cropped-b338089809d016cc642cdecc347fc83a.jpgdi Mirko Lino

Apparizioni digitali

 La diffusione di tecnologie digitali immersive, come gli headset per la Realtà Virtuale (VR) e le app come Aurasma per la Realtà Aumentata (AR), promettono l’esplorazione di realtà “altre” dove la fruizione passiva viene riconfigurata in pratiche immersive e performative. Infatti, indossando i visori VR ci si troverà immersi in una realtà esperibile a 180° o 360°, costruita con tecniche di computer graphic in 3D, in cui gli ambienti grafici e le figure (avatar e bot) che popolano questi mondi sintetici compaiono “miracolosamente” davanti ai nostri occhi; alla stessa maniera, puntando il nostro smartphone su un marker Aurasma, immagini e brevi video di 30-40 secondi compariranno sullo schermo sovrapponendosi agli spazi fisici in cui ci troviamo. Non sembra allora esagerato parlare di immagini che appaiono come piccole epifanie provenienti da livelli ontologici differenti e integrati, che si mescolano con quelle esperibili negli spazi fisici, richiedendo all’utente una serie di azioni e ricomposizioni, o che ci traggono fuori dallo spazio reale e materiale, offrendo all’utente immerso livelli profondi di intrattenimento. Se da un lato, come è ormai noto, questo mercato ha trovato nella pornografia[1] e nel videoludico le officine per sperimentare diversi livelli di coinvolgimento emozionale e fisico, garantendo l’immersione dell’utente in porno-mondi virtuali, o in ambienti videoludici totali – grazie all’implementazione della soggettiva tipica del porno “gonzo” e degli “sparatutto” – dall’altro lato, queste nuove tecnologie stimolano anche la sperimentazione di modelli narrativi complessi, con cui elaborare simbolicamente la complessità dell’odierna società digitale, chiamando spesso in causa immaginari del complotto e dell’apocalisse.

In quest’ultimo caso si tratta di storie in cui le immagini che ci appaiono sono capaci di innescare una sensibilità mistica a partire da veri e propri miracoli ipermediali generati da una trasfigurazione digitale di ambienti reali.

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Dal punto di vista formale molte delle narrazioni mediali della convergenza (digital storytelling) sono organizzate prevalentemente su strutture ipertestuali e non lineari, sull’integrazione di più linguaggi mediali e una fruizione che richiede l’attraversamento di territori mediali differenti: così, ad esempio, nei progetti interattivi e transmediali di webserie, webmovie e webdoc. Mentre le storie che circolano su tali formati offrono degli interessanti spunti per ripensare i rapporti tra il sacro e il profano, la vita e la morte, il vero e il falso. Si veda, ad esempio, il recentissimo Excape Martina di Riccardo Milanesi, un esperimento di live fiction-game esperibile e giocabile solo via Facebook, il cui scopo è mantenere in vita un personaggio di finzione (con tanto di profilo fake) attraverso la narratività intermediale tipica dei social network, fatta di commenti, post, video e audio, uplodati dagli utenti; in altre parole, un modello narrativo che lavora per abbattere i confini finzionali tra dimensione online e offline.

Quello del confine tra sacro e profano delle immagini riprodotte tecnologicamente è un tema delicato, riproposto da un certo postmodernismo letterario che, a partire dagli effetti dell’immagine cinematografica sulla percezione e costruzione della realtà, è stato capace di intuire e prefigurare risvolti culturali profondi in relazione alle tecnologie del visivo.

Ad esempio, le bellissime pagine finali di Underworld (1997) di Don DeLillo ci raccontano l’apparizione miracolosa di un’immagine ai tempi in cui il computer e Internet cominciavano a diffondersi capillarmente, sancendo nuove modalità di organizzazione del sapere attraverso immagini ri-mediate da altri medium. Si tratta dell’apparizione del volto della giovane Esmeralda[2]: una ragazza problematica, sotto la custodia di due coraggiose suore, che viene uccisa violentemente nel Bronx. Con il suo prezioso stile plurilinguistico, DeLillo ci racconta un miracolo postmoderno, “una notizia senza i media” (872) che diventa “virale”: un avvenimento che si ripete per un paio di sere sotto gli occhi di alcuni passanti, arrivando a raccogliere un numero sempre maggiore di persone e l’attenzione dei media, sino all’inevitabilmente rovesciamento del miracolo in una catastrofe urbana. A un certo punto, nei pressi di un passaggio ferroviario, quando i fari del treno della sera colpiscono il cartellone pubblicitario di un succo d’arancia della Minute Maid, appare ben visibile il volto della giovane ragazza scomparsa. Come presto si capirà si tratta solo di un’illusione ottica destinata a terminare nel momento in cui verrà cambiata l’immagine pubblicitaria.

In queste pagine, tra le più suggestive e rivelatrici del suo capolavoro, lo scrittore americano descrive intensamente la controversa credenza nelle immagini, dicendoci come nell’iconografia della merce (il succo d’arancia) si nasconde una sacralità (“c’è una sensazione di vita dentro l’immagine, uno spirito animatore [875]) che inevitabilmente si confonde con un sentimento di morte: il volto della ragazza morta, la morte di suor Edgar e quella di John Edgar Hoover, capo dell’FBI, al centro dell’ekphrasis del brugueliano Trionfo della morte con cui DeLillo apre il romanzo (tutto Underworld, come gran parte della produzione letteraria dello scrittore, riflette ossessivamente sulle elaborazioni simboliche della morte e del lutto). Nell’epilogo del romanzo la vita reale viene trasfigurata in pixel, tag sui motori di ricerca e flussi audiovisivi, in un pellegrinaggio senza fine tra online, offline e memoria – dal sito miraculum, dove sono archiviate le apparizioni di Esmeralda, al sito della bomba H, in cui sono catalogati i video delle esplosioni nucleari del Novecento – con il fine di interrogarsi proprio sui confini tra cyberspazio e reale: «il cyberspazio è una cosa dentro il mondo, o il contrario? Quale contiene quale, e come si può esserne sicuri?» (879).

L’affascinante suggestione dell’apparizione di un volto in uno schermo urbano (il cartellone pubblicitario, oggi massicciamente sostituito, appunto, dagli urban screen) al cospetto della fede nel consumo del mondo postmoderno viene restituita da DeLillo mimando un’esperienza cinematografica (fari del treno=fascio di luce; cartellone pubblicitario=schermo; il volto=il primo piano del soggetto ripreso; gente che attende la visione=il pubblico in sala). Non si tratta, però, di un’esperienza di cinema tradizionale, bensì di un cinema “scomposto” nei suoi elementi portanti, pronto per essere ricostituito come esperienza fuori dagli spazi classici (la sala), disseminato tra quelli della città, delineando un’esperienza ibrida e immersiva, in cui l’immaginario, le credenze e la realtà neutralizzano le rispettive barriere. In altre parole, DeLillo descrive un’esperienza di “cinema espanso”, secondo la definizione di Gene Youngblood, o di postcinema. In entrambi i casi si tratta di termini usati per esprimere le diverse spinte che conducono il tradizionale regime cinematico verso una ricca espansione linguistica nonché ontologica: un cinema che supera i limiti spaziali della sala cinematografica per ri-locarsi nella metropoli contemporanea e, ibridandosi con il web, nei nostri device digitali.

Merito del postcinema è quello di indicarci le direttive di una rinnovata dipendenza dalle immagini digitali, dalle tecnologie della visione che le producono, illustrando gli immaginari simbolici al centro di iper-narrazioni squisitamente complesse e non-lineari che popolano la fiction online e i diversi contenuti webnativi emersi negli ultimi anni (dai video di YouTube, alle webserie, i webdoc sino ai video interattivi basati sulla geolocalizzazione, ecc).

In questo scenario in continua espansione e arricchimento di forme e formati, di immagini e modalità di racconto, un libro utile per la comprensione dei cambiamenti in atto negli strati della cultura mediale è Visioni digitali. Video, web e nuove tecnologie[3] (Einaudi, 2016), ultimo saggio di Simone Arcagni, frutto di un lavoro di ricerca durato circa dieci anni, in cui l’autore fornisce al lettore una mappa dettagliata del postcinema, del suo linguaggio e dei suoi formati, senza perdere di vista le direzioni simboliche a cui fanno riferimento queste articolate produzioni mediali – si faccia particolare attenzione all’utile mappa dei formati con cui si articola il linguaggio del postcinema inserita a pag 36.

Il postcinema, secondo Arcagni, è descrivibile come una galassia di audiovisivi digitali in cui rientrano i video di YouTube come i tutorial, le costruzioni seriali transmediali come i casi dei quality serial come The Walking Dead in cui la narrazione si espande trasversalmente su più territori mediali, i videogame come Assassin’s Creed, e progetti più articolati e stratificati, come gli Alternate Reality Game (ARG), i webdoc interattivi, e gli audiovisivi basati sulla geolocalizzazione, come The Wilderness Downtown il video del gruppo Arcade Fire girato da Chris Milk. Ma è anche il linguaggio dominante per gli ambienti ibridi dell’infosfera, ovvero una dimensione caratterizzata da profonde ibridazioni linguistiche tra media differenti, dall’immersività e interattività dello spettatore, ormai un vero e proprio utente media-attivo che remixa e fa il mash-up di testi audiovisivi differenti (si veda, ad esempio, Scary Poppins, il classico della Disney ri-editato come fosse un horror movie). Pertanto, come ricorda l’autore, quelle veicolate dal postcinema sono esperienze complesse «che si rifiutano di essere catalogate all’interno di un recinto ermeneutico tradizionale, nei confini stretti di cinema, televisione, giornalismo» (p. VIII)

 

Complotti, apocalissi e postcinema

Visioni digitali non solo effettua una necessaria ricognizione tra formati, oggetti e contenuti mediali complessi, ma fornisce interessanti occasioni di riflessione sugli aspetti formali e tematici della narratività contemporanea, riguardo alle narrazioni digitali che prediligono l’espansione transmediale e l’integrazione intermediale per costruire storie la cui ambizione è quella di confondere ancora una volta i confini tra finzione e realtà, tra verità storica e falsità finzionale.

L’esempio che Arcagni utilizza per trarre le conclusioni del viaggio, in quella che definisce sin dalle prime pagine “galassia postcinema”, è una narrazione complessa che verte proprio sull’apparizione in cielo di immagini miracolose e apocalittiche, capaci di illuminare in chiave mistica il nostro immaginario cinematografico collettivo. Si tratta del Blue Beam Project (si veda qui): una pluriarticolata narrazione complottistica-distopica che racchiude il senso profondo del nostro rapporto con le immagini audiovisive in generale e con la fantasmaticità olografica di quella digitale.

Blue Beam è la narrazione di un complotto ordito da potenze plutocrati che hanno lo scopo di controllare le menti delle persone attraverso HAARP un sistema di comunicazione iperconnesso (che trae ispirazione dall’Arpanet, l’antesignano degli anni ’60 di Internet) e telepatico, capace di integrare i media tradizionali (tv, radio, cinema) e digitali, le trasmissioni satellitari e l’uso dei social media, e che culmina in un’esperienza “ipercinematografica” effettuata dalla NASA che, attraverso il surriscaldamento controllato della stratosfera, trasforma la volta celeste in uno schermo cinematografico totale su cui proiettare delle immagini. Su questo schermo mistico appaiono «croci, figure di dèi, divinità, mostri, Ufo […] immagini che fanno parte del nostro bagaglio di storie, che provengono dagli immaginari che i libri e il cinema hanno creato […] epifanie, quindi che si connettono a racconti… racconti mitologici, epici, religiosi, fantascientifici, orrorifici, fantasy. Un vero e proprio archivio del cinema del Novecento che dispiega tutta la potenza del suo immaginario» (125). Il percorso visivo delle proiezioni celesti di Blue Beam si conclude, coerentemente con un paradigma apocalittico, con l’immagine palingenetica di Maitreya, contraltare buddista alla seconda parusia del cristo evocata nell’apocalisse biblica, icona di un nuovo ordine religioso che ha il fine di assicurare il controllo definitivo sulle masse sfruttando il potenziale suggestivo di immagini mitico-religiose, capaci di risvegliare nell’utente ansie mistiche, paure apocalittiche e speranze palingenetiche.

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Questo esempio si inserisce all’interno del caleidoscopio di formati e narrazioni audiovisive che popolano la galassia del postcinema, riconoscibili per una complessità genetica articolata sui concetti di interattività, partecipazione, immersività e un’organizzazione formale frattale, in cui la tradizionale linearità narrativa cede il passo alla non-linearità di più formati mediali integrati e interagenti (intermedialità), e dove il portato simbolico è tutto da ricomporre.

Il cinema, quindi, fornisce una prima alfabetizzazione alle promesse totalizzanti della Realtà Virtuale e partecipative della Realtà Aumentata, delle strutture narrative pluriarticolate e stratificate su più media, mentre le forme narrative del complotto e dell’apocalisse funzionano come strumenti capaci di riassumere la complessità dell’interazione con gli universi diegetici espansi che caratterizzano l’affermazione del paradigma digitale.

Il digital storytelling che popola il web presenta una narratività retta sulla definitiva perdita di consistenza del dualismo tra reale e virtuale, e pertanto sul pellegrinaggio di spazi mediali differenti, proprio come nel caso di Blue Beam e di altre narrazioni simili – si vedano 28 (2013) del collettivo Komplex (qui), Collapsus (2011) di Tom Pallotta (qui), il seminale GRAMMATRON (2000) di Mark Amerika (qui) – accomunabili, oltre che per la configurazione intermediale, per il dispiegamento di trame complottistiche e per lo spiccato gusto per il genere narrativo dell’apocalittica.

Secondo Arcagni, infatti, l’audiovisivo che determina l’esperienza fruitiva di Blue Beam non solo mescola il reale e il simbolico, ma crea piuttosto una configurazione ibridante in cui si affermano modelli narrativi che non possono non risultare pluriarticolati, espansi tramite l’uso complementare e integrato di più formati mediali, offrendo all’utente una fruizione attiva e partecipata. La struttura formale adeguata a contenere la complessità dello scenario tecnologico digitale è quella inter/transmediale, dove la fitta rete di informazioni e dei contenuti trova nel tessuto complottistico, per natura reticolare e non-lineare, una forte pertinenza formale:

le teorie dei complotti offrono un accesso più semplice e alcune linee guida. Senza rinunciare a un approccio sistemico e complesso, ne offrono comunque una versione semplificata […] chiamano in causa la partecipazione, sono decisamente non lineari e si dispiegano in uno spazio ibrido tra credenze, verità e sospetti, intrecciando non solo ambienti e personaggi reali, ma anche notizie, informazioni e fornendo chiavi di lettura e di interpretazione (132).

Arcagni descrive uno scenario narrativo e mediale che tende a confermare quanto scriveva Fredric Jameson nel famoso Postmodernismo, ovvero la logica cultural del tardo capitalismo (1991; 2007), in riferimento al movimento letterario cyberpunk e alla paranoia high-tech. Il teorico del postmodernismo aveva trovato nella formula narrativa del complotto uno schema, sebbene riduttivo e incompleto, per interpretare il disorientamento percettivo e la complessità all’interno di società ipertecnologiche.

Il tema ricorrente nelle narrazioni complottistiche e culminanti in un sentimento apocalittico è proprio la duplice crisi delle strutture soggettive solide e delle istituzioni culturali davanti a paradigmi tecnologici immersivi. Osservando gli esempi citati precedentemente emerge l’eredità di quelle architetture narrative complesse che hanno caratterizzato alcuni classici del postmodernismo letterario. Pensiamo, ad esempio, all’organizzazione rizomatica dei livelli narrativi in L’arcobaleno della gravità (1973) di Thomas Pynchon, alla struttura assiale di Infinite Jest (1996) di D.F. Wallace, ai raffinati incastri tra le diverse microstorie del già citato Underworld: romanzi che dispiegano complotti e rimandano a un viscerale sentimento della fine. Tale lezione testuale-formale si ritrova implementata nella transmedialità di grandi narrazioni seriali televisive come Lost e The Walking Dead, famose per mettere al centro trame complottistiche e apocalittiche, nell’hypertext fiction interattiva di progetti come Collapsus, dove l’utente si muove su più formati mediali online, per vivere all’interno di un mondo ormai segnato da una crisi energetica di proporzioni apocalittiche, o negli Alternate Reality Game (ARG) come The Beast (2001), un game interattivo da giocare a cavallo tra la dimensione offline e online e che espande l’universo distopico-apocalittico del film A.I. (2001) di Spielberg, o il più recente progetto Futour 2045 (2014) (qui), sviluppato da Riccardo Milanesi e Domenico Morreale, che attraverso il coinvolgimento degli utenti sui social media raccoglie i contenuti per una storia fantascientifica (crowdstorytelling) sul trasferimento degli uomini dal presente a un futuro (il 2045) troppo perfetto per non apparire distopico (non ci si ammala e si vive in eterno) e da cui non si può più tornare indietro.

Se il postcinema emerge come la logica di un modo di organizzare le forme del sapere in maniera meno rigida e orizzontale, con cui descrivere le relazioni tra le identità soggettive e collettive e gli apparati tecnologici avanzati, le trame del complotto e gli immaginari apocalittici forniscono un paradigma interpretativo, un modo per simbolizzare il mutamento su larga scala di un’ontologia in cui materialità e immaterialità digitale, realtà e virtualità, si sovrappongono e ibridano. Come ricorda Arcagni, in questo scenario i media vengono de-ritualizzati per essere ritualizzati nuovamente «in una forma che prevede la partecipazione, l’interattività, l’ubiquità, la condivisione, la connessione e la geolocalizzazione» (137-138). In questo modo, le immagini dei media digitali a cui possiamo accedere, o che possiamo fare apparire, innescano una sacralità del visivo spinta da tecniche infografiche più profonde e articolate, che traducono la sospensione dell’incredulità, realizzatasi con l’apparizione magica dell’immagine in movimento del cinema, in una sensibilità performativa e immersiva necessaria per esperire l’audiovisivo postcinematografico e muoversi tra i suoi intrighi narrativi.


[1] Per farsi un’idea si vedano i seguenti articoli: Mirko Lino, Porno nel virtuale. Wearable media & immersive porn (2015) “Doppiozero”: http://www.doppiozero.com/materiali/commenti/porno-nel-virtuale; Emiliano Cozzi (2016) “Wired”: Storia definitiva al porno in realtà virtuale: http://www.wired.it/gadget/foto-e-video/2016/05/06/guida-definitiva-al-porno-in-realta-virtuale/ ; Simone Arcagni, E se fosse il porno il contenuto più tecnologico dell’infosfera? (2016) “Nòva – Il Sole24Ore”: http://simonearcagni.nova100.ilsole24ore.com/2016/07/18/e-se-fosse-il-porno-il-contenuto-piu-tecnologico-dellinfosfera/

[2] La vicenda presentata nel finale di Underworld tra origine da un racconto precedente dello scrittore americano, L’angelo Esmeralda (1994), pubblicato recentemente in Italia da Einaudi nel 2015.

[3] Per una recensione più dettagliata del libro si veda «Cinergie – il cinema e le altre arti» n.9, Aprile 2016: http://www.cinergie.it/?p=6139.

[Immagine: Blue Beam Project].

1 thought on “Complotti, apocalissi e visioni postcinematografiche

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