di Pierluigi Pellini
[Una versione abbreviata di questo articolo è uscita su «Alias»].
La nutrita e variegata antologia di biografie letterarie, in varia misura romanzate, curata da Alexandre Gefen, e uscita per Gallimard nel 2014, nella collana «Folio Classique», Vies imaginaires, ha sancito il definitivo superamento del discredito in cui le scritture biografiche (documentarie o di finzione) sono state tenute dalla cultura francese, come da quella italiana, del secondo Novecento – mentre in area anglosassone gli anatemi formalisti e strutturalisti non hanno mai impedito il successo di pubblico e di critica dei racconti di vite (più o meno) immaginarie. Il sottotitolo dell’antologia di Gefen, De Plutarque à Michon, segna gli estremi cronologici dell’opera, accostando Plutarco a un classico contemporaneo, Pierre Michon, il cui tardivo e folgorante esordio, nel 1984, all’età di trentanove anni, con Vies minuscules, ha propiziato la svolta da cui sono nati alcuni fra i migliori libri francesi degli ultimi decenni – quelli di Pierre Bergounioux, di François Bon, di Laurent Mauvignier. Negli archivi di qualche editore italiano si conservano verosimilmente i pareri di lettura che ne impedirono a suo tempo la traduzione; e sarebbe interessante verificare quali pregiudizi abbiano negato al pubblico italiano l’assoluto capolavoro che finalmente, con trentadue anni di ritardo, Adelphi manda in libreria, nella bella versione di Leopoldo Carra (Vite minuscole, pp. 204, euro 18); mentre scrittori molto inferiori a Michon hanno occupato l’intero, risicato spazio che le nostre librerie ancora accordano alla prosa francese contemporanea.
Vite minuscole è composto di otto brevi biografie i cui protagonisti, quasi tutti originari dell’aspra provincia limosina, incrociano in momenti diversi il percorso esistenziale di un narratore per molti aspetti autobiografico. E certo, a un primo sguardo distratto, il libro sembra intrecciare, non senza apparenti forzature, il romanzo di formazione di un artista (la cui tormentata iniziazione alla scrittura occupa uno spazio crescente nella seconda metà del volume), con l’epica in negativo dei derelitti, degli sbandati, delle esistenze abortite ai margini della storia. Motivi, entrambi, già nel 1984 inflazionati, se è vero che la microstoria, dalle «Annales» in poi, e in seguito la sociologia degli anni Sessana e Settanta, hanno legittimato ad abundantiam il racconto di quelle Vite di uomini non illustri che avrebbero dato il titolo, nel 1993, a un bel libro di Giancarlo Pontiggia (non insensibile al modello di Michon); e che la Bildung dello scrittore, con proustiano corollario teso a identificare «la vera vita» con la letteratura, è topos già romantico, che poi attraversa, spesso stancamente, l’intero Novecento europeo.
Un topos, quest’ultimo, iperbolicamente riaffermato, nelle Vite minuscole, da una scrittura che nelle pieghe di quasi ogni pagina, nel tessuto fittissimo delle metafore, nell’insostenibile tensione, nella vorticante densità di uno stile letteralmente mozzafiato (come l’amato Conrad, Michon non dà respiro al lettore), dissimula, o a volte esibisce, una mole straripante di riferimenti culturali. Sono frequenti gli inserti poetici, estrapolati soprattutto dall’opera del prediletto Rimbaud, cui Michon ha dedicato anche un breve, intenso ritratto, Rimbaud il figlio, del 1991 (ne esiste una semiclandestina traduzione del 2005, per l’editore Mavida di Reggio Emilia). Si moltiplicano le allusioni romanzesche, fin dalle prime righe, che evocano scenari «a est di Suez», con trasparente allusione a Kipling (l’incipit memorabile del Marchio della bestia). Un altro testo di Kipling, L’uomo che volle farsi re, offrirà, en abyme al centro del volume, l’unico possibile, per quanto stralunato, termine di paragone alle ambizioni sproporzionate e pietose, umanissime nella loro letteraria dismisura, del narratore e dei suoi personaggi. In generale, in aperta polemica con l’estenuazione «grevemente sperimentale» del romanzo francese degli anni Settanta, i più importanti modelli narrativi di Vite minuscole sono anglosassoni: Kipling, Conrad, e soprattutto, per l’impostazione della voce narrante, per la sua postura enunciativa, quel Faulkner che in Absalom, Absalom! è, per il Michon critico letterario, nientemeno che «l’inconcepibile bocca della letteratura, in persona, che parla». Non sono meno numerosi, infine, i riferimenti pittorici: in un’osmosi continua, che rapprende la descrizione realistica di una regione impervia e arcaica, o di personaggi dall’oscura e prorompente vitalità, nella fissità enigmatica di un paesaggio di Cézanne, o nell’inquietante chiaroscuro dei ritratti di Rembrandt, «inchiodati al loro scanno d’ombra»; mentre scioglie in creaturale palpitazione le linee e i colori di ogni quadro, celeberrimo o semisconosciuto, evocato sulla pagina (vite di pittori danno materia, o pretesto, all’altro libro di Michon fin qui tradotto in Italia, da Guanda nel 1994, Padroni e servitori); e non disdegna l’iconografia popolare delle «immagini di Épianal e di Hollywood».
Questo citazionismo in apparenza postmoderno era destinato a maldisporre, in Italia, nel 1984 le retroguardie gramsciane; e oggi probabilmente i fautori di un ingenuo «ritorno alla realtà»; mentre la rinuncia di Michon a ogni velleità di sperimentalismo formale, l’indefettibile fedeltà alla «lingua morta» della tradizione highbrow, gli alienava i favori delle nuove avanguardie. E «il demone dell’Assenza», l’ossessione del «bianco ostinato della pagina», che contagia il mondo «cancellando ogni cosa», quella che lo stesso narratore – senza mai veramente disconoscerla – definisce la «grottesca teologia» della Parola letteraria, potevano facilmente indurre a relegarlo fra gli emuli attardati di Mallarmé o Blanchot. E in parte è vero: nemmeno nel momento in cui proustianamente riscatta, come materia dell’Opera, da un lato il tempo perduto in vane ribellioni, in vuoti slogan, in alcol e droga, e perfino nel «conformismo dell’infermità mentale» (Vite minuscole è anche un libro lucidissimo e feroce sulla generazione del Sessantotto), e dall’altro, contemporaneamente, le origini, un tempo ripudiate, nella Francia profonda, nelle «famiglie incrinate» (l’originale ha zolianamente fêlées, ‘tarate’) della più derelitta e ferina campagna, nemmeno in quel momento il narratore rinuncia alla sua «unica passione», alla fede laica e scettica nell’ipotesi del «miracolo», di una parola che sappia fare argine alle devastazioni del tempo. Se per un verso Michon non ignora affatto, nella sofferenza dei corpi e nella violenza dei rapporti umani, «una necessità più forte della parola», per un altro rivendica alla letteratura il compito insostituibile di dire «l’essenziale»; e nella lotta disperata con la pagina bianca rivive l’umiliazione degli avi illetterati, cui un «materiale linguistico troppo limitato» ha precluso la sublimazione artistica. Perciò di un umile figlio di contadini ottocenteschi, cacciato di casa dall’ira paterna, Michon può fare un doppio di Rimbaud (e di se stesso), icona raminga di «scrittore fallito prima ancora di diventarlo»; e del padre collerico può fare un enigmatico affabulatore, che imbastisce per il reietto, a compensazione della definitiva assenza, un romanzo di emigrante di successo – smentito, ma forse solo ipoteticamente, dalle dicerie di chi lo fa ergastolano in patria.
Sempre «avvezzo alle folgoranti ellissi delle lingue classiche», il passo narrativo di Michon procede per scorci e accelerazioni, moltiplica ipotesi, illuminazioni, smentite. E alimenta con testarda speranza – ma senz’ombra di quell’ilare funambolismo intellettuale che accomuna, non di rado nella realtà e sempre nelle caricature dei loro detrattori italiani, postmoderno e decostruzione – il sospetto che l’«essenziale» possa disertare il mondo degli accadimenti reali per sedimentare nel racconto. Eppure, che il primum della scrittura di Michon sia esistenziale, incistato nell’opaca, indicibile creaturalità dei corpi sofferenti, lo mostra, al centro del libro, la Vita del vecchio Foucault, che non a caso ha «il cognome di un filosofo alla moda», e che rifiuta di andare a Parigi a farsi curare un cancro alla gola, semplicemente perché è analfabeta; e lo conferma nelle ultime, meravigliose pagine, la Vita della bambina morta, sorella maggiore del narratore, scomparsa infante nel 1942. È precisamente l’urgenza disperata di penetrare il suo dolore «senza linguaggio», la sua agonia «per sempre incomprensibile», a segnare, prima ancora della nascita, la vocazione letteraria dell’io. È questo il grumo di dolore originario, che impone di «scrivere così come un bambino senza parole muore», e che dà l’abbrivo, en abyme, alle Vite minuscole. Allo stesso modo, è la latitanza del padre, in un universo rurale dominato da indimenticabili figure femminili, a costituire il bruciante paradigma di ogni letteraria «assenza»: cosicché quello di Michon potrà apparire, senza contraddizione, postmodernismo etico (o, se si preferisce, neomodernismo o ipermodernismo), che nel culto della parola esatta, con l’ostinazione inerme di un «ateo poco convinto», con le armi splendide e spuntate di uno «stile appropriato», combatte con patetica abnegazione la morte e l’oblio.
Tradurre questo stile chiedeva altrettanta abnegazione: per non tradire l’ossessiva esattezza del lessico, per mimare con uguale tenuta l’intensità della dizione. Leopoldo Carra c’è quasi sempre riuscito, e l’ammirazione per il suo lavoro non è intaccata, nel testo, da qualche minima imprecisione. Invece stona, fuori testo, la postilla, che dichiara nel titolo, con snobismo che si direbbe neocrociano, «la superfluità delle note al piede». Il traduttore sembra appropriarsi degli argomenti di don Benedetto contro i cercatori di fonti ariostesche, rivendicando a Vite minuscole un’alchimia stilistica capace di generare una «lega senza scorie», e di rendere perciò superflue le agnizioni intertestuali. In realtà, se è vero che anche Borges conta fra i modelli di Michon, solo nel dialogo ininterrotto con l’intera enciclopedia della letteratura occidentale, in specie modernista, può balenare, precario e ipotetico, il senso del libro; e solo un sobrio e puntuale apparato di note può conferire allo scrittore il rango che gli compete: quello del classico.
Lo sapeva bene, a suo modo, l’emulo migliore di Vite minuscole, l’italiano Davide Orecchio: nelle sei «biografie infedeli» che compongono il suo notevolissimo Città distrutte (Gaffi, 2012), a corredo del racconto romanzato della vita di persone reali, dispiega infatti una cospicua annotazione d’autore. Né per ingenuo scrupolo documentario, né all’opposto per confondere realtà e finzione, ma per rendere anche graficamente evidente l’inevitabile compenetrazione di vita vera e immaginazione, di storia e letteratura; e per ribadire l’insufficienza ontologica dell’una e dell’altra: dell’esistenza che non accede alla parola, dell’opera che non è carne, sangue, vita – e questa è anche la lezione, d’inalterata attualità, di Vite minuscole.
[Immagine: Pierre Michon]
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