di Barbara Carnevali
Un simulacro di filosofia, la Theory, si aggira per i dipartimenti del mondo intero. Non stiamo parlando dell’opera di un autore particolare, dal momento che molti acclamati theorist sono pensatori a tutti gli effetti, e nemmeno dell’autorevole scuola filosofica che ha rivendicato l’appellativo di Teoria Critica; ma di quella specie di scolastica postmoderna nota a chiunque insegni una materia umanistica all’università: un amalgama di idee e formule di varia provenienza disciplinare (prevalentemente filosofia, psicanalisi e sociologia), estratte da un canone di autori disparati ma accumunabili in una generica postura radicale (Marx, Nietzsche, Lacan, Foucault, Deleuze, Bourdieu, Agamben, Said, Spivak, Butler, Žižek, l’onnipresente Benjamin, l’uscente Derrida, la new entry Latour…), fuse in un solo crogiolo e ridotte a un’agenda tematica angusta: il potere, il bios, il genere, il desiderio e il godimento, il soggetto e le moltitudini, la coppia dominanti-dominati, il capitale e lo spettacolo, etc.
Che sia chiaro da subito. L’obiettivo polemico di quest’articolo non è un autore, un libro e nemmeno una specifica corrente teorica. È una modalità di pensiero, una scolastica, appunto, che nel corso degli ultimi decenni si è declinata in combinatorie variabili conservando una forma costante. A partire dagli anni Sessanta e Settanta, la Theory ha attraversato diverse fasi, dall’originaria sintesi di marxismo e psicanalisi, al mix di decostruzione, heideggerismo, cultural e post-colonial studies, fino alle metamorfosi più recenti, nutrite di foucaultismo, gender e queer studies, biopolitica e lacanismo[1]. L’invenzione recente di un’«Italian Theory», come la Nottola di Minerva, ha segnato il passaggio in cui questo processo, prima latente e ricostruibile solo a posteriori, non solo è venuto alla luce – il disvelamento si è compiuto nell’intelligente libro di François Cusset[2] – ma è diventato addirittura programmatico.
Oltre che per la sua natura di bricolage di seconda mano, la Theory si riconosce e definisce pragmaticamente, per l’uso che ne viene fatto. A coltivarla è chi, spesso a partire da settori disciplinari attigui alla filosofia, come la letteratura comparata, la teoria e critica dell’arte, gli studi culturali, cerca di giustificare le proprie ricerche all’interno di un quadro problematico più vasto del settore di specializzazione, e più “impegnato”, cioè rivolto a una considerazione critica del presente. Gli insegnanti di estetica, ad esempio, si sono accorti da tempo che esiste una tipologia di studente che non viene a lezione per esaminare un problema, appropriarsi di un ragionamento filosofico o leggere approfonditamente un classico, ma per conquistare pezze di appoggio per il commento di un testo letterario o di un film (se non addirittura per la creazione in proprio di un’opera d’arte[3]); può capitare che questi studenti protestino se il seminario non produce prontamente “teorie” spendibili, o se mette in dubbio il valore di quelle in voga. A differenza infatti della filosofia, che ha tempi lunghi e frustranti, e che di rado approda a qualche confortante certezza, la Theory è rapida, vorace e tranciante – e anche per questo funziona bene come lingua comune e terreno di aggregazione transdisciplinare. La sua dimensione ideale è quella del “reader”, il libro fatto per citare libri che non si sono letti, e in cui l’aspirante teorico digiuno di filosofia, che non ha mai scorso una pagina di Platone o di Hegel, e tantomeno intende farlo, può trovare una silloge di idee prêt-à-porter con cui imbottire paper universitari velocemente e superficialmente.
Un altro uso pragmatico della Theory permette di circoscrivere un secondo tipo di pubblico, la comunità politica che rilegge selettivamente i classici della storia della filosofia per aggiornare la vecchia agenda politica del marxismo. L’intenzione con cui questa categoria di lettori radicalizza tempi e modi della filosofia politica è ovviamente molto diversa, e del tutto rispettabile, ma l’effetto sul piano della formazione di una scolastica di pensiero è purtroppo simile: lo mostrano la corrente che si definisce biopolitica e quella del neo-spinozismo radicale, due esempi attuali di come la Theory militante tenda a confluire facilmente in quella prodotta in ambito accademico (e viceversa). Da entrambi i punti di vista, la produzione teorica nostrana sotto le etichette di «Italian Theory» e di «Italian Thought» sembra incarnare un’abile mossa di anticipo: dal momento che Spinoza è entrato nel canone dei theorist, perché non Dante, Machiavelli, o persino Leopardi e Leonardo da Vinci?, che vengono così proposti come prodotti da esportazione teorica nazionale in versioni interpretate ad hoc. Il rischio di questi ritratti preconfezionati è che evitano al lettore la fatica di farsi domande fondamentali – ad esempio se il Principe non presenti tratti un po’ autoritari, o se dall’Etica di Spinoza e dallo Zibaldone di Leopardi non spuntino idee sulla natura e sulla vita umana difficilmente conciliabili con la critica del biopotere. Queste sono domande da filosofi, o, più precisamente, da chi legge i testi con spirito filosofico. Ed è proprio questo genere di questioni che la Theory permette di aggirare.
Vorrei che queste prime considerazioni fossero accolte alla luce di altre precisazioni importanti. La prima riguarda le cause del dilagare della Theory, problema che mette in questione l’ethos del lavoro intellettuale e della ricerca di verità – si perdoni la formula altisonante ma inaggirabile –, su cui torneremo in chiusura; ma che non può limitarsi a una polemica moralistica contro chi si accontenta di una cultura teorica scadente o la produce per opportunismo, interesse commerciale o semplice desiderio di riconoscimento. Il fatto è che, come esistono gli habitus filosofici e le relative pratiche distintive (e non c’è differenza, in questo senso, tra la postura radicaleggiante del theorist e quella scientista del tipo “analitico”) così esistono anche le mode filosofiche, a cui è sempre così difficile sottrarsi a titolo personale che diventa antipatico e ipocrita denunciarle negli altri: con l’aggravante che, come ammoniva già Georg Simmel, mentre siamo disposti ad ammettere la nostra sudditanza nei confronti della moda in dimensioni futili come l’abbigliamento, quando si tratta dei valori seri della religione, della scienza, della politica e della filosofia, tutte sfere in cui dovrebbero imporsi considerazioni “oggettive” e non sociali, prevale comprensibilmente un atteggiamento di diniego o di rimozione. Per ammettere di aver accolto una teoria solo per seguire un trend o per compiacere certe categorie di lettori e vendere libri bisognerebbe essere del tutto ingenui o del tutto cinici. In ogni caso, sono questioni di coscienza individuale, che attraversano la storia del pensiero almeno dai tempi del conflitto tra Socrate e i sofisti, e che non dicono nulla di significativo sull’attualità.
Più interessante è invece chiedersi cosa, nel successo contemporaneo della Theory, rimandi alla grammatica storica della società in cui viviamo. Era inevitabile che anche la filosofia, il sapere elitario per eccellenza, vivesse secondo modalità proprie il processo di livellamento che nell’ultimo secolo hanno subito tutte le altre forme culturali. La Theory, probabilmente, non è altro che una delle incarnazioni possibili del midcult filosofico, una volgarizzazione della filosofia a misura di un pubblico medio, e delle sue, per molti versi legittime, aspettative e richieste. Ma se questo rischio è sempre implicito in ogni produzione culturale, e destinato fatalmente ad aumentare in proporzione ai processi di democratizzazione della cultura, l’aspetto in cui sembra consistere la specificità dei nostri tempi è il salto tra quella che, in passato, era una lettura e reinterpretazione creativa, spregiudicata, imprevedibile, politica, di dottrine filosofiche nella forma di Theory, e l’odierna produzione a tavolino, che palesemente sconfina nell’operazione di marketing. Abbozzando un’analisi sulla scia di Cusset, che ha ricostruito la storia della ricezione negli Stati Uniti della generazione classica di Foucault, Derrida, Deleuze, si potrebbe arrischiare un’ipotesi sempre a partire dall’esempio della biopolitica e del neo-spinozismo: mentre le teorie di Foucault, di Toni Negri, di Agamben, erano il prodotto di un originale percorso teorico, e almeno in un primo momento sono state assorbite dalla Theory con parziale indipendenza dalla strategia di posizionamento degli autori all’interno del campo culturale, si ha l’impressione che la nuova generazione scriva i propri libri in funzione di una tipologia di consumatore americano, e, per effetto di ritorno, del pubblico europeo che sempre più somiglia a quello americano. La pratica degli inviti e delle visiting di filosofi europei nei dipartimenti statunitensi di comparative literature è stata certamente decisiva, e a sua volta dipende da quello che va considerato il peccato originale a livello delle istituzioni: l’espulsione del pensiero continentale dai dipartimenti anglo-americani di filosofia analitica, che ha relegato lo studio del canone filosofico occidentale in quelli di letteratura e di studi culturali. La conseguenza di questo détournement letterario della tradizione filosofica è stata ambivalente: uscendo dalla clausura dello specialismo, l’interpretazione dei testi e delle dottrine filosofiche ha riguadagnato in richieste di significato e in ambizione critica quello che ha perso in solidità e in forza argomentativa. Alla rinuncia alla ricerca del senso e della totalità spesso proclamata dal lato analitico, si è risposto in chiave continentale con la produzione di sintesi superficiali e affrettate – una definizione ironica della Theory potrebbe essere quella di “filosofia sintetica low cost”. Con il risultato di produrre l’esatta reincarnazione postmoderna dell’antinomia tra specialisti senz’anima e profeti della cattedra che paventava Max Weber all’inizio del secolo scorso.
Il che introduce un’altra precisazione. Suggerendo che la Theory sia una sorta di pseudo-filosofia per non filosofi, non intendo sollevare una polemica snobistica contro gli usi extra-disciplinari della filosofia e tantomeno una difesa della corporazione professionale. La “filosofia”, come la intendo, non è una disciplina accademica, non richiede diplomi e nemmeno una formazione specifica, ma è un modo di pensare non scolastico e anticonvenzionale. La letteratura e l’arte ne sono parte integrante, al punto che non esito a definire Proust più “filosofo” di tanti autori che figurano nei manuali di filosofia, come di tanti theorist. Allo stesso tempo, i tentativi di difesa delle frontiere disciplinari mi sembrano pericolosi e anodini: la filosofia universitaria è sempre più afflitta dai limiti che Schopenhauer e Nietzsche avevano denunciato ormai quasi due secoli fa, e avrebbe tutto da guadagnare da una fuga dai dipartimenti come da un dialogo aperto con le altre forme del sapere. Questo dialogo, per dirla ancora con Simmel (uno dei pensatori che hanno praticato con successo l’ibridazione tra le varie forme del sapere senza mai rinunciare alla spregiudicatezza mentale) non solo rimedierebbe alla tragedia di una cultura frammentaria e parcellizzata, sempre più autonoma e distante da quel mondo vitale che l’ha prodotta per rispondere ai propri bisogni, e che solo può restituirle una direzione e un fine; ma compirebbe anche l’irrinunciabile vocazione della filosofia nell’epoca della specializzazione scientifica, ossia la capacità di conservare memoria e nostalgia della totalità. Certo, di questo bisogno di filosofia come ricerca di senso e come aspirazione al tutto sono sintomi proprio le esigenze complementari dello studente di materie umanistiche, e del militante politico, che con ragione ricercano nel “gesto teorico” la stessa cosa: un modo per riavvicinare la cultura alla vita, per costringere il pensiero a ricominciare a rispondere alle domande di significato e di giustizia. Se dunque non c’è nulla di sbagliato nel riproporre quell’attitudine generalista di cui nessuna disciplina, nessun campo di studio e conoscenza può fare a meno, dove sta l’errore? Il passo falso è nel sostituire l’unico gesto teorico veramente radicale, quello filosofico, con il suo scimmiottamento.
La debolezza principale della Theory, infatti, è la perdita di tutti gli attribuiti specifici che hanno fatto la grandezza e la potenza critica della filosofia nelle sue diverse scuole e tradizioni: non ha il rigore, la chiarezza, la solidità definitoria e argomentativa che definisce la pratica dal punto di vista formale; non sa porre domande davvero originali e spiazzanti, e non ha né la voglia né la pazienza di andare a fondo di una questione, perché antepone sempre risposte veloci e pronte all’uso alla fatica del dubbio e del concetto; e ancora – forse il suo limite più imperdonabile – non conosce il gusto di una spassionata ricerca della verità: invece di interrogarsi sulle cose ricercando quella che Marx, seguendo Aristotele, chiamava la «logica specifica dell’oggetto specifico», la Theory compie il gesto inverso: schiaccia la specificità del suo oggetto sulle solite, risapute “teorie”. Restringendo a priori il campo del pensabile e del dicibile (l’essenza della scolastica consiste nell’incapacità di immaginare oltre l’orizzonte del già noto) non solo non oltrepassa la doxa, ma ne produce una di secondo livello. Malgrado la sua proclamata intenzione critica, e anzi, forse proprio per effetto di un desiderio di posizionamento eccentrico e di totalizzazione frettolosa, la sua verità è sempre pre-giudicata, vicina al noto, subliminalmente ideologica: da cui il paradosso di un gesto “radical” che diventa prevedibilmente conformistico. Si sa già come un libro di Theory andrà a finire prima di aprirlo; ed è proprio questo senso di riconoscimento, di conferma morale delle proprie certezze e delle proprie migliori intenzioni, che garantisce il successo della pseudo-teoria. La Theory ci fa sentire a casa nella nostra falsa buona coscienza.
Ora, chi almeno una volta nella vita ha fatto l’esperienza di leggere un libro di filosofia, anche e soprattutto con un interesse non professionale, sa che si tratta di un esercizio tutt’altro che rassicurante ed edificante. Le teorie di Kant, di Nietzsche, di Wittgenstein, non ci fanno sentire a casa, ma perturbano. E ciò che disturba è proprio il crollo, davanti alla nuda e inquietante verità, delle sicurezze intellettuali e morali, di ciò che si vorrebbe fosse vero o che si è sempre ritenuto tale, di ciò che ci permetterebbe di riconoscerci e sentirci confermati nelle nostre convinzioni e nei nostri impegni. Certo, non si può chiedere a ogni lettore di filosofia di vivere lo sconvolgimento di Heinrich von Kleist, che, dopo aver terminato la prima critica kantiana, scriveva alla fidanzata di avere perso ogni motivo per vivere, o di Thomas Buddenbrook, annichilito dal Mondo come volontà e rappresentazione. Ed è altrettanto certo che non solo esistono filosofie meno pessimistiche e più ispirate dal principio speranza, ma che è la natura stessa del gesto filosofico autentico a riattivare la creazione dei possibili, grazie alla sua volontà di epochè contro pregiudizi e luoghi comuni, e alla sua capacità di considerare le cose con quello stupore – o saper guardare il mondo con sguardo straniante – da cui nasce ogni grande teoria.
Insomma: la mia preoccupazione in questo sfogo contro la Theory, che propongo di leggere più come un invito provocatorio alla discussione che come un atto di accusa, è che il pensiero perda la sua ragione di essere riducendosi a un supermercato di idee prefabbricate e modulari da comprare in stock e poi assemblare a casa come i mobili dell’Ikea. Chi cerca la teoria, provi a pensare in modo libero, e solo in quanto tale veramente critico.
[1] Non è in questione il valore degli autori sopra citati, e nemmeno quello delle varie correnti di «studies» che hanno prodotti bellissimi libri (a cui io stessa mi ispiro per scrivere i miei: da Derrida a Deleuze a Bourdieu, da John Berger a Dick Hebdige). La Theory non è nelle opere dei theorist, ma nel brodo liofilizzato che se ne ricava, senza spesso nemmeno leggerle davvero.
[2] François Cusset, French Theory: Foucault, Derrida, Deleuze & Cie et les mutations de la vie intellectuelle aux États-Unis, Paris, Éd. la Découverte, 2003, trad. it. Milano, Il Saggiatore, 2012.
[3] Cito alcuni esempi a caso dall’esperienza recente mia e dei miei colleghi: i canti carnascialeschi di Lorenzo il Magnifico letti nell’ottica foucaultiana, Botticelli e l’angelo benjaminiano della storia, Machiavelli e l’oikonomia. Per quanto riguarda la creazione artistica, le scuole d’arte e le facoltà di architettura invitano filosofi a tenere corsi che “ispirino” gli artisti, avallando così l’idea che le opere d’arte non siano autonomi esperimenti di pensiero ma semplici illustrazioni di teorie preesistenti, simili a quei regali con sopra il cartellino del prezzo che Proust paragonava alla cattiva arte.
[Immagine: Jannis Kounellis, Untitled (gm)].
Finalmente.
I miei sinceri complimenti, non era facile scrivere un intervento come questo riuscendo a evitare le secche dello snobismo, dell’accademismo, della pura reazione allergica e senza dimenticarsi di ricordare che l’anelito alla totalità e a far toccare sapere e vita è ciò che dà senso anche allo specialismo e al rigore disciplinare.
Non vedo però i toni provocatori denunciati dal titolo, anzi Barbara Carnevali mi pare civilissima e a volte fin troppo cauta. Forse è perché è una persona davvero civilissima e cauta, non so, non la conosco. Però mi viene anche un sospetto: non è che la cautela e la gentilezza siano imposte dalla paura di ritorsioni virtuali?
No perché qualche decennio fa se, che so, Pasolini scriveva sul Corriere un articolo ferocemente provocatorio, a rispondergli c’erano Eco, Fortini, Calvino, che potevano pure rispondere con un’altra provocazione feroce, ma pur sempre provocazione intellettuale.
Oggi a volte si tratta di riposte feroci ma non intellettuali, appunto forse addirittura ritorsioni (virtuali e sotto pseudonimo). Forse temiamo che un articolo che “provoca” i theorists possa spingerli a qualcuno dei loro riflessi condizionati intellettuali (eventualmente anche non espressi, ma mugugnati fra sé o con terzi lontano da questa pagina) e non ci possiamo permettere più la provocazione perché sappiamo che non se ne coglierebbe il valore ipotetico, di rilancio del pensiero, ma la si prenderebbe alla lettera, e giù botte.
Non so, a me è capitato a volte in Rete e sui social network a usare la provocazione: può andar bene in una cerchia ristretta e nota, dove ci si capisce. Di norma fuori da quella cerchia, meglio i salamelecchi (persino l’ironia, solo l’ironia, a volte rischia di innescare reazioni incontrollate).
Insomma, per chiudere su questo: mi pare che in molti stiamo capendo che a fare provocazioni si rischia troppo, dunque ci mordiamo la lingua da soli.
Ultima cosa, per me importate (e forse la cosa più pertinente rispetto all’intervento di Carnevali): saprete tutti che a scuola, all’Esame di Stato, si porta una tesina “interdisciplinare”. Sono quasi sempre pessimamente fatte. Certo, nessuno spiega ai ragazzi come si lavora interdisciplinarmente. Qualcuno perché non ha voglia di farlo, qualcun altro perché sa che l’interdisciplinarità a 18 anni e alla scuola superiore sarebbe ridicola, e preferisce innanzitutto fornire “solide basi” (come sono vecchio stampo…) in ciascuna disciplina. (Naturalmente questo rigore non significa affatto che non si possano fare i famosi “collegamenti”: io non riesco a spiegare letteratura senza far vedere quadri, ascoltare musica, anche pop, ecc…, ma sono ponticelli gettati da una terraferma ampia e chiara, la letteratura).
C’è bisogno di dire che la pressione da parte di Ministero, esperti di varia natura e decenza, il clima generale, la chiacchiera virtuale, l’OCSE, chi ci dice quanto sia meravigliosa la scuola in Finlandia, ci si insinuano nel cervello spingendoci a guardare con sufficienza alle discipline come se fossero strumenti rotti e idolatrare sincretismi e cross over accattivanti e improvvisati?
Bene, lo dico qui chiaramente: la nostra scuola italiana conservatrice, almeno per questo aspetto (almeno per questo aspetto, ripeto) sta resistendo, e fa benissimo. Se cederemo anche noi, cara Carnevali, sa quanti studenti in più arriveranno da voi all’università altro che a cercare di leggere de’ Medici con Foucault, ma a leggere Foucault con de’ Medici?
(La Finlandia, per inciso, è quel luogo nel quale stanno comiciando a destrutturare le discipline per lavorare per “problemi”. Es, “il bar”, che cosa ti serve al bar? Un certo tipo di inglese, un certo tipo di conoscenze gestionali ecc…, e io scorporo quelle conoscenze dalle discipline per fare “l’ora di bar”. Se non rabbrividite anche voi, allora o il mondo è fuori asse, o io sono paranoico).
Nell’identificare i caratteri del vero filosofare, opposti alle ragioni che spiegano la diffusione della Theory, ricorrono troppe valutazioni moralistiche.
La filosofia ha da essere “creativa, spregiudicata, imprevedibile, anticonvenzionale”, porre domande “originali e spiazzanti”, ha in sè la “fatica” del dubbio e del concetto, è “spassionata” ricerca della verità; la filosofia è l’unico gesto teorico “radicale”; le teorie di Kant, Nietzsche e Wittgenstein “perturbano”.
Di contro una filosofia “scolastica”, “scimmiottamento e bricolage di seconda mano”, costituirebbero quel “prodotto di marketing” che offre “posizionamento eccentrico e totalizzazione frettolosa”.
Ma anche questa è una logica di marketing!, quella che sprezza le copie scadenti del prodotto originale.
Prodotto originale che, secondo me, ben individua Barbara Carnevali quando scrive che “è la natura stessa del gesto filosofico autentico a riattivare la creazione dei possibili”. I possibili, possibilità di dare senso. Avvicinandosi a quel “mondo vitale” che non ha prodotto la filosofia direttamente, perché ci furono sempre mediazioni, e che la filosofia in realtà mai abbandona, quella originale come quella scolastica.
L’università americana ha tempi molto stretti di giudizio e di passaggio in ruolo: cinque anni, in cui bisogna insegnare dai quattro ai sei corsi all’anno, svolgere compiti amministrativi (ristrutturazione programmi, ecc.), promuovere la disciplina e, naturalmente, produrre un libro e quattro articoli. Altrimenti sei licenziato e devi trovarti un altro posto. La theory consente di produrre molto in poco tempo (e non è mai abbastanza). La “fretta sudaticcia” condannata da Nietzsche è il realtà parte del sistema (fondato sul conformismo, si sa). Inoltre, le grandi crisi e i grandi mutamenti interiori che possono arrivare da una seria lettura filosofica è proprio quello che si vuole EVITARE A TUTTI I COSTI. La filosofia blocca il sistema, la theory lo manda avanti. È un motivetto musicale a cui far ballare gli studenti. Poi qualcuno si ricorderà quant’era bello ballare e qualcun altro andrà a scuola di danza e diventerà professore (e si torna all’inizio).
Semplicemente: grazie.
D’accordissimo su ogni singola parola dell’articolo. Nel frattempo però la Theory nell’accademia americana è già morta e sepolta, schiacciata dalla crisi economica e dal conseguente taglio dei finanziamenti alle humanities e da riduzioni drastiche d’organico che hanno fatto come prima vittima tutti gli insegnamenti di respiro teorico. ORa Digital Humanities, cognitivismo e metodi quantitativi applicati alla letteratura stanno sostituendo psicoanalisi, marxismo e post-strutturalismo. Per carità, non la rimpiangeremo la Theory, ma le cose sono cambiate in peggio e i dipartimenti di letteratura nel frattempo stanno svoltando a destra.
Bellissimo – e necessario – intervento, una provocazione ed anche un’irritazione, nel senso della Erregung bernhardiana. Concordo anche con Deconstructed Harry. In un contesto universitario (americanizzato) come quello attuale, osessionato dall’’attrattività e dagli indici di produttività, lontano dall’esperienza concreta, dalle ore di fatica sui libri e sulle idee, in un contesto il cui segno di successo consiste nel guadagnare tempo (per terminare gli studi o, dal lato del corpo docente, per fare ricerca…ecco il paradosso), la riflessione filosofica ha l’incorreggibile difetto di farlo perdere. Come sottrarre la filosofia a questa condizione in fondo umiliante se non attraverso una produzione smisurata e un presenzialismo mediatico forsennato (circostanza non esecrabile di per sé ma in quanto copertura fashionable di una resa nei confronti della ricerca quale percorso di esplorazione e scoperta)?
Il brodino della theory (critical, ci mancherebbe) viene da un contesto in cui gli studenti sono strozzati da un debito (https://en.wikipedia.org/wiki/Student_debt) dovuto a costi d’iscrizione che possono arrivare anche a $ 40,000 per anno. Non pare che questa vile materialità (con le sue cause e le sue implicazioni) interessi a chi fa theory (critical, ovviamente, e adesso pure Italian). Non ci sono pervenute notizie di professori che usino la biopolitica per discutere il costo dell’istruzione, contestare l’ineguaglianza sociale dell’accesso all’istruzione, e la “lotta di classe dall’alto” (Gallino) che si perpetua proprio nei loro campus, nelle loro classi. «Gli oppressi / sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli / parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso / credo di non sapere più di chi è la colpa» (Fortini, “Traducendo Brecht”).
Mi permetto sommessamente di evidenziare che, nel testo della nota 3 del pregevole articolo, vi è un errore ortografico: errata avvallare, corrige avallare.
Un cordiale saluto!
Bell’intervento. Sul tema ha delle pagine molto belle Tony Judt nel suo aureo “Novecento”.
Grazie mille, mi era proprio sfuggito!
BC
(Risponderò appena possibile agli altri interventi)
@Pietro Bianchi
Può gentilmente spiegare perché cognitivismo, Digital Humanities ecc. starebbero impoverendo il sistema universitario? Non capisco dal suo commento se queste nuove correnti centrano qualcosa nello ‘svoltare’ a destra i dipartimenti umanistici. (e se anche fosse? È una tragedia?)
A ogni modo bell’articolo, questa Theory ha sì rotto le scatole, alcuni nuovi saggi non si leggono più, pieni come sono di cascate di nomi e citazioni ripetute a macchinetta e neanche un’idea originale. E purtroppo non si parla mai della distanza abissale tra ambienti universitari e ambienti extra-universitari. I dipartimenti sembrano avere la loro ragion d’essere solo per farci carriera, alas!, e si impara di più cercando risposte in strada (sì, in strada) che in studi di professori che – spesso -, pur considerandosi grandi intellettuali, hanno davvero brutte posture e molta arroganza nei confronti di chi è ‘ignorante’. Che è un peccato.
https://en.wikipedia.org/wiki/Sokal_affair
Bello, bellissimo! Brava Barbara. Nei piani bassi della scuola non ci eravamo neanche accorti di questo annacquamento del pensiero, credevamo davvero che certi teorici facessero (un po’) filosofia. Quindi grazie.
Diciamo che è dal 1882 circa che si è capaci di leggere e scrivere. Diciamo che mancano ancora gli adeguati genitori. Resta che in un Mondo dove le dirigenze hanno deciso di ammazzarci quasi tutti, trovo simili preoccupazioni solo fiato sprecato.
Sospetto che la cosa più divertente del pezzo di Barbara Carnevali sia la motivazione empirica che l’ha spinta a scriverlo
Il dominio di una “scolastica” denota sempre una difficoltà del pensiero, quando il pensiero è stretto in un campo con alte mure e più che andare in circolo a ridire ciò che ha già detto, non può. Credo ci sia stata una divergenza ai primi del secolo scorso (e la citazione di Simmel è opportuna) in cui il pensiero filosofico occidentale ha ceduto le armi della comprensione di fronte alla grande esplosione dei percorsi di conoscenza della molte discipline (sociali, umane, scientifiche) che a loro volta andavano appresso all’esplosione di complessità del reale. Credo che il punto stia lì, come ha giustamente sottolineato nel suo bell’articolo, al punto del rapporto tra i tanti pensieri ed il pensiero generale che dovrebbe pensarli, quel senso di totalità mai raggiunto e raggiungibile ma che è necessario tentare e ritentare sempre e di nuovo. La filosofia è stata colpita dal virus della divisione del lavoro (del pensiero, delle conoscenze) che è poi la struttura propria del nostro moderno vivere associato. Poiché non possiamo pensare solo ad un grave rimbecillimento di massa, dobbiamo conseguire che il problema del tenere in una o più menti, la grande chioma dell’albero della conoscenza (il problema dell’inter-disciplinarietà, della multi-disciplinarietà, del quanto orizzontale e quanto verticale amalgamare) è davvero un “difficile problema”. Ma l’alto gradimento che ha registrato questo suo intervento sembra dire che molti pensano, in un modo o nell’altro, che con coraggio, proprio quel “difficile problema” dobbiamo porci, per trovare un varco nel muro in cui ci siamo auto-confinati.
Suggerisco un parallelismo (sociologico) con la New Age.
Qualcosa si muove anche ai “piani alti” delle università americanizzate?
Forse leggere questo articolo conviene anche a chi sta “ai piani bassi” . Anche se è bene tenere a mente Brecht: Anders als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe! (Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo![1]. E poi qualcuno nei commenti (interessanti) cita persino Fortini!
[1] Dal frammento La bottega del fornaio
A proposito del problema di Dio Umberto Eco era solito dire che se Dio esistesse di sicuro doveva aver letto i suoi stessi libri, io molto + modestamente quando ascolto o leggo i filosofi di oggi (la theory) ho come l’impressione che chiunque si interessi di pensiero e di storia del pensiero, anche a livello dilettantesco, può arrivare e senza grandi sforzi alle stesse conclusioni; e che quindi non ci sia nemmeno + bisogno di leggerli. Questo presumo sia dovuto anche al fatto che oggi come non mai siamo immersi nella stessa… contemporaneità, in una maniera tale cioè che si è annullato sempre di più quello scarto che anche, per ragioni sociali e di comune accesso al sapere, fino al secolo scorso divideva l’episteme coi suoi diversi linguaggi, categorie, sistemi di pensiero, ecc. non solo dalla verità ma dalla realtà stessa fino ad arrivare, col crollo di tutti questi paradigmi, ad un’omologia diffusa. Non so se questo sia interpretabile anche come un progressivo orientamento di quelle che un tempo venivano considerate le culture alte verso un appiattimento verso il basso, quello che è certo è che quella vertigine di cui il filosofo o lo scienziato dall’età classica al 900 era unico portatore oggi si è dissolta in mille rivoli, sentieri interrotti, spesso ciechi a volte solo velleitari; e se con un po’ di buona volontà possono essere percorsi, in toto o in parte, da chiunque abbia voglia di ‘aprire gli occhi nel buio”, di sicuro l’accellerazione che i dispositivi tecnologici hanno impresso alla modernità non ci impediranno di andare a sbattere dietro ad ogni angolo, senza mai trovare in tempo un’uscita. Anche perchè tutte quelle che a prima vista sembrano vie d’uscita in realtà sono solo entrate.
https://www.facebook.com/PaulSenhal?fref=nf&pnref=story
completamente d’accordo. non c’è nessuna differenza tra il relativismo assoluto della Theory e la destra del cognitivismo. ‘Si svolta a destra’, ma bisogna essere in grado spiegare di quale destra si tratta esattamente.
Quella ‘fascista’ che non esiste se non nell’immaginario feticizzato della falsa sinistra? o quella liberista? che è identica alla prospettiva liberista di sinistra?
Se, diciamo, per sintetizzare, ‘si svolta male’, la responsabilità non è solo colpa di Salvini. Ma anche della classe intellettuale che istruisce.
Sono infatti gli studenti universitari della Theory oggi, dei Cultural Studies fino a ieri, della Teoria Gender e delle Letterature comparate, dell’altro ieri, che diventano il serbatoio di voti, la nomenclatura di falsi partiti progressisti, che cercano di distruggere lo Stato, la classe, e qualsiasi paradigma oggettivo valoriale che vorrebbe significare la sua cittadinanza, e la sua militanza, in nome dell’ ‘Altro’.
Perché bisognerà, prima o poi, farsi un esame di coscienza e tornare a esaminare cos’è davvero l’ ‘Altro’ in nome del quale si è prodotta questa possente devozione masochistica.
Curiously enough, what meant to be a polemical article ended up gathering only consensus (maybe because it is written in Italian). Where are the many academics who are supposed to be into theory? Why do not they defend their intellectual practice? As I said in my Italian post, theory is mainly utilitarian: if it did not allow to write and publish a lot quickly, probably no one would care for it. However, theory has become the common language of the humanities in American academia. It is through theory that you make a text relevant to those who never heard of it: and “relevant” means getting funded for studying it and have your book published on time (otherwise, as I said, you loose your job). Probably, Italian scholars that are so deeply into theory (as it is defined in this article) are thinking about an American career.
La riflessione di Barbara Carnevali, pur puntuale e colta nel suo rivendicare e assegnare alla filosofia il compito per un “pensare” capace di aprire/rinviare a domande che siano in grado di “inquietarci” ancora, in un tempo di povertà e smarrimento, sceglie tuttavia a bersaglio – a me pare – una configurazione astratta e generica della “theory”, che meriterebbe piuttosto uno sforzo di decostruzione analitica. Ho apprezzato la sobrietà delle sue argomentazioni, e ciò è già segno di saper ricondurre la stessa polemica allo spessore intrinseco che il “linguaggio” filosofico meriterrebbe, visto lo scadimento in cui è stato purtroppo confinato. E riconosco inoltre che molte cose denunciate da Carnevali sono vere: il rischio che la filosofia si riduca – quando non si è già ridotta – a una sorta di “scolastica debole” è probablmente l’effetto di “presunto addolcimento delle condizioni di vita” e di leggerezza sostenuto, già a suo tempo, da un certo “post-moderno” ……”ad uso dei media e della società dello spettacolo”. Tuttavia, all’interno del suo discorso critico, l’autrice fa un riferimento esplicito anche alla <> o <>: definizione “categoriale” (evito appositamente di ricorrere all’espressione “etichetta”) che rinvia ad una propria specificità geo-filosofica – ma d’altra parte è da poco tempo che abbiamo smesso di fare i conti con quella lunghissima stagione filosofica (divisione/polemica certamente di altissimo spessore) che ha contrapposto la considdetta “filosofia analitica”, ad un “pensiero”, individuabile nella sua configurazione topologica o geografica: quella, “continentale”. Ora, è pur vero che la è venuta espandendo in questi ultimi anni influenza e interesse – in Italia e di più all’estero – grazie a convegni, saggi, pubblicazioni di più studiosi (giovani e meno giovani: da Dario Gentili, a Elettra Stimilli, Laura Bazzicalupo, ecc..), che hanno provato a curarne la “sistematizzazione concettuale”, rischiando magari di alleggerirne l’orizzonte problematico. Tuttavia, come è ben noto, si deve a Roberto Esposito lo sforzo speculativo di scavare dentro un ampio “blocco d’idee filosofiche” che lo hanno spinto a ricollocare “nell’ora della sua leggibilità” (prendo a prestito un’espressione di Agamben) una plurale, articolata e “differenziata” tradizione di quel pensiero filosofico italiano (da Machiavelli a Vico), sondando se questa ricchezza di pensiero fosse in grado di corrispondere – ancora, un “pensiero vivente”, immerso e mescolato nella tessitura moderna di altri pensieri, sino a individuare nei percorsi di altri (da Agamben a Cacciari, a Marramao, a Negri, ecc..) “tracce” che, pur nelle differenze, riconducono a un alveo comune – all’urgenza di “un pensare” all’altezza delle domande della nostra contemporaneità. In questi decenni ho potuto aprezzare, di Roberto Esposito, l’alto valore filosofico della sua produzione speculativa: dagli studi su Machiavelli, Vico ai saggi sul “Centauro”, a “Categorie dell’impolitico” sino a quei saggi che legano communitas/immunitas/bios/”impersonale” ecc., dentro l’orbita di un densa riflessione filosofico-politica. Da qui, anche sugli ultimi – “Pensiero vivente”, “Due” e il recente “Da fuori” (che, in fondo, consolidano e offrono la possibile configurazione di una “filosofia europea” dentro una frantumata e ineffabile – questa sì! – inconsistenza filosofico-politica continentale), occorrerebbe che la riflessione scavasse “criticamente” sugli eventuali limiti filosofici che tali apporti di pensiero presentano, piuttosto che aggirare attorno ai margini di una declinazione che rischia di schiacciare la filosofia a scontro tra etichette. Lo dico subito, non è il caso di Barbara Carnevali, ma la mia impressione – lo dico con un ricorso a quel Simmel che Barbara Carnevali ha studiato e conosce con grandi risultati – è che la critica di Carnevali si attesti/fermi alla “cornice” (discutendo di “theory”), piuttosto che offrire uno sguardo critico sul contenuto/linguaggio del “quadro”, senza che a tutti noi sia offerto un quadro speculativo di merito/contenuti che individui – se ci sono e dove – i limiti di un blocco d’idee riconducibile alla cosiddetta . E’ come se su di essa (Italian Theory), la prova di una profonda decostruzione o di smontaggio del carattere inconsistente e evanescente della sua configurazione non si raggiungesse o non si esercitasse affatto. In altri termini, vorremmo che la “domanda filosofica” venisse arricchita, seguendo la filosofia, per così dire: iuxta propria principia.
@ Deconstructed Harry
Forse perché l’articolo è “bello, bellissimo” e condivisibile, ma provocatorio no. All’ultimo convegno ACLA ci sono stati panel che partivano presentando idee simili a queste come cose acquisite, dati di fatto.
Non sarebbe più provocatoria l’idea opposta? C’è qualcuno disposto a sostenere – fondatamente – che oggi la Theory abbia il valore di conoscenza che le si riconosceva un po’ di tempo fa? Forse ci sarebbero più reazioni, no matter the language.
la theory, o dell’uso perfettamente kitsch della teoria
Da filosofo dilettante, non ho alcuna dimestichezza con questa theory, protagonista dell’articolo.
Ciò che però ho chiaro, è che siamo ormai preda di un pensiero parcelizzato, perchè dominati dal mito di una specializzazione forsennata.
Il guaio è che anche quando ci sono autori che tentano di dipingere un quadro olistico che tenga assieme filosofia, antropologia, politica, economia, sociologia, non si trovano i lettori, molto più interessati ad un sapere saldamente nell’alveo del pensiero dominante.
Prendiamo ad esempio la filosofia politica. Mi chiedo come si possa attribuire un nome di questo tipo ad un pensiero che da per scontati i fondamenti del pensiero liberale, ed escludendo così sin dall’inizio teorie politiche di altro tipo.
Per queste ragioni, sono convinto che theory o non theory, il problema della parcellizzaizone del sapere rimane e sarà molto dura superarlo.
Dicesi Crisi da sovrapproduzione simbolica determinata dal trionfo del produttivismo nell’ambito dell’immateriale, e dunque anche delle idee, delle analisi, della critica. Discutere di questi intralci della sovrapproduzione simbolica produce il paradossale effetto di aumentare la sovrapproduzione stessa, e dunque la crisi del senso e del linguaggio (e di ambedue in uno) ad essa correlata.
La soluzione è il silenzio e l’oblio, non allungare l’elenco dei nomi e delle pubblicazioni, ma scorciarlo tornando a fare uso della nobile arte dello scarto archivistico. Il male comunque è più antico della “theory”, come ci ricordava il buon Juan Rodolfo Wilcock raccontandoci la storia di Absalon Amet e del suo “Filosofo Universale”
Mi sento di sottoscrivere in toto il tuo intervento. Ma per rispondere a provocazione con provocazione, direi che non è abbastanza radicale, insufficientemente provocatorio, in quanto confinando la pigrizia del pensiero al campo della Theory sembra offrire un alibi a tutti che coloro che invece si ritengono Filosofi e propagano le stesse disdicevoli abitudini di non-pensiero nei nostri dipartimenti continentali di filosofia. Penso a tutti i foucauldiani d’accatto, a tutti i riduzionisti che si dicono bourdieusiani, a tutti i fanatici della socio-histoire: i nostri dipartimenti mi sembrano zeppi di cosiddetti intellettuali che altro non fanno che riproporre ciò che Nietzsche aveva bollato come ‘canzoni da organetto’. Cosa resta della geniale grandezza di Foucault o di Bourdieu in quelle dimostrazioni stereotipate e in quegli esercizi di scrittura automatica che sono così tante genealogie o ‘disvelamenti’ che con arroganza ci vengono proposti come modello di pensiero unico? In quanto si differenziano dalla produzione cieca di decostruzioni che ci propinano i sostenitori della Theory di oltre atlantico?
La Theory, mi sembra, ci è tornata indietro come un boomerang e si nasconde da noi con abilità sotto il manto di un nuovo pseudo-intellettualismo generalmente anti-analitico, spesso confusamente alleato con le scienze sociali, che diventano un mero alibi per mettere da parte il rigore del pensiero.
Laddove parole come ‘norma’, ‘verità’, ‘giustizia’ sono guardate con derisione e scherno dall’alto di una autoproclamata superiore scienza del sospetto — come se nulla fosse accaduto dai tempi di Ricoeur — i peggiori vizi che hanno prodotto la Theory sono all’opera. Tra questi, credo, la pigrizia intellettuale gioca oggi un ruolo ahimè più grande che la stupidità, e l’incompetenza bollata come rifiuto del tecnicismo rappresenta l’ultimo rifugio peccatorum dei suoi ostinati sostenitori.
Provocazione non priva di ragioni. Devo dire che molti degli autori citati sono per me importanti. Alcuni schiudono prospettive che reputo irrinunciabili. Il problema è tutto nella moda, negli slogan usati per attirare i “profani” senza richiedere un’entrata graduale e impegnata nel mondo della filosofia. Tutto e subito, senza approfondire. Nella cucina del tempo va il cibo rapido, anche per la mente e per il cuore. Questo è un danno dovuto a chi fa, del pensiero dei singoli, una “corrente”, una theory (appunto) riconoscibile e indentificabile. Tra l’altro, ironia della sorte, porre un’etichetta sul pensiero erratico di questi filosofi vuol dire tradirne l’intenzione profonda. Tra i poli della filosofia senza studio e della filosofia senza pratica posso dire, con gioia, di aver trovato una via attuale credibile, che riapre la ricerca di senso alla filosofia come modo di vivere. Per chi non lo conoscesse riporto il link a uno scritto di Romano Màdera. La filosofia che mira all’Intero per sanare le fratture dell’esistenza e “curare” la vita passa anche di qui: http://www.scuolaphilo.it/docs/Madera-abof.pdf
Finalmente uno squarcio di luce, notevolissimo anche nello stile: grazie.
Scimmiottando proprio la ‘Theory’, verrebbe da dire: “92 minuti di applausi!” (cit.). ;-)
La Theory ci spinge verso loop ossessivi, auto-legittimanti di (quello sì) vero e proprio Potere panoptico. Questo lo hanno capito (magari tardivamente) anche le folle depresse di dottorandi e “independent scholars” che si barcamenano come possono tra rifiuti, bocciature sonore, litigi con comitati editoriali di peer-review, borse di studio assegnate sempre ai soliti noti, ecc ecc ecc.
Grazie per questo saggio.
Articolo molto bello e interessante. Penso che tante delle critiche qui avanzate potrebbero a ragione estendersi anche agli “studi governamentali”, di cui da un po’ di tempo mi interesso a vari livelli. La minaccia di una riduzione a “filosofia sintetica low cost” l’avverto con forza, tanto più in quanto provengo (senza per altro averli affatto abbandonati) da studi invece del tutto ”classici” e passibili semmai dell’accusa opposta di iperspecialismo accademico. Il che non è affatto motivo di rassicurazione, perché in questi casi, anzi, è tipica l’oscillazione tra il peggio dell’una e dell’altra maniera, ovvero dagli stereotipi e dalle scolastiche di questa a quelli dell’altra e viceversa.
Forse però un argine a questi pericoli – che non vuol dire una garanzia contro di essi – lo si potrebbe trovare nel forte ancoraggio negli studi governamentali ai saperi concreti, alla cura genealogica per documenti, testimonianze, testi e così via, insomma in ciò per cui Nietzsche ritiene evidente “quale colore debba essere più importante del blu del cielo per un genealogista della morale e cioè il grigio, voglio dire, l’autentico, ciò che si può realmente verificare, ciò che è realmente esistito”; e Foucault riprendendolo: “La genealogia è grigia; meticolosa, pazientemente documentaria […]”, costringe a “un’indispensabile cautela: reperire la singolarità degli eventi al di fuori di ogni finalità monotona […], costringe a seguire la trafila complessa della provenienza”, ecc. In questa aderenza genealogica alla materia, la tendenza a far cadere dall’alto una tesi preconfezionata (una “theory”) su un materiale inerte pronto ad accoglierla docilmente – una delle accuse più consistenti avanzate da Barbara Carnevali – incontra almeno in linea di principio una controspinta. Sia nel senso di un’impulso nella direzione della – come la chiama Carnevali- “logica specifica dell’oggetto specifico”, quella che la Theory all’inverso liquiderebbe in quanto appunto “schiaccia la specificità del suo oggetto sulle solite, risapute ‘teorie’”. Sia, anche, nel senso di una distanza da studi che, pur con tutte le migliori intenzioni “critiche”, tendono oramai sempre più spesso a risolversi in un astratto rito di canonizzazione sotto forma di parole d’ordine, gergo istituzionalizzato, omaggi concettuali, rimasticature suggestive, ecc. – in breve, in movenze di maniera.
C’è un punto però sul quale ho qualche difficoltà a ritrovarmi con la ricostruzione di Carnevali (e qui mi paiono molto centrate le osservazioni di Deconstructed Harry). Non credo che l’antitesi weberiana tra “specialisti senza anima” e “profeti della cattedra” che l’articolo richiama restituisca – quand’anche rivisitata in chiave postmoderna – il quadro della filosofia accademica di oggi. Lo scienziato di professione, lo studioso specialista che Weber contrappone al dilettante di genio, al profeta in cattedra, mi sembra, in realtà, una figura residuale, in assoluto quella meno rispondente alle attuali esigenze dell’accademia e della ricerca accademica. Il “capitalismo accademico” che abbiamo intorno e di fronte, anche quando assume l’aspetto di un neotaylorismo, ha tutt’altra forma da quello di inizio novecento. Le rigidità di quest’ultimo (Weber parla degli istituti universitari come di “imprese capitalistiche dello stato”) non sono compatibili con la produzione snella (just in time) richiesta dalla entrepreneurial university (e in questo senso anche la dinamica vita/forme che anima la tragedia della cultura moderna non mi pare potersi trasferire all’attuale prodursi della vita, come del resto lo stesso Simmel aveva in qualche modo previsto). Così, per quanto possano convergere in alcuni tratti, la figura di spicco dell’accademia oggi non è lo scienziato di professione (persuaso che “l’idea si prepara a germogliare solo sul terreno del duro lavoro”), ma lo “scienziato imprenditore”: l’esperto, il “portatore” di competenze, di soluzioni rapide ed efficaci nonché di capacità relazionali e comunicative (indispensabili per attrarre finanziamenti e capitale umano). Non specialisti, quindi, ma individui altamente flessibili, capaci di produrre risultati immediati, a loro agio nei tempi contratti di una ricerca oramai escusivamente a progetto, veloci, disinvolti, vulcani di eventi, costruttori e percorritori di reti, “droni della ricerca” allo stesso tempo aggressivi e sottomessi (la condizione precaria è qui decisiva). Di questi entrepreneurial academics non si può negare che anche la theory e gli stessi studi governamentali ne alimentino alquanti, basta uno sguardo alle nuove geografie di potere che si sono andate disegnando nella generale corsa dell’accademia verso valutazione e visibilità. Dell’idea che “il destino della propria anima dipende appunto dall’esattezza, poniamo, di quella congettura, proprio di quella, rispetto a quel passo di quel manoscritto”, come all’opposto (ma realmente poi tale?) di nostalgia della totalità, in questo nuovo idealtipo non v’è neppure l’ombra, le “toglie” entrambe. Se sia mancanza di cui dolersi lo si valuta, forse, sulle alternative.
Ho una domanda: perché nell’articolo non c’è accenno ai lavori di Roberto Esposito e alla sua definizione di italian theory? In particolare l’ultimo libro di Esposito, Da fuori, parla di italian thought e da un senso teorico al movimento di de territorializzazione che porta i filosofi e il pensiero europeo nelle università americane. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa.
Ringrazio tutte le persone che sono intervenute nella discussione, rendendola così vivace e interessante. Risponderò molto brevemente solo agli spunti critici.
@Lo Vetere
@Roberto Fai
@Teresa
I vostri commenti si rispondono a vicenda.
Da parte mia, nessuna cautela: ho scelto deliberatamente di non fare nomi e distinguo.
Volevo che il pezzo non suonasse come una recensione o come un attacco contro l’Italian Theory e i suoi esponenti, ma come una riflessione epistemologica e di filosofia della cultura. Il caso italiano, nelle mie intenzioni, era solo l’occasione per sollevare alcune domande generali che mi sembrano più importanti dell’attualità editoriale: che cos’è quella cosa che chiamiamo Theory e come si colloca rispetto alla filosofia? Che cosa dice del nostro rapporto con il sapere, della divisione del lavoro intellettuale, dello stato della nostra università? Da quali fattori storici, sociali, istituzionali ed economici dipendono la sua nascita e il suo propagarsi?, Come arginare l’impoverimento del pensiero?
Alcuni interventi hanno colto questa intenzione e l’hanno integrata con correzioni importanti. Ringrazio in particolare @Deconstructed Harry, @Pietro Bianchi, @Giovanni Diui e @Valeria Pinto, per le loro osservazioni che condivido pienamente.
@pg
Posso citarle due scintille rivelatorie, più che motivazioni empiriche. Un giovane artista veneziano che, anni fa, per parlarmi delle sue opere, mi disse «lavoro sul tema agambeniano del “dispositivo”»; e uno studente che, a fine corso, mi ha chiesto «per il prossimo anno si potrebbe avere un po’ di Benjamin? Ci “serve” di più per i paper di storia dell’arte» (avevo insegnato Proust e Simmel, il maestro di Benjamin). Purtroppo non è divertente.
Grazie ancora a tutti,
e to be continued…
Un’impressione: che nel pezzo e nei commenti si parli di “theory” esattamente come le Sentinelle in piedi parlano di “gender”. Con tutte le conseguenze del caso.
Saluti
Croce parlerebbe probabilmente di pseudoscienze. Bella verve, Barbara!
Tutto questo è un corollario che nelle nostre discipline è facile scivolare dalla ricerca della verità alla ricerca di mostrarsi brillanti, e con poca spesa, come fanno gli autori di pastiche di cui parli.
L’errore della Carnevali è considerare filosofia la Theory, che è semplice divulgazione. Cade dunque nella fallacia del fantoccio. Provi ad argomentare contro i filosofi che la Theory divulga, se ce la fa. Di questa critica puntuale non c’è alcuna traccia nell’articolo, che ho trovato piuttosto inutile.
Gentile Barbara, è molto gradevole leggere la sua riflessione, vivace e puntuale. In fondo la Theory che altro è se non una riproposizione di quell’arte sofistica di cui Platone dice:
” Riguardo i ragionamenti non possiamo presupporre che esiste un’arte mediante la quale è possibile raggirare i giovani, che si trovano ancora lontano dalla verità delle cose con dei discorsi, piacevoli alle orecchie, che mostrano immagini fatte di sole parole su ogni questione, tanto da fare ritenere che viene detta la pura verità e che chi parla è il più sapiente di tutti gli uomini in ogni campo? ”
La sofistica è una sorta di ombra, nera e ontica, che accompagna l’essere del filosofo. Ogni filosofo dovrebbe temere la sofistica non tanto in sé, quanto nel proprio sé (come dire: non temo la sofistica in sé ma la sofistica in me).
Intanto la saluto cordialmente