di Giorgio Amitrano
[Nel mese di novembre è uscito per Einaudi il romanzo 1Q84, scritto da Aruki Murakami, il più noto scrittore giapponese contemporaneo. Come tutti gli altri libri dell’autore di Kafka sulla spiaggia riproposti in Italia – per esempio La ragazza dello sputnik, Tutti i figli di Dio danzano, Norwegian Wood – anche 1Q84 è stato tradotto da Giorgio Amitrano, che insegna Lingua, cultura e letteratura giapponese moderna e contemporanea presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, e ha tradotto, oltre a Murakami, Banana Yoshimoto, Yasunari Kawabata, Yasushi Inoue, Kenji Miyazawa, Atsushi Nakajima]
Alcuni anni fa si tenne a Tokyo un convegno sulle traduzioni delle opere di Murakami in varie lingue. Poiché è uno degli autori più pubblicati nel mondo, i traduttori invitati erano numerosi. A causa di un impegno non mi fu possibile partecipare, ma dover rinunciare mi dispiacque. Sarebbe stata per me un’opportunità unica di incontrare tanti colleghi stranieri che lavoravano su Murakami e confrontarmi con loro. Vi è una strana parentela tra persone che senza conoscersi fanno lo stesso lavoro in luoghi diversi. Mi era già successo una o due volte di fare questo tipo di incontri e avevano sempre lasciato il segno. Non credo che degli artisti, avendo occasione di fare conoscenza, provino lo stesso senso di fratellanza. Potrebbe succedere, credo, a tecnici e artigiani. Persone che in paesi, o addirittura continenti diversi, lavorano a uno stesso prodotto, che si tratti della costruzione di violini o della manifattura di gioielli. Perché la traduzione non è un’arte: è artigianato e magia.
Tradurre Murakami significa, dall’inizio alla fine, affrontare problemi concreti, cercare pazientemente nella propria cassetta degli strumenti la parola giusta e, una volta trovata, valutarne il colore, il peso, la densità; giudicarla perfetta e doverla poi, con rammarico, mettere da parte perché non “lega” col resto della frase. Oppure capita di usare la lima per ridurre le ripetizioni, sapendo che in giapponese sono accettate e in italiano no. Alcuni giudicano la ripetitività di Murakami un difetto, ma anche se a volte io stesso la trovo irritante, devo ammettere che le sue ripetizioni non indeboliscono il racconto, anzi lo rafforzano. E alla fine diventano una cifra stilistica. Per questo bisogna fare attenzione. Limare troppo modificherebbe il profilo dei suoi testi, alterandone i lineamenti. Allo stesso tempo, riprodurre integralmente ogni ripetizione, ignorando che giapponese e italiano obbediscono a diverse regole di logica e ritmo, provocherebbe nel lettore un rifiuto.
Lavorare preoccupandosi di simili questioni è artigianato. A volte la gioia di trovare le soluzioni adatte ai problemi più diversi si trasforma in orgoglio. Credo che questo peccato meriti indulgenza: mal pagato, spesso vessato dagli editori, criticato nei forum di internet da dilettanti astiosi, il traduttore ha diritto a qualche momento di solitaria e innocua autoesaltazione. Vi è però un peccato di orgoglio che non può essergli perdonato: quello di ritenersi un creatore. L’invenzione assoluta appartiene allo scrittore. Il traduttore ha il compito di trasmettere il suo messaggio, conservando tutte le informazioni che contiene, e di offrirlo al destinatario – attenzione – non nella forma più bella di cui è capace, ma in quella che più si avvicina, pur in una lingua diversa, alla scrittura dell’autore. La sua è dunque una libertà condizionata. Se poi volesse esercitarsi in prove di virtuosismo, Murakami non gliene offrirebbe la possibilità. L’estro visionario di questo scrittore non si esercita nella scelta di parole ricche e insolite o nella costruzione di frasi particolarmente elaborate. La sua straordinaria immaginazione fantastica si esprime attraverso un linguaggio sobrio e realistico.
Artigianato e magia, dicevo. Sì, c’è nella traduzione un elemento magico. Quando, dopo aver lavorato a lungo a un libro di Murakami, lo vedo stampato in italiano e rilegato, è come se il mondo vasto e labirintico in cui ho vissuto per mesi si fosse rimpicciolito di colpo per entrare nei confini fisici del libro. Mi è successo anche con 1Q84. Vedendo il volume pubblicato nella bella copertina einaudiana ho avuto la sensazione che il genio, dopo aver scorrazzato in ogni direzione insieme a me, fosse tornato nella lampada e avesse richiuso il coperchio lasciandomi fuori. Ma la traduzione è magica anche per un’altra ragione. A volte un problema appare irrisolvibile. Si tenta ogni soluzione, però a un certo punto bisogna deporre le armi di fronte allo spettro più pauroso: l’intraducibile. Il traduttore, chiuso in un vicolo cieco, pensa a chi è riuscito a tradurre il Pasticciaccio di Gadda e Finnegan’s Wake in giapponese e assapora fino in fondo il proprio amaro fallimento. Vorrebbe aguzzare lo sguardo alla ricerca della soluzione nascosta, ma non vede nulla: una fitta cortina di nebbia è calata sulla pagina nascondendo il paesaggio. Passa del tempo senza che niente nella mente si muova; poi, misteriosamente il barlume di un’idea si accende, prima fioco, poi a poco a poco più vivido, e infine la sua luce disperde la nebbia e il paesaggio è di nuovo visibile. La frase giusta prende forma. Ma anche la magia non va scambiata con l’arte. Il traduttore materializza il coniglio dal cilindro, è vero. Però si limita semplicemente, con abile gioco di illusionismo, a tirarlo fuori dalla tasca in cui era nascosto. A crearlo, cioè a estrarre il coniglio dal nulla e a raccontarne la storia, è Murakami.
[Questo articolo è già uscito su «Alias»].
L’articolo di Amitrano è molto interessante, soprattutto per chi, come me, non sa nulla della lingua e poco della cultura giapponesi. E forse sarebbe il caso di parlare un (altro) po’ di questo 1q84, di cui quasi tutti dicono bene, che sembra combinare virtuosamente leggibilità e qualità, e a cui va riconosciuta una forza narrativa non comune. E’ un libro che tiene incollati, almeno questo mi pare indubbio. Ma proprio a partire da qui si potrebbe parlare un po’ di quanto valga il piacere della lettura, o chiedersi se sia sempre adeguato come criterio di giudizio. Dopo averlo letto e dopo averci pensato un po’, a me pare che 1q84 sia una mezza bufala. Schematizzo e senz’altro esagero e mi servo di categorie che richiedono a loro volta cautela e forse sono un po’ datate, ma a me pare che alla fine (almeno finché non uscirà il terzo volume e si vedrà come tutto va a finire) il libro sia, nel suo nocciolo, una grande bolla di proliferazione immaginaria semipsicotica avviata dal mancato riconoscimento, da parte di Tengo, della figura del padre e del Nome del Padre. Se poi, come ho letto sulle recensioni inglesi (nell’area anglosassone il libro è già uscito integralmente) tutta la grande costruzione romanzesca ha come scopo ultimo la formazione di una coppia, allora sospetto che si arrivi dalle parti di Jovanotti e di “la cosa più grande dopo il Big Bang siamo io e te”. Spero di avere il tempo per dire meglio quello che adesso abbozzo soltanto.
E spero anche di sbagliarmi, perché a dispetto delle tante perplessità destate dalla lettura, le prime due parti di 1q84 “mi sono piaciute molto”.
Credo, da traduttrice letteraria con 30 anni di esperienza e come testimone diretta di cosa sia l’arte della traduzione quando il traduttore di un grande autore è egli stesso un grande autore, (non mi riferisco a me ovviamente!!) di poter intervenire commentando questo bellissimo post di Amitrano.
Concordo su tutto quanto dici, perché è esattamente quello che provo ogni volta che mi misuro con un grande testo. Voglio precisare che tutto questo avviene se si tratta di un grande testo, perché se così non è, la traduzione diviene assai meno interessante e stimolante.
La ricerca della parola, quella, unica che può rendere il senso e il significato dell’originale, che giustifica il suo esserci, diventa parte di te per tutto il tempo che l’autore è tuo compagno e la sua voce ti parla. A volte la ricerca non dà frutti, o li dà scarsi, ma poi accade un piccolo miracolo – quella magia di cui parli – ed ecco, mentre guidi, mentre giri il sugo, mentre ti lavi i denti, la parola sboccia nella mente come il sole che esce dalle nuvole e sostituisce magicamente tutte quelle che hai scartato.
Fare il traduttore è, in Italia, davvero un lavoro improbo, poco rispettato dagli editori e dunque mal pagato – anche se gli editori campano sui traduttori – ed è vero che è emozionante ritrovarsi con altri traduttori stranieri a confrontarsi su un testo e un autore. Molto meno emozionante, per non dire antipatico, (forse io ho avuto esperienze poco felici) è trovarsi con altri traduttori italiani. Non è questa la sede del perché.
Tuttavia, poiché io credo invece che tradurre sia proprio un’arte e che non lo si possa fare come va fatto se non si è in primo luogo degli scrittori o dei poeti (ovviamente parlo di traduzione letteraria – sia di narrativa che di poesia) vorrei richiamare la tua attenzione sul fatto che l’esito del connubio tra artigianato e magia è proprio l’arte.
L’arte non è altro che questo: fare. Fare pratico. Esperienza che nasce da una pratica incessante. E arte è fare. Il confine tra artigiano e artista è molto labile, come fu riconosciuto da tutti i movimenti artistici di fine 800, a partire da Arts&Crafts. Ma, e qui appunto è quel passaggio infinitesimale che fa dell’artigiano altro, interviene la magia. E’ quella che trasforma la manovalanza, pur eccellente, in arte.
Nessuno può immaginare di sostituirsi all’autore, certo, né ha senso, ma l’arte sta nel ricreare una voce che sia quella dell’autore, nella propria lingua, che non lo tradisca, non alteri il suo tono, le sue sfumature e il suo registro.
Si può obiettare che l’artista crea un’opera originale, mentre l’artigiano riproduce un modello. Ma un grande traduttore non riproduce un modello, lo ricrea nella propria lingua, conoscendo, come tu dimostri di fare, ogni sfumatura del pensiero, della visione del mondo, dello stile e del mondo dell’autore, e della lingua e cultura a cui appartiene.
Questo non è semplice artigianato o manovalanza. E’, come tu dici, artigianato e magia: vale a dire, arte.
P.S. Ricordo ancora con vivezza il primo romanzo giapponese che lessi, arrivato a casa nell’anno della sua pubblicazione italiana, il 1959 e che ora viene ripresentato come se non fosse mai stato tradotto in precedenza. Era “Il sole si spegne”, di Osamu Dazai. Io lo lessi l’anno seguente, poco più che bambina e mi fece un’impressione fortissima. Quel quadro disperato eppure limpido e poeticissimo di un paese lontano si sovrapponeva al linguaggio cinematografico di Rashomon, che pure avevo visto al cinema coi miei. Bianciardi tradusse dall’inglese, cosa che ora appare quasi immorale, dato che il peggior traduttore è quello che traduce da altra traduzione e non lo dice – come spesso accade ancora. Ma permise di far conoscere una letteratura da noi poco nota. Invece conoscevo le belle traduzioni dei poeti cinesi di un grande sinologo ormai quasi dimenticato, quale Martin Benedikter, le cui bellissime traduzioni (Le Trecento poesie T’ang) tra l’altro hanno lasciato un segno profondo in Claudio Damiani.
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Traduttori come questi non sono artigiani.
Traghettare una parola da una lingua ad un’altra, è un atto di devozione. Verso il lettore, insieme all’autore. E per dare una diversa forma linguistica la mano segue il pensiero, la cifra stilistica, studiandola nella sua impronta vitale. Non so se arte e magia rappresentino elementi così tanto distinti in questo campo, e mi chiedo se siano l’inizio e la fine, allo stesso tempo. Ma una cosa è certa: grazie. Per quel mondo che mi ha portato dentro casa con quelle denudate ripetizioni di Murakami. Da umile lettore. Sì, grazie, perchè io ho visto Arte.