di Daniela Brogi
A quattro giorni dalla cerimonia di apertura del Festival di Venezia, proviamo a fare alcune considerazioni di scorcio, vale a dire in maniera provvisoria, fermandoci ai primi tratti, per non rovinare il piacere della scoperta in sala; valorizzando alcuni lavori e lasciandone altri sullo sfondo.
Le opere che finora hanno più impressionato pubblico e critica sono il musical La La Land, di Damien Chazelle, prima opera in competizione (interpretata da Ryan Gosling e Emma Stone), e la serie tv The Young Pope, diretta da Paolo Sorrentino, di cui sono stati anticipati i primi due episodi – sarà trasmessa in Italia da Sky Atlantic a partire dal 21 ottobre.
Provando a capire se ci siano alcune linee dominanti nel paesaggio, sembrano prevalere due aspetti.
Il primo motivo riguarda l’attenzione al rapporto tra narrazione e mondo reale, e in particolare alla maniera in cui tale rapporto viva di equilibri e squilibri: il cinema visto finora a Venezia sembra particolarmente interessato a questi interstizî. E così, anche con molte differenze, i film di Chazelle, Ozon, Wenders, Sorrentino, ci chiedono di vedere come l’oscillazione tra quello che accade e il modo in cui viviamo e ci raccontiamo ciò che accade possano condizionare la possibilità di essere felici – o di sostenere, in certi casi, sofferenze e scissioni altrimenti insopportabili. Questo sistema di variazioni e di scompensi tra mondo sognato e mondo esperito funziona da sempre come partitura formale e semantica dell’universo di invenzione allestito dal musical (La La Land: la storia d’amore tra il pianista jazz Sebastian e Mia, che sogna di diventare attrice)
D’altra parte, il film di Chazelle non è stata affatto l’unica situazione dove la realtà diventa una presupposizione intorno alla quale si possano tirare su autoscenari anche molto lontani dal referente. È molto interessante, per esempio, Les Beaux d’Aranjuez, che è un dialogo tra un uomo e una donna in un giardino, in un pomeriggio di mezza estate – il film è tratto da una pièce teatrale. È interessante il modo (bellissimo nelle prime scene) in cui Wenders si è servito del 3D usandolo non come strumento decorativo, ma come segno pieno per inventare nuove possibilità di configurazione dei volumi del tempo e dello spazio che danno tridimensionalità al racconto (troppe volte estenuante e lezioso) del passato:
Assieme ai protagonisti, secondo una struttura sdoppiata che ritroviamo anche in altri film, prende vita anche la storia dello scrittore che sta scrivendo la loro storia.
Domina, qui come altrove, un effetto d’insieme per cui la distanza tra le cose e i discorsi e le visioni su di esse non produce dubbio, incoerenza, addirittura strappo, ma sospensione; senza provocare suspense, né rottura, ma una situazione che si scioglie dentro il flusso del film, in un mondo in cui è diventato sempre più importante non cosa succede, ma cosa si racconta che ci è successo. Molti film di Venezia 73 ci fanno sperimentare questa promiscuità di prospettive narrative e di livelli di sguardo. Per esempio Nocturnals Animals, di Tom Ford, che è un adattamento abbastanza fedele del romanzo Tony e Susan (1993), di Austin Wright (1922-2003). L’autore di Tony e Susan (pubblicato in Italia da Adelphi) ha scritto sette romanzi, quattro raccolte di saggi, e per buona parte della vita ha tenuto corsi sulla tecnica della narrazione. E in effetti il libro, come accade spesso a tanta scrittura americana, è l’esperimento perfetto di un autore che insegna in una scuola di scrittura. Tutto, nel racconto di Wright, funziona come un ingranaggio, in un sistema di rimandi e bilanciamenti che combinano tre piani narrativi: il primo è quello riguardante la storia di Susan, sposata in seconde nozze e madre di due figli, che a un certo punto – qui comincia la storia – riceve e comincia a leggere il romanzo scritto dal suo primo marito, Animali notturni. Il thriller narrato nel libro forma il secondo livello del racconto, a cui si intreccia un terzo strato, formato dalla memoria che Susan svolge, intanto che legge il libro, attorno agli eventi e al fallimento del suo primo matrimonio. Così i profili dell’autore del romanzo, vale a dire Edward, e quello di Tony, il protagonista della vicenda (un racconto terribile in cui l’uomo, la moglie e sua figlia sono aggrediti di notte da una banda di teppisti, con conseguenze tragiche), si confondono progressivamente, mentre intanto, passando dal libro al film che ne è stato tratto, si rispecchiano sempre di più l’uno nell’altro anche il tempo del racconto cinematografico e quello del racconto romanzesco. Tom Ford recupera il libro di Wright caricandolo a più non posso, vale a dire trasformando la protagonista (Amy Adams) in una ricchissima e sofisticata gallerista:
e appesantendo la vicenda di dettagli estetizzanti che talvolta, come nella scena iniziale, producono effetti visivi spettacolari, mentre in altri casi la perfezione formale diventa smania estetica, passione dell’inquadratura o degli effetti cromatici fine a se stessi; lo stile rischia di diventare stilismo – come nell’effetto tragicomico di sovrapposizione in dissolvenza tra il corpo nudo della figlia uccisa e il corpo nudo della figlia di Susan.
Il secondo aspetto, non sempre separato dal primo, che sembra essere un tratto ricorrente in alcune delle più importanti opere passate da Venezia 73, è l’attenzione al racconto del passato che funziona, creativamente, non tanto come grande tempo storico, ma come terra di narrazioni nascoste, talora come spunto di memoir; oppure, potremmo dire, come tempo morto, vale a dire come luogo muto da interpellare nuovamente: ora per far parlare nuove storie, ora per attaccare a quel tempo narrazioni, invenzioni diverse che possano servire a rielaborare lutti altrimenti irricucibili. La stoffa dei racconti, come quella dei sogni, serve a ristabilire nuovi ricordi, e relative possibilità di vita: è quello che accade nel film di Ozon, Frantz, dove si svolgono le vicende di una ragazza tedesca, che ha perduto il suo promesso sposo in guerra (siamo nel 1919), e del soldato francese impegnato nel medesimo conflitto, sul versante opposto. È un buon film, anche se talvolta ripetitivo, ma non si dirà altro per non svelare la storia:
https://www.youtube.com/watch?v=XO_z5BRsFnM
Anche i due episodi di The Young Pope, fuori concorso, lavorano su tracce narrative che di continuo, anche sfruttando il maggiore spazio digressivo consentito dalla misura lunga (dieci ore), alludono a un passato rimosso. «Di cosa ci siamo dimenticati? Di cosa ci siamo dimenticati?» chiede Jude Law all’inizio e alla fine della parte proiettata. L’attore interpreta il primo americano diventato Papa nella storia della Chiesa; un uomo di quarantotto anni (si chiamava Lenny Belardo). Più che un’opera sui misteri del Vaticano, The Young Pope sembra un’altra nuova riflessione sul divismo e sul potere di interpretare il potere: Pio XIII è una sorta di rockstar. Accanto a questo tema sembra agire, sottotraccia, anche un altro motivo che ininterrottamente attraversa l’opera di Sorrentino: il senso del passato come luogo in cui gli eventi notevoli come le situazioni irrilevanti si confondono in una risacca perpetua.
The Pope comincia con un sogno, o per meglio dire con l’esperienza cinematografica di un sogno, di nuovo portato fino a Piazza San Marco, a Venezia, come in The Youth. Tutto promette una serie molto bella: il senso della composizione delle scene, la capacità di dirigere gli attori – non solo Jude Law e Diane Keaton, ma Silvio Orlando, per esempio, che è straordinario – il gusto del grottesco –la passione del Papa per la Coca Cola Cherry Zero. Persino un canguro che si aggira nei giardini vaticani funziona. Diane Keaton, che talvolta ha ricordato il personaggio di Claire in House of Cards, interpreta la suora che, quando Lenny era piccolo, lo ha accolto in orfanatrofio, e che adesso Pio XIII vuole al suo fianco. «Non vedo Dio, perché non vedo mio padre e mia madre», dice Pio XIII al suo confessore. In quella battuta, nel modo in cui è costruita e messa in immagine, vibra il senso di un’opera intera, soprattutto nei suoi esiti più alti. The Young Pope sembra farne parte.
[The Young Pope (Paolo Sorrentino, 2016)]
Ecco , ho visto The Young Popìe. MI ha fatto pensare , mi ha coinvolto per la bellezza delle immagini. e l’intensità deì i contenuti . Aspetto una tua recensione. Sei l’unica che può fare un’analisi interessante e completa. Non so se la farai, ma leggerò solo te.