della letteratura è di rappresentare attivamente all’istituzione scientifica ciò che essa rifiuta, e cioè la sovranità del linguaggio”. Se lo strutturalismo si assumerà non più come formalizzazione o come metalinguaggio, ma come “scrittura integrale”, allora “la scienza diventerà letteratura, perché la letteratura è già, è sempre stata la scienza. Ciò che le altre scienze stanno scoprendo, la letteratura l’ha sempre saputo: solo che non lo ha detto, lo ha scritto”.[16]
1968, Linguistique et littérature:
– “La letteratura, tecnica di certe forme del linguaggio”.
– “La scrittura (in via di essere ormai opposta alla letteratura)”.[17]
1968, Al lettore italiano, premessa all’edizione italiana di Critica e verità:
– Scrittura senza origine e senza classi, spazio di dissolvimento del soggetto nel linguaggio: “solo regna dovunque e da parte a parte il Testo”.
– “Nel momento in cui nasce una scienza della scrittura, che è la scrittura stessa, muoiono ogni Letteratura e ogni Critica”.[18]
1969, Entretien
– “La Letteratura o ciò che sta prendendo il suo posto non può ricevere una definizione semplicemente funzionale o istituzionale. La vera questione per la letteratura è una questione di posto nell’insieme dei sistemi di significazione di una civiltà: è una questione topologica, e non funzionale”.[19]
1969, Réflexions sur un manuel.
– Può la letteratura essere per noi “altra cosa che un ricordo d’infanzia?”
– “L’insegnamento della letteratura è per me quasi tautologico. La letteratura è quello che si insegna, punto e basta. E’ l’oggetto di un insegnamento”.[20]
1970, S/Z:
– “Perché lo scrivibile è il nostro valore? Perché la posta in gioco del lavoro letterario (della letteratura come lavoro) è di fare del lettore non più un consumatore ma un produttore del testo. La nostra letteratura è segnata dal divorzio inesorabile che l’istituzione letteraria mantiene tra il fabbricante e l’utente del testo, il suo proprietario e il suo cliente, il suo autore e il suo lettore”.
– “Il testo unico vale per tutti gli altri testi della letteratura non in quanto li rappresenta (li astrae e li parifica) ma in quanto la letteratura stessa non è altro che un unico testo: il testo unico non è accesso (induttivo) a un Modello, ma ingresso di una rete a mille ingressi”.[21]
1970, Préface à L’Encyclopédie Bordas, VIII: L’Aventure littéraire de l’umanité, I.
– La letteratura è a un tempo stesso servile e contestatrice, si può descrivere ma non spiegare. Perché? “Se la letteratura resiste al sapere – sia che lo ecceda sia che lo inganni – è forse per una ragione logica molto semplice: la letteratura è essa stessa un sapere”. La letteratura può sostituire tutte le scienze dell’uomo, è un multiplo compendio di saperi, impuro, diffuso, spesso parodico: differisce dalla scienza perché è interno al linguaggio, è una “critica del linguaggio”. [22]
1974 Où/ou va la littérature? Dialogue avec M Nadeau.
– La letteratura è un concetto flou, vasto, ma non intemporale: “un insieme di pratiche e di valori in una società data”.
– La letteratura è una sorta di “imitazione generale dei linguaggi”. “La pratica letteraria non è una pratica di espressione, di espressività, di riflesso, ma una pratica di imitazione, di copia infinita” in un “immenso intertesto”.
– La letteratura, ma meglio sarebbe parlare di scrittura o di testo, “è sempre una perversione, cioè una pratica che mira a far vacillare il soggetto, a dissolverlo, a disperderlo a contatto con la pagina. Per molto tempo, dato che l’ideologia dell’epoca era una ideologia della rappresentazione, della figurazione, ciò si è prodotto nelle opere classiche in modo indiretto; ma in realtà, c’era già in quel momento della scrittura, cioè della perversione”.
– “A partire dal momento in cui c’è pratica di scrittura, ci si trova in qualcosa che non è più del tutto letteratura, nel senso borghese del termine. Io chiamo questo testo, cioè una pratica che implica la sovversione dei generi”.
– “Per parte mia, io ho una certa idea utopica della letteratura, o della scrittura, di una scrittura felice” che viaggia in un circuito non mercantile, tra piccoli gruppi di amici.[23]
1975, Roland Barthes par Roland Barthes
– La letteratura era una Mathesis, un sapere. Ma il mondo di oggi prevede troppe sorprese e informazioni, il realismo è timido, il sapere sfugge la letteratura, che non può più essere “né Mimesis né Mathesis, ma soltanto Semiosis, avventura dell’impossibile linguistico, in una parola: Testo (è falso dire che la nozione di “testo” duplica quella di “letteratura”: la letteratura rappresenta un mondo finito, il testo figura l’infinito del linguaggio: senza sapere, senza ragione, senza intelligenza”).[24]
1975, Littérature/enseignement
– Si può insegnare la letteratura? “Non bisogna insegnare che questo. Si può chiamare ‘letteratura’ un corpus di tesi sacralizzati ma anche classificati tramite un metalinguaggio (la ‘storia della letteratura’), cioè un corpus di testi passati che si estendono dal sedicesimo al ventesimo secolo” (…). Questa letteratura è stata fino al ventesimo secolo una mathesis: un campo completo del sapere,” diverso dalla scienza, certo, ma pur sempre un sapere.
– E’ un pregiudizio dire che la letteratura mente. Ma l’inverso di mentire non è dire la verità. Occorre dislocare la questione: la letteratura è piuttosto una “mediatrice di saperi”.
– Dal XX secolo le cose cambiano. La letteratura, il testo, non possono più coincidere con questa funzione di mathesis, per tre motivi: il mondo è divenuto “planetario”, c’è troppa informazione e troppo parcellizzata, il mondo è di oggi è troppo sorprendente e il sapere non più omogeneo; anche la scienza è plurale. Questo determina per esempio il tramonto del romanzo realista: “I testi tentano allora di costituire una semiosis, cioè una messa in scena della significanza. (…) Per secoli, la letteratura è stata insieme una mathesis e una mimesis, con suo metalinguaggio correlativo: il riflesso. Oggi il testo è una semiosis, cioè una messa in scena del simbolico, non del contenuto, ma delle deviazioni, dei ritorni, in breve dei godimenti del simbolico. E’ probabile che la società resista alla semiosis, a un mondo che sarebbe accettato come un mondo di segni, cioè senza niente dietro”.[25]
1976, Préface à L’Encyclopédie Bordas, IX: L’Aventure littéraire de l’umanité, II
– Letteratura come “linguaggio a parte: sorvegliato nel momento stesso in cui è dignificato, questo linguaggio escluso designa evidentemente una pratica di significazione che eccede la semplice finalità di comunicazione alla quale la scienza riduce ordinariamente il linguaggio. Esiste dunque una identità mondiale della letteratura, che attiene alla costanza della sua situazione in mezzo agli altri linguaggi. Ma questo non deve illuderci: la letteratura non è un fatto universale che da un punto di vista molto elevato, molto formale”. Più importante della sua unità, soprattutto per noi europei col nostro senso di superiorità, è allora la sua “dispersione”: esistono altre letterature.[26]
1976, Préface sous la forme d’entretien à Littérature occidentale, Paris, Laffont, 1976
– “La letteratura è compenetrata di socialità”.[27]
1977, Leçon
– “Il linguaggio è una legislazione e la lingua è il suo codice”. La lingua obbliga a dire, il senso è tale solo se viene riconosciuto, il segno è sempre gregario, in ogni segno si annida il mostro dello stereotipo. Il linguaggio non ha un fuori, se ne può uscire solo attraverso l’impossibile, la singolarità mistica di Kierkegaard o l’amen di Nietzsche: “Ma a noi, che non siamo cavalieri della fede né superuomini, non resta altro, se così posso dire, che barare con la lingua, che truffare la lingua. Questa truffa salutare, questa schivata, questo magnifico tranello che permette di concepire la lingua fuori dal potere, nello splendore di una rivoluzione permanente del linguaggio, io la chiamo per parte mia: letteratura”.
– “Per letteratura io non intendo tanto un corpus o una serie di opere, né una branca del commercio del commercio o dell’insegnamento, ma il grafico complesso delle tracce di una pratica: la pratica di scrivere. Ho di mira dunque, in essa, essenzialmente il testo, cioè il tessuto di significanti che costituisce l’opera, perché il testo è l’affioramento stesso della lingua, e perché è all’interno della lingua che ala lingua deve essere combattuta, sviata: non tramite il messaggio di cui è lo strumento, ma attraverso il gioco delle parole di cui essa è teatro. Posso dunque dire indifferentemente: letteratura, scrittura o testo. Le forze di libertà che sono insite nella letteratura non dipendono dalla persona civile, dall’impegno politico dello scrittore, che, dopo tutto, non è che un ‘signore’ come tutti gli altri, né dal contenuto dottrinale della sua opera, ma dal lavoro di dislocazione che egli esercita sulla lingua. (…) Ciò che cerco di mettere a fuoco qui è una responsabilità della forma; ma questa responsabilità non può essere valutata in termini ideologici – è per questo che le scienze dell’ideologia hanno sempre avuto così poca presa su di essa. Di queste forze della letteratura, voglio indicarne tre, che classificherò sotto tre nomi greci: Mathesis, Mimesis, Semiosis”.
– Mathesis. La letteratura prende in carico tutti i saperi, e in questo è “assolutamente, categoricamente realista: è la realtà, cioè il bagliore stesso del reale. Tuttavia, e in ciò è veramente enciclopedica, la letteratura fa ruotare i saperi, non ne fissa, non ne feticizza nessuno; offre loro una collocazione indiretta, e questo indiretto è prezioso. Da una parte, permette di designare dei saperi possibili – insospettati, incompiuti: la letteratura opera negli interstizi della scienza (…). Dall’altra parte, il sapere che essa mobilita non mai né intero né ultimo: la letteratura non dice di sapere qualcosa, ma di sapere di qualcosa; o meglio: che ne sa qualcosa, che la sa lunga sugli uomini. Ciò che essa conosce sugli uomini è ciò che si potrebbe chiamare il grande guazzabuglio del linguaggio (gachis: caos, ma anche spreco. Ndr.), che essi lavorano e che li lavora, sia che essa riproduca la diversità dei socioletti, sia che a partire da questa diversità, di cui sente la lacerazione, immagini e cerchi di elaborare un linguaggio-limite che ne sarebbe il grado zero. Per il fatto che mette in scena il linguaggio, essa innesta il sapere nell’ingranaggio della riflessività infinita: attraverso la scrittura, il sapere riflette senza posa sul sapere, sulla base di un discorso che non è più epistemologico, ma drammatico.
– Mimesis. “La seconda forza della letteratura è la sua forza di rappresentazione. Dall’antichità fino ai tentativi dell’avanguardia, la letteratura si affaccenda a rappresentare qualcosa. Che cosa? Dirò brutalmente: il reale. Il reale non è rappresentabile, ed è perché gli uomini vogliono rappresentarlo senza sosta con delle parole che esiste una storia della letteratura. Che il reale non sia rappresentabile – ma soltanto dimostrabile – può essere detto in molti modi: sia che con Lacan lo si definisca come l’impossibile, ciò che non può essere attinto e sfugge al discorso, sia che in termini topologici si constati che non si può far coincidere un ordine pluridimensionale (il reale) con un ordine unidimensionale (il linguaggio). Ora, è precisamente a questa impossibilità topologica che la letteratura non vuole, non vuole mai arrendersi. Del fatto che non ci sia alcun parallelismo tra il reale e il linguaggio, gli uomini non se ne fanno una ragione, ed è questo rifiuto, forse vecchio come il linguaggio stesso, a produrre, in un affaccendamento incessante, la letteratura. Si potrebbe immaginare una storia della letteratura, o, per meglio dire, delle produzioni di linguaggio, che fosse la storia degli espedienti verbali, spesso assai folli, di cui gli uomini si sono serviti per ridurre, addomesticare, negare, o al contrario assumere ciò che è sempre un delirio, e cioè la fondamentale inadeguatezza del linguaggio e del reale. Dicevo poc’anzi, a proposito del sapere, che la letteratura è categoricamente realista, in quanto non ha mai altro che il reale per oggetto di desiderio; dirò adesso, senza contraddirmi perché impiego qui la parola nella sua accezione corrente, che essa è altrettanto ostinatamente: irrealista: crede sensato il desiderio dell’impossibile. Questa funzione, forse perversa, dunque felice, ha un nome: è la funzione utopica”.
– Semiosis. La funzione utopica non preserva dal potere, che può sempre impadronirsi dell’utopia della lingua facendone la lingua dell’utopia, un genere come un altro, e recuperando la perversione dello scrittore attraverso la canonizzazione o la moda. Contro di ciò, lo scrittore non può fare altro che “spostarsi, o ostinarsi, o le due cose assieme. Ostinarsi vuol dire affermare l’Irriducibile della letteratura: ciò che, in essa, resiste e sopravvive ai discorsi stereotipati che la circondano: le filosofie, le scienze, le psicologie; agire come se fosse incomparabile e immortale. Uno scrittore – intendo con questo non il titolare di una funzione o il servitore di un’arte, ma il soggetto di una pratica – deve avere l’ostinazione della sentinella che se ne sta al crocevia di tutti gli altri discorsi, in posizione triviale rispetto alla purezza delle dottrine (trivialis, è l’attributo etimologico della prostituta che attende al crocicchio tra tre vie). Ostinarsi vuol dire insomma mantenere verso e contro tutto la forza di una deriva e di un’attesa. Ed è precisamente perché si ostina che la letteratura è portata a spostarsi (…). Spostarsi può dunque voler dire: trasferirsi dove non si è attesi o, ancora più radicalmente, abiurare da ciò che si è scritto (ma non necessariamente da ciò che si è pensato). (…) Ostinarsi e spostarsi al tempo stesso dipende in sostanza da un metodo di gioco. Così, non bisogno stupirsi se, all’orizzonte dell’anarchia linguistica – dove la lingua tenta di sfuggire al suo proprio potere, alla sua propria servilità – si trova qualcosa che ha attinenza col teatro (…) Si può dire che la terza forza della letteratura, la sua forza propriamente semiotica, è quella di recitare (jouer: recitare ma anche giocare. Ndr.) i segni piuttosto che di distruggerli, è di metterli in una macchineria di linguaggio i cui congegni a scatto e i cui sono fermi di sicurezza sono saltati, in breve è di istituire, nel seno stesso della lingua servile, una vera eteronimia delle cose”.[28]
1977 Fragments pour H., 10 dicembre 1977
– “Ma io vivo secondo la letteratura, cerco di vivere secondo le sfumature che mi insegna la letteratura”.
– “Un effetto di letteratura si produce quando la letteratura (la lingua ben fatta) modifica qualcosa nel reale. Rinviato dalle parole al disgusto di ‘la mia lingua sulla sua pelle’, è troppo poco dire che io rinuncio a lui: io rinuncio a me stesso; io mi accingo a dimenticare il mio corpo”.[29]
1977, Le Neutre. Cours et séminaires au Collège de France (1977- 1978)
– La letteratura, “codice delle sfumature” e “signora delle sfumature”, implica come “progetto etico” quello di “cercare di vivere secondo le sfumature che la letteratura (ci) insegna”.[30]
1977-78, Journal de deuil
– 31 ottobre 1977: “Non voglio parlarne per paura di fare della letteratura – o senza essere sicuro che non ce ne sarà – benché in effetti la letteratura si origini da queste verità”.
– 1 agosto 1978: “La letteratura è questo: io non posso leggere senza dolore, senza soffocazione di verità, tutto ciò che Proust scrive nelle sue lettere sulla malattia, il coraggio, la morte di sua madre, il suo strazio, etc.”[31]
1978, Longtemps, je me suis couché de bonne heure
– A partire dalla rappresentazione di due lutti, in Tolstoj e in Proust: “All’improvviso la letteratura (perché è di lei che si tratta) coincide assolutamente con una lacerazione emotiva, un ‘grido’. […] Il ‘momento di verità’ non ha niente a che vedere con il ‘realismo’ (è d’altronde assente in tutte le teorie del romanzo). Il ‘momento di verità’, a voler supporre che si accetti di farne una nozione analitica, implicherebbe un riconoscimento del pathos, nel senso semplice, non peggiorativo del termine, e la scienza della letteratura, cosa bizzarra, riconosce male il pathos come forza di lettura”.[32]
1979, Vita Nova
– 21 agosto: “La letteratura come delusione (era una Iniziazione).”
– 22 agosto: “La letteratura come sostituto (parola illeggibile, forse “expansion” per il curatore Eric Marty) dell’amore”. “Letteratura: non si tratta che di una iniziazione? Delusioni, impotenze?”[33]
1979, La Préparation du roman (I et II). Cours et séminaires au Collège de France (1978-79 et 1979-1980)
– “Ritorno in effetti a questa idea semplice, e nel complesso intrattabile, che la “letteratura” (perché in fondo il mio progetto è “letterario”) si fa sempre con la vita”.
– “Perché la letteratura, nei suoi momenti perfetti (l’eidetica della letteratura) tende a far dire ‘è questo, è proprio questo!’”.[34]
III)
Al lettore che, terminata la lettura del dossier, si proclamasse disorientato, sarebbe difficile dar torto. Il disorientamento è anche la sensazione che prevale in chi si è assunto qui il ruolo dello scriptor, il copista che trascrive senza aggiungere nulla, e del compilator, che inserisce piccole integrazioni di chiarimento a fini di servizio, ma esita ad assurgere al rango del commentator, che azzarda qualcosa di suo per mettere ordine, per non parlare di quello dell’auctor, che si prende la responsabilità di intervenire con alcune idee proprie, giusta la tassonomia che Barthes aveva fatto mettere in calce all’edizione italiana di S/Z.[35]
Disorientamento che non scema e anzi si accresce quando, rivolgendosi in cerca di chiarimenti al metodo classico dei luoghi paralleli, ci si rende conto di come Barthes abbia applicato anche ad altri oggetti le definizioni che aveva attribuito alla letteratura.
A) La formula della letteratura come “qualcosa che si insegna” era stata ascritta in un saggio del 1967 alla scienza, di cui la letteratura dovrebbe essere l’altro se non l’opposto: “la scienza, è ciò che si insegna”.[36]
B) La letteratura, “parassita del linguaggio” o “istituzionalizzazione della soggettività”? Ma non è già il linguaggio stesso, si era chiesto Barthes nel 1960, “questo paradosso: l’istituzionalizzazione della soggettività”?[37]
C) L’”eidetica della letteratura” è quando essa riesce a far dire “è questo, è proprio questo”, scrive Barthes in La Préparation du roman. Ma la stessa cosa con le stesse parole (e nello stesso anno) viene detta di un’arte diversa, un’arte appartenente per di più a tutt’altro regime di segni, la fotografia, se è vero, per mutuare la terminologia di Peirce, che il segno fotografico è “indice” e non “simbolo”, come invece tutto ciò che si fa col linguaggio verbale: “La fotografia è il Particolare assoluto, la Contingenza sovrana, opaca e come idiota, il Tale (tale foto, e non la Foto), in breve la Tyche, l’Occasione, l’Incontro, il Reale, nella sua espressione infaticabile. Per designare la realtà, il buddismo dice sunya, il vuoto; ma meglio ancora: tathata, il fatto di essere tale, di essere così, di essere questo; tat vuole dire in sanscrito questo e farebbe pensare al gesto del bambino piccolo che designa qualcosa a dito e dice: Ta, Da, Ça! Una fotografia si trova sempre in capo a questo gesto: essa dice: questo, è questo, è proprio questo!”[38]
Il che farebbe magari concludere a un filologo che, tramite queste “varianti”, Barthes ha progressivamente messo a fuoco il suo pensiero; a un filosofo che per Barthes la letteratura è la stessa cosa del linguaggio, della scienza e della fotografia, giacché a rigore cose suscettibili della stessa definizione devono necessariamente essere identiche tra loro (dopo di che il filosofo scapperebbe con ogni probabilità a gambe levate); al maligno che Barthes aveva in testa una gran confusione.
Più saggio (e più barthesiano) sarebbe forse allora lasciare questo testo alla sua pluralità, al suo molteplice, alla sua dispersione, accettandone le discontinuità e gli scarti, che sono logici prima che cronologici e non possono essere semplicisticamente ricondotti alla circostanza empirica che Barthes cambiava spesso idea, amava farlo e ne rivendicava il diritto, né riassorbiti riconducendoli a una serie di “fasi” che Barthes ha successivamente attraversato, magari col corredo delle relative influenze cui la sua idea di letteratura è stata esposta: quella di Sartre, quella di Brecht, quella più sottotraccia e meno accusata di Maurice Blanchot, il fiancheggiamento del Nouveau Roman prima e di “Tel Quel” poi, il periodo strutturalista ortodosso e quello eversivo dell’écriture, per arrivare al progressivo appeasement con una letteratura che, dopo un’eclissi durata alcuni anni in cui Barthes tende a sussumerla nel concetto di scrittura, ritorna surrettiziamente in auge fino alla brusca svolta intervenuta in seguito al lutto per la morte della madre, quando nei suoi testi prendono a comparire formule che potrebbero suonare come una schietta palinodia di quanto asserito per decenni, la letteratura come “grido”, la letteratura come “sostituto” della presenza/assenza del referente, la letteratura che “si fa con la vita”, compromissione scandalosa con una prosopopea della carità e della tenerezza che lo riconduce circolarmente a quanto aveva scritto nella recensione a Jean Cayrol del 1952, con cui abbiamo aperto il dossier.
Barthes come Picasso, un periodo blu, un periodo rosa, poi il cubismo, il surrealismo, la maniera neoclassica, sempre diverso eppure sempre riconoscibilmente lui? Impossibile in ogni caso ricondurlo a una posizione univoca; lui stesso era stato il primo a non volerlo, come attesta lo scritto più lungo e articolato in cui si è posto il problema, le pagine di Leçon che non a caso abbiamo citato con larghezza. Di fronte a un Barthes che sembra determinato a non lasciar cadere nulla (Mimesis, Mathesis, Semiosis, realismo e antirealismo, impegno e desiderio, artificio ed espressione…) e accetta perciò il rischio di sostenere una cosa e il suo contrario, non ci sarebbe che da prendere atto e registrare. Estorcergli una definizione riassuntiva, una sintesi delle contraddizioni, che a quel punto cadrebbero come apparenti, non è possibile se non a patto di usargli violenza, o di brandire certi suoi testi contro altri.
C’è tuttavia un modo per sottrarsi all’alternativa secca tra mutilazione (questo Barthes ci sta bene e questo no) e accettazione supina (Barthes va bene tutto anche quando si contraddice). Forse la lunga serie di definizioni appena scorse sotto i nostri occhi può trovare, se non una coerenza, quanto meno un’articolazione, un gioco non arbitrario, se la si pensa come un campo di forze, una configurazione di domande più che di risposte, un tracciato plurimo di moti pendolari circoscritto nello spazio anche se potenzialmente infinito nel tempo. Il discorso di Barthes sulla letteratura oscilla infatti tra i poli di tre coppie di opposizioni, ma forse meglio sarebbe dire, con Deleuze, di “sintesi disgiuntive”, correlate tra loro, dove il doppio movimento dell’”ostinarsi” e dello “spostarsi”, che Barthes aveva illustrato in Leçon, crea traiettorie “in cui l’uno non cessa di dirsi nello stesso senso di tutto ciò che infinitamente differisce”.[39]
1) Letteratura come codice, ordine, cerimoniale, sistema di segni governato da norme che circoscrivono e sorvegliano lo spazio della loro apparizione, selezione, combinazione e circolazione, fenomeno che si differenzia nel tempo ma denuncia la sua essenza trans-storica nel fatto stesso di essere appunto normato e disciplinato, memoria e traccia scritta di tutti i saperi, unica cosa che si può insegnare, versus letteratura come eversione, sottrazione, liberazione, trucco, contestazione permanente della normatività della lingua, dell’ideologia e del potere, utopia del linguaggio, vuoi nella modalità dell’engagement, della “morale della forma” e dello smascheramento (la “maschera che si segna dito”), vuoi in quella della jouissance e della perversione di un significante che aspira ad affrancarsi dalla tirannia del significato.
2) Letteratura come “istituzionalizzazione della soggettività”, sottomissione negoziata ma comunque inevitabile a quello che Lacan chiamava il grande Altro inscritto nel registro del Simbolico, versus letteratura come ostinazione irriducibile dell’Io che si accetta giubilatoriamente come funzione dell’Immaginario, desiderio che rifugge dallo scontro frontale con la legge e si definisce non in ragione del suo opporsi ad essa ma del suo ridislocarsi senza fine e senz’altro scopo che non sia il ridislocarsi stesso.
3) Letteratura come sospensione del senso, interrogazione sul senso, esplorazione delle sue condizioni di possibilità o impossibilità pagata al prezzo di non invocare mai la garanzia del referente, versus letteratura come sostituzione diretta del referente scomparso, indicalità, additamento dell’”è proprio questo” (cosa diversa dall’“è proprio come questo, è proprio simile a questo”, che è la prestazione della mimesis) dove alla mediazione intellegibile del senso si sostituisce l’immediatezza tattile del piacere, del godimento o del pathos.
Non sarebbe difficile mostrare quanto la sintesi disgiuntiva abbia sempre la meglio sull’opposizione dialettica (affermazione, negazione, negazione della negazione) in tutta l’opera di Barthes, e non solo per ciò che riguarda la letteratura; compito che però eccede il nostro oggetto. Limitiamoci a formulare qualche ipotesi sul perché Barthes non abbia mai davvero abbandonato l’idea di letteratura, ivi compreso negli anni in cui ne perorava la scomparsa e si faceva banditore dell’avvento della scrittura e del testo.
La prima potrebbe essere questa. Il termine letteratura, proprio perché ricevuto, dunque già sempre precompreso, socialmente riconosciuto e sanzionato, è più ricco di connotazioni di quanto non lo siano testo o scrittura. E’ più impregnato, più incrostato, dunque più rischioso, meno univoco proprio perché esposto in radice a quel rischio del luogo comune e del significato ossificato dall’ideologia che pure Barthes temeva così tanto. Parole come scrittura e testo hanno una geometria più piana, una storia meno compromessa, contengono un numero infinitamente minore di implicazioni, tendono all’unità, possono più facilmente essere reimpiegate, in forza della loro apparenza di neutralità, come termini tecnici, passibili loro sì di una definizione univoca, ottenuta per via opposizionale (come quando per esempio Barthes oppone frontalmente il testo all’opera[40]). La letteratura no. La letteratura non è astraibile dal sistema delle idées réçues che inevitabilmente si trascina appresso. Scrittura e testo obbligano alla distinzione e alla scelta, si prestano meno bene al gioco della sintesi disgiuntiva. Pur provenendo dal repertorio dei luoghi comuni di una società data, l’idea di letteratura, con la sua polisemia, saturazione semantica e disseminazione pragmatica, offre maggiori possibilità di sospenderli, farli ruotare, sviarli, pervertirli, interrogarli e sorprenderli nella loro parzialità che si pretenderebbe totale. Mentre scrittura e testo, proprio perché isolati in laboratorio come concetti operativi (in cui è peraltro implicita ma evidente una valenza polemica), conducono inevitabilmente all’irrigidimento: non è X, è Y; mai le due cose insieme. La scelta di “dare un senso più puro alle parole della tribù”[41] – insita nella pretesa che fa da fondamento a ogni “teoria”: creare una zona aletica del linguaggio immune da errore e confusione – deve a un certo punto essere apparsa a Barthes non meno ideologica di quella che della tribù accetti senza discuterla ogni credenza. Il suo ritorno alla letteratura (non esattamente databile, e anzi per così dire “perpetuo”, nel senso di un evento che non cessa di accadere) può insomma essere visto come qualcosa di diverso da un ripiegamento, il che smentisce ogni possibile interpretazione “reazionaria” degli scritti ultimi: hai flirtato con l’eversione avanguardistica, hai avallato l’anno zero dell’utopia sessantottina, ma alla fine hai dovuto arrenderti a parlare come parliamo tutti, ti ci voleva proprio un lutto per smettere di trattare i tuoi simili come piccoli borghesi ricettacoli di bêtise. La fedeltà di Barthes alla letteratura non è un gioco al ribasso ma all’eccesso, la ricerca della possibilità di dire non di meno ma di più.
Seconda ipotesi: contrariamente a quanto recita il senso comune, si è fedeli per sempre a qualche cosa soltanto quando la si avverte non come eterna ma come mortale, precaria, caduca, minacciata nella e dalla sua stessa essenza. Dal dossier salta agli occhi come il tema della morte della letteratura (anch’esso ricevuto, e di origine romantico-borghese prima che avanguardistica) attraversi tutta l’opera di Barthes, dai saggi sulla “letteratura di sinistra” o su Robbe-Grillet a quelli in cui alla scrittura parrebbe deputato il ruolo di esecutore materiale del decesso (per esempio la Prefazione all’edizione italiana di Critique et vérité), fino a quanto si legge in La Préparation du roman: “Questo desiderio di letteratura può essere tanto più acuto, vivo, tanto più presente quanto più posso precisamente sentire la letteratura come se fosse in procinto di scomparire, di abolirsi: in questo caso, io la amo di un amore più penetrante, sconvolgente persino, come si ama e si stringe tra le braccia qualcosa che sta per morire”.[42]
L’equiparazione tra la letteratura e la madre sotto il segno della mortalità è evidente; ma se i due fantasmi, madre e letteratura, possono diventare l’uno il senhal dell’altro, non è solo in forza di una contingenza. Mortale, Henriette Barthes lo era anche prima di morire; e “mortale”, come sapevano i greci, è in fondo la più esatta definizione del vivente. Quando Barthes accomunava in Le Plaisir du texte la lingua e la madre (via il luogo comune della “lingua madre”), Henriette era ancora viva: “Lo scrittore è qualcuno che gioca con il corpo di sua madre (…): per glorificarlo, per abbellirlo, o per farlo a pezzi, per portarlo al limite di ciò che, del corpo, può essere riconosciuto”.[43] Che Barthes sentisse la letteratura come qualcosa di e ontologicamente e storicamente minacciato (mortale per essenza, a rischio di morte per decreto dell’epoca) è ciò che gli ha permesso di riversarne le connotazioni sulla figura della madre: non viceversa. L’incontro con il dato traumatico della sua biografia non lo ha distolto ma piuttosto immesso nella Storia. Tra le prime e le ultime definizioni c’è differenza nella misura in cui c’è differimento; non però opposizione. Parafrasando Spinoza, sono tutte modificazioni di un’unica sostanza. Nel momento più estremo della dispersione (e dell’apparente palinodia: la letteratura come grido, come pathos, come qualcosa che si fa col cuore in mano…) si trova anche il momento di maggior coincidenza con l’ontologia del presente, se è vero che il presente di Barthes è quello che ha sentito come essenziale alla letteratura il suo essere mortale. Ora si tratta di chiedersi se quel tempo è ancora il nostro, se lo abbiamo superato o semplicemente accantonato e rimosso (la rinaturalizzazione della letteratura contro cui Barthes si era scagliato dai suoi esordi è sotto gli occhi di tutti). Nella risposta ne va del giudizio complessivo che possiamo dare di lui e della sua opera. O mero sintomo, espressione, rappresentante di un’epoca che, per quanto possa sembrarci ancora splendida, è però irrevocabilmente passata; o traccia invece di un lavoro ancora tutto da riprendere e da proseguire: ancora scrivibile, avrebbe detto Barthes.
[1] Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve, Paris, Gallimard, coll. Pléiade, 1971, p. 611.
[2] Ove non diversamente indicato, tutte le citazioni di Barthes provengono da Roland Barthes, Oeuvres complètes, Paris, Seuil, 1993-95, tre voll., di seguito contrassegnati con OC, il numero romano e il numero di pagina; i corsivi sono sempre dell’autore. Per ragioni di omogeneità semantica, le traduzioni sono tutte mie. In conformità al criterio dell’edizione francese, e per conferire maggiore evidenza alla cronologia in cui sono stati composti, i saggi raccolti in volume vengono citati come parte di una raccolta solo nel caso in cui questa sia stata pubblicata in vita dall’autore; non si menzionano invece le raccolte postume come Le bruissement de la langue o La grain de la voix. Verranno inoltre rispettate le oscillazioni di Barthes nello scrivere il termine con la maiuscola o con la minuscola (Letteratura/letteratura); Jean Cayrol et ses romans, in “Esprit”, 1952, OC, I, pp. 130-131.
[3] Le Dégré zéro de l’écriture, OC, I, pp. 139-140, 186. Occorre ricordare che molti saggi di questo volume sono stati pubblicati su “Combat” tra il 1947 e il 1950, e sono dunque precedenti al saggio su Cayrol con cui si apre il dossier. Colloco tuttavia al secondo posto queste citazioni in quanto provengono dall’introduzione e dalla conclusione del volume, verosimilmente scritte per ultime.
[4] Oui, il existe bien une littérature de gauche, in “L’Observateur”, 1953, OC, I, 194.
[5] Littérature littérale, in “Critique” 1955, poi in Essais critiques, 1964, OC, I , p. 1217.
[6] La Littérature selon Minou Drouet, in Mythologies, 1957 (ma i saggi raccolti sono stati scritti tra il 1954 e il 1956), OC, I, 661.
[7] Littérature et métalangage, in “Phantomas”, 1959, poi in Essais critiques, 1964, OC, I, 1246.
[8] Zazie et la littérature, in “Critique”, 1959, poi in Essais critiques, 1964, OC, I, 1260, 1264.
[9] La réponse de Kafka, in “France-Observateur », poi in Essais critiques, 1964 OC, I, 1271, 1273.
[10] Ecrivains et écrivants, “Arguments”, poi in Essais critiques, 1964, OC, I, p. 1281.
[11] La littérature, aujourd’hui, intervista a “Tel Quel”, 1961, poi in Essais critiques, 1964, OC, I, 1286, 1287, 1290.
[12] L’activité structuraliste: in “Les lettres nouvelles”, 1963, poi in Essais critiques, 1964, OC, I, p. 1332.
[13] Littérature et signification, intervista a “Tel Quel”, 1963, poi in Essais critiques, 1964, OC, I, 1365, 1366, 1367, 1368.
[14] Sur Racine, OC, I, pp. 1095 e 1102.
[15] Critique et verité, OC, II, pp. 38, 40.
[16] De la science à la littérature, in “Times Literary Supplement”, 1967, OC, II, pp. 429 e 433.
[17] Linguistique et littérature, in “Langages”, 1968, OC, II, pp. 503 e 505.
[18] Critica e verità, trad. it. di Clara Lusignoli e Andrea Bonomi, Torino, Einaudi, 1969, p. 9 (non raccolto in OC).
[19] Entretien, in “UMI”, 1969, OC, II, 551.
[20] Réflexions sur un manuel, Relazione al convegno “L’Enseignement de la littérature” tenuto al Centre culturel international de Cerisy-la-Salle, poi pubblicato negli Actes, Plon, 1971, OC, II, 1241.
[21] S/Z, 1970, OC, II, pp. 558, 562-563.
[22] Préface à L’Encyclopédie Bordas, VIII: L’Aventure littéraire de l’umanité, I, OC, II, pp. 982-983.
[23] Où/ou va la littérature? Dialogue avec M Nadeau, trasmissione radiofonica su “France Culture”, 13 marzo 1974, poi in Écrire… pourquoi? Pour qui?, Grenoble, Presses Universitares de Grenoble, 1974, OC, III, pp. 57, 58-59, 59, 65-66, 67.
[24] Barthes par Roland Barthes, OC, III, p. 186.
[25] In “Pratiques”, febbraio 1975, conversazione con André Petitjean, OC, III, pp. 339-340)
[26] Préface à L’Encyclopédie Bordas, IX: L’Aventure littéraire de l’umanité, II, Paris, Bordas, 1976, OC, III, p. 420.
[27] Préface sous la forme d’entretien à Littérature occidentale, Paris, Laffont, 1976, OC, III, p. 427.
[28] Leçon, lezione inaugurale della cattedra di Semiologia letteraria del Collège de France, 7 gennaio 1977, OC, III, pp. 803, 804, 805, 806, 807, 808.
[29] Fragments pour H., lettera a Henri Guibert del 10 dicembre 1977, OC, III, 1298.
[30] Le Neutre. Cours et séminaires au Collège de France (1977-1978), Paris, Seuil-IMEC, 2002, p. 37.
[31] Journal de deuil, Paris, Seuil, 2009, pp. 33, 189.
[32] Longtemps, je me suis couché de bonne heure, Conferenza al Collège de France, 19 ottobre 1978, OC, III, 324.
[33] Vita Nova, OC, III, 1300-1301.
[34] La Préparation du roman (I et II). Cours et séminaires au Collège de France (1978-79 et 1979-1980), Paris, Seuil, 2003, p. 45.
[35] S/Z, Torino, Einaudi, 1973, p. 5 (il passo non si trova nell’edizione francese).
[36] De la science à la littérature, in “TLS”, 1967, OC, II p. 428.
[37] Ecrivains et écrivants, in “Arguments” 1960, poi in Essais critiques, 1964, OC, I, p. 1282.
[38] La Chambre claire, 1980, OC, III, p. 1112.
[39] Rocco Ronchi, Gilles Deleuze, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 36.
[40] De l’oeuvre au texte, 1971, OC, II, pp. 1211-1117.
[41] Stéphane Mallarmé, Le Tombeau d’Egard Poe, in Poésies, Paris, Gallimard, 1992, p. 60.
[42] La Préparation du roman (I et II), cit., p. 125. Un passo da leggere in sintesi disgiuntiva con quest’altro: “Amare la letteratura è, nel momento in cui si legge, dissipare ogni specie di dubbio sul suo presente, la sua attualità, è vedere che è un uomo vivente che ti parla, come se il suo corpo fosse accanto a me”; ivi, p. 353.
[43] Le Plaisir du texte, OC, III, p. 1513.
[Immagine: Roland Barthes (gm)]
Estremamente utile e non così disorientante. Cosa si intende in questo caso con “rinaturalizzazione della letteratura”? Dire (“mostrare”) che “è sotto gli occhi di tutti” non basta! P.S. “gli soffiano una risposta”? “Souffler” qui vale “suggerire” (e “souffleur” è il “suggeritore”)!