di Gianluigi Simonetti
[Nel numero di “Riga” appena uscito, dedicato a Goffredo Parise a trent’anni dalla morte (ne abbiamo parlato qui), è presente tra l’altro una sezione di saggi inediti, disposti in forma di sillabario e in ordine alfabetico. Presentiamo le pagine iniziali della voce che, nel numero di “Riga”, si intitola Pasolini].
1.
Era una persona che molti in quegli anni ritenevano importante, o meglio, che molti giudicavano segno della propria importanza ritenere importante. Ma aveva una brutta faccia ossuta a forma di pugno, una bocca dentro un incavo osseo come certi sdentati e soprattutto aveva occhi mobilissimi che non si fermavano mai negli occhi della persona con cui parlava.[1]
Raffaele La Capria è stato il primo, credo, a identificare nel personaggio dalla «voce dolcina» schizzato nella prima parte di Antipatia una caricatura di Pasolini[2]. Corrispondono in pieno, certo, i tratti fisici – la faccia «a forma di pugno», la bocca «dentro un incavo osseo», gli occhi mobili e sfuggenti. Corrisponde la postura intellettuale onnivora e aggressiva del personaggio, come pure il suo vasto riconoscimento pubblico – «l’importanza» di Pasolini («era riuscito ad afferrare una grande quantità di nozioni senza qualità ma correnti in quegli anni, che gli avevano procurato la fama di persona importante», OP2, 228). Quando poi il personaggio-Parise risponde «può darsi, non me ne intendo» al petulante interlocutore che gli dà del fascista, beh anche quel «non me ne intendo» rinvia – per antifrasi – a Pasolini, la cui figura incarna, agli occhi di Parise, quella del letterato che si intende di tutto, che padroneggia e anzi “divora” la cultura: alla fine di Antipatia l’antipatico sarà descritto nell’atto di trangugiare pane e pommes soufflées («due cose che non vanno d’accordo», ibid.). Una disinvoltura che non può piacere a chi, come Parise, ha fatto del dilettantismo una divisa; una bulimia che si oppone alle dosi omeopatiche con cui Parise ha sempre assunto la cultura. Quello che non torna, però, sono le parole che pronuncia quella voce antipatica; la lingua, particolare non secondario nella costruzione letteraria di un personaggio, e soprattutto di un personaggio intellettuale. L’amico di Antipatia è costruito implicitamente come l’emblema della deriva linguistica contro la quale i Sillabari reagiscono:
Il libro nasce così: negli anni tra il ’68 e il ’70, in piena contestazione ideologica e in tempi così politicizzati, udivo una gran quantità di parole che si definiscono comunemente difficili. Difficili anche a pronunciare, per esempio: Rivoluzionarizzare. Ecco, non esprime nulla[3].
«Processo di rivoluzionarizzazione», scandisce al telefono la voce antipatica. Ma Pasolini «non parlava proprio così», rileva giustamente La Capria (Caro Goffredo, p. 53)[4]. È comprensibile che Parise detestasse «il Pasolini Castigatore, il Pasolini Profeta, il Pasolini Coscienza della Nazione o Vittima Sacrificale» (ivi, p. 51); ma non per questo poteva attribuirgli, se non in malafede, una parola come «rivoluzionarizzazione». E in effetti un po’ di malafede non manca, nel modo in cui Parise ha “usato”, nella sua opera, l’opera di Pasolini; ma molto più grande, e interessante, è stata come vedremo l’ambiguità, anzi l’ambivalenza che lo ha guidato nella ripresa e a volte nel rovesciamento di alcuni spunti pasoliniani. Ed ecco che allontana il personaggio-Pasolini dal modello in carne e ossa quasi tutta la seconda parte di Antipatia, quella in cui ritroviamo la «voce dolcina» impegnata a presenziare a una cena mondana con roast-beef e Brunello, accompagnato da una moglie ingioiellata. «Un Pasolini piccolo borghese con mogliettina al seguito non è immaginabile» (ivi, p. 55); a metà del racconto l’identificazione non regge più. In definitiva ha ragione Nico Naldini quando osserva che il personaggio di Antipatia «è composto di elementi eterogenei»[5]. Così Pasolini per Parise: attraente e respingente insieme.
2.
All’inizio, verso la fine degli anni Cinquanta, nel rapporto tra Pasolini e Parise l’antipatia è come compressa; la ostacolano le molte amicizie in comune – Comisso e Naldini in Veneto, a Roma Gadda e Moravia – e qualche collaborazione isolata, come la sceneggiatura del Carro armato dell’otto settembre di Gianni Puccini: è proprio Pasolini a presentare Parise a Sonego e a facilitarne l’ingresso nel mondo del cinema – senonché a Parise quel mondo non andrà mai a genio[6]. Oltre la concretezza dei rapporti e la consuetudine della frequentazione va registrata tra i due una convergenza che si potrebbe definire sociale: Parise è, per diritto di nascita, ciò che Pasolini ha spesso finto di essere: un orfano (di padre) figlio di poveri, potentemente attratto dagli estremi della scala sociale – gli umili, gli aristocratici – e altrettanto potentemente respinto dai medi – quella borghesia che entrambi hanno odiato, feticizzandola. «Qualche volta, quando viaggio, in Italia e all’estero, mi piace dormire in un albergo bello o bellissimo. Non sempre, perché certe volte mi piace di più dormire in un sacco a pelo nei boschi»[7].
Il borghese conosce per sentito dire, non rischia in prima persona, pensa sempre al futuro; non sorprende allora che Pasolini e Parise siano stati, negli anni del «boom», i nostri intellettuali forse più sensibili al bisogno una conoscenza di prima mano, filtrata dall’eros e declinata al presente («solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’avere amato, / non l’aver conosciuto»). Un conoscere col corpo, attraverso sopralluoghi e sortite, in contesti esotici e spesso pericolosi, che ne ha fatto due dei più coraggiosi viaggiatori, o esploratori, della letteratura italiana del secondo Novecento. Di qui, anche, il comune innamoramento – da pessimisti – per la vita; il gusto sensuale per la giovinezza, il viaggio, la velocità (l’Alfa GT di Pasolini, la MG e la Ferrari di Parise); il piacere conoscitivo, non solo fisico, del praticare sport, del sedurre, dell’essere sani. Con una inversione interessante rispetto a quanto detto sullo schema sociale: Pasolini è quell’uomo sano e felice nel suo corpo che Parise ha spesso finto di essere – o meglio, che ha finto di essere fino a un certo momento della sua esistenza[8].
Il primato del desiderio e il suo rapporto specifico con la cultura – la «curiosità» di Parise, la «vitalità» di Pasolini – ecco qualcosa che a lungo li affratella; ma a partire da un certo momento questo stesso aspetto diventa invece un fattore di divisione, un cuneo che si insinua in una frattura destinata ad allargarsi. È assodata, nella personalità di Parise, una spiccata curiosità omosessuale; da bambino le battute della madre («Te me par una culatina!») e le prime esplorazioni sensuali («a sette o otto anni, con un coetaneo, un bambino napoletano di cui lo attraeva l’odore della pelle bruna»)[9]; da adulto gli scherzi a Gadda, e le uscite notturne con Aladino nella giungla omosessuale romana; poi le “dritte” per rimorchiare ragazzi indirizzate a Naldini, e qualche esplicita ammissione nelle lettere a lui indirizzate – «Mi sarebbe piaciuto anche (lo confesso) il mio Budda giovinetto nevrastenico»[10]. Questa curiosità, di cui è già traccia nel Ragazzo morto e le comete, e poi nella Grande vacanza, convive in concreto con un’eterosessualità vivace, instradata su rapporti spesso binari (Mariola e Elsa, poi Giosetta e Omaira), e sullo sfondo di una fissazione per un tipo femminile giovane, «leggermente asiatico, di carattere sororale e infantile, con un velo di rozzezza contadina» (Il solo fratello, p. 18). Forse è la gioventù, fatta coincidere con la grazia, il denominatore comune dei più intensi trasporti di Parise e di Pasolini – compreso naturalmente il trasporto verso se stessi, trasfigurati in “ragazzi morti” fin dalle opere giovanili[11]. La giovinezza, quindi; e poi, in Parise specialmente, il parteggiare istintivo – sublimato nel darwinismo – per la fecondazione, la sensualità, l’aspetto carnale e aggressivo della vita.
C’è un aneddoto, riportato da La Capria (Caro Goffredo, p. 20), che è rivelatore di una pansessualità parisiana a sfondo creaturale:
Guardavo la sua faccia, seria, compunta, sorniona, mentre lui parlava: Da piccolo facevo il “metticazzo”. Non sai cos’è il “metticazzo”? È il ragazzino che durante la monta aiuta il cavallo a montare la cavalla. Il cavallo è nervoso, e se non sei svelto di mano…Ed era inutile domandarsi: ma esiste davvero questo mestiere del “metticazzo” o s’è inventato tutto lui stasera?
Non siamo lontani dalle “visioni” fallocentriche di Sesso e soprattutto dell’Odore del sangue, il cui narratore, attratto e insieme turbato dal fallo maschile, osserva dall’esterno l’accoppiamento della moglie col suo giovane amante (il pene paragonato a un serpente velenoso: «la sua grossa e larga testa violacea che ricordava quella di un cobra»)[12]. Ma nell’Odore del sangue il ruolo dell’io è principalmente voyeuristico e passivo, non partecipe come nella fantasia del «metticazzo»: dalla fine degli anni Sessanta – episodi chiave sono quelli vietnamiti e cambogiani riportati all’inizio del romanzo postumo – Parise aveva cominciato a sentire il processo degenerativo dei propri tessuti, la contrazione della vitalità, la morte al lavoro. Con i problemi circolatori arriva la paura dell’invalidità, i sospetti di impotenza, la certezza della sterilità. Nei primi anni Settanta Pasolini fa la cura del gerovital e imprime alla sua vita sessuale una piega ossessiva e sado-masochista, Parise comincia a sentirsi vecchio. E da vecchi, osserva Filippo nell’Odore del sangue, «si è automaticamente attratti verso i giovani che usano il cazzo in modo incosciente, senza pensieri, come una macchina perfettamente funzionante a proprio piacere. Perfino, si crede, a propria volontà. Il vero problema delle persone di cinquant’anni (…) in realtà non è il sesso, ma la morte. (…) E poiché il sesso, il fascinum [sic] è esattamente il contrario, cioè la vita, ecco l’attrazione verso chi porta con sé la vita e non la morte»[13].
«Ci sono loro e il loro cazzo e basta»: così Silvia, nell’Odore del sangue, sui giovani che vede quando Filippo è lontano; il quale alla fine del romanzo non può più fare l’amore con lei, non può agire e tantomeno salvarla («Mi sentivo ed ero impotente, come nella realtà dei fatti») [14]. La vecchiaia, per Parise, è incompatibile con l’eros; al centro della scrittura si pone adesso «l’amore degli altri» – perché «l’amore o si fa o si racconta»[15]:
Devo esprimere una mia opinione personale: l’accoppiamento, la sessualità è e dovrebbe essere patrimonio esclusivo delle persone giovani. Oltre quel periodo di tempo che può arrivare al massimo ai trent’anni, il sesso comincia a perdere di innocenza, di irruenza e dunque di bellezza. Nulla di male, anzi tutto di bene vedere due giovani che fanno l’amore, ma vedere due persone già avviate inesorabilmente verso la vecchiaia è cosa che non va.[16]
Sarà forse un caso, ma proprio alla fine degli anni Sessanta è documentabile, in Parise, l’inizio di una vera e propria antipatia per Pasolini. Ciò che negli anni Cinquanta era soprattutto distanza («Ha cuore, ma non fantasia»)[17], nella stagione della neoavanguardia si tinge di sarcasmo, con un principio di insofferenza e l’affiorare di un sotterraneo complesso di inferiorità («Forse Moravia si lascerà andare a un corretto inchino in tuba e frac, e il Pasolini medesimo, sulle sue torri, assentirà con un serio e rispettoso cenno del capo»)[18]. Col passare del tempo, e col declino fisico di uno dei due contendenti, si delinea la contrapposizione netta a una figura intellettuale sentita, nonostante tutto, come parte integrante dell’establishment letterario. Agli occhi di Parise Pasolini è diventato, più ancora che uno scrittore alla moda, una «scuola» – mentre lui si sente e si vuole autodidatta e isolato. Antipatia, quindi, e ricambiata, forse anche con qualche rincaro. In un abbozzo inedito per il teatro, scritto probabilmente intorno al ’65, e intitolato Progetto di uno spettacolo sullo spettacolo, Pasolini immagina di mettere in scena Gadda, che «sogna di dover fare l’attore»; sul palcoscenico, accanto a lui, c’è una tana, dove vive un personaggio con cui Gadda si confida (o da cui è tormentato). «Potrebbe essere Goffredo Parise», congettura Pasolini, «o il diavolo». Possiamo concludere che, alla metà degli anni Sessanta, Parise è per Pasolini una via di mezzo tra una scocciatura e una tentazione[19].
Nel giugno del ’68, a ridosso degli scontri di Valle Giulia, Parise distingue due elementi, uno alto e uno basso, nella figura pubblica di Pasolini: l’elemento basso è «la vanità pubblica, o la smania di potere che è la stessa cosa»[20]. Nell’ agosto dello stesso anno, rispondendo a Cancogni, Parise cita Pasolini (che citava a sua volta Goldmann) e lo accusa esplicitamente di servilismo: le sue sono parole «di uno che si asservisce poeticamente al potere». Risuonano armoniche sadiane (quel Sade che Pasolini si appresta a rileggere e riscrivere): nella dialettica di Parise, il Padrone sta dalla parte dello Stato e dell’Oppressione, cioè della morte; lui si sente dalla parte della vita, «che resiste, si ribella». Nella stessa intervista, cambiando argomento, rivela la paura – per lui nuova – di perdere la qualità più importante, la curiosità: «mi preoccupa l’avvicinarsi dell’ombra, l’idea di perdere la vista, la funzione conoscitiva. Non la morte in sé, ma la diminuzione di certe facoltà, la loro estinzione»[21]. È nel ‘68, rileverà Parise quindici anni dopo, che gli intellettuali italiani sono stati definitivamente «battuti dalla realtà»; da quel momento Parise ha smesso definitivamente di sentirsi uno di loro[22].
[1]. Goffredo Parise, Antipatia, in Id., Sillabario n. 1 (1972), OP2, pp. 227-28. Le citazioni da Parise sono tratte dai due «Meridiani» delle Opere, a cura di Bruno Callegher e Mauro Portello, Milano, Mondadori, 1989 (d’ora in avanti rispettivamente OP1 e OP2); per la rubrica Parise risponde cito da Goffredo Parise, Verba volant. Profezie civili di un anticonformista, a cura di Silvio Perrella, Firenze, Liberal Libri, 1998 (d’ora in avanti PRIS); per L’odore del sangue da Goffredo Parise, L’odore del sangue, a cura di Cesare Garboli e Giacomo Magrini, Milano, Rizzoli, 2004 (d’ora in avanti ODS). Parte del presente saggio rielabora alcuni paragrafi del mio Il circuito della prosa, in Parola di scrittore. Letteratura e giornalismo nel Novecento italiano, a cura di Carlo Serafini, Roma, Bulzoni, 2010, pp. 483-507.
[2]. «L’amico di Antipatia è Pasolini»: Raffaele La Capria, I «Sillabari» di Goffredo Parise, in I «Sillabari» di Goffredo Parise, atti del convegno «I Sillabari di Goffredo Parise» (Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 4-5 novembre 1992), a cura di Raffaele La Capria e Silvio Perrella, Napoli, Guida, 1994, p. 98 (poi in Id., Caro Goffredo. Dedicato a Goffredo Parise, Roma, minimum fax, 2005, p. 49). Cfr. anche M. Belpoliti, La fine dell’Arcadia cristiana, in Id., Settanta, Torino, Einaudi, 2001, pp. 61-5.
[3]. Goffredo Parise, «Il Gazzettino», 31 ottobre 1972 (ora in OP2, p 1635). Antipatia appare sul «Corriere della Sera» nel giugno del 1971.
[4]. Raffaele La Capria, Caro Goffredo, cit., p. 53. Sul collegamento tra la pagina del «Gazzettino» e il ritratto di Pasolini è tornato di recente Walter Siti parlando del Sillabario n. 2 all’Auditorium Parco della Musica di Roma (13 aprile 2014).
[5]. Nico Naldini, Tracce autobiografiche nei due «Sillabari», in I «Sillabari» di Goffredo Parise, cit., p. 84.
[6]. Cfr. Pino Dato, L’ultimo anti-americano. Goffredo Parise e gli USA: dal mito al rifiuto, Roma, Aracne, 2009, p. 52.
[7]. Goffredo Parise, «Corriere della Sera», 28 novembre 1972 (ora in OP2, p. 1636).
[8]. «Ho sempre ritenuto di essere carente di salute fisica anche quando mi andava bene. Ho sempre sentito un germe di debolezza fatale e tragica nella mia vita»: Goffredo Parise, intervista a Rachele Enriquez, in «Vogue», 438, settembre 1986, p. 530.
[9]. Nico Naldini, Il solo fratello. Ritratto di Goffredo Parise, Milano, Archinto, Milano 1989, pp. 14-5.
[10]. Ivi, p. 65. «Goffredo si vantava di essere un “checcologo”. La sua curiosità per l’omosessualità era di un entomologo che si diverte a osservare il comportamenteo degli insetti. Più, forse, un po’ di invidia per la spontaneità e gli estri combinatori dell’eros omosessuale di quegli anni» (ivi, 45).
[11]. «Bellezza […] è il sentimento della gioventù» (Goffredo Parise, intervista a Rachele Enriquez, cit., p. 558); «Era la giovinezza, il mistero della giovinezza, che come sempre lo attirava» (Raffaele La Capria, Caro Goffredo, cit., 21).
[12]. ODS, p. 55. In Sesso la protagonista guarda il ragazzo «come si guarda un cobra eretto a pochi centimetri dal volto» (OP2, p. 496).
[13] Ivi, p. 112.
[14] Ivi, p. 176 e p. 226.
[15]. Goffredo Parise. Conversazione senza complessi con uno scrittore non “alienato”, in «Playmen», IV, 4, aprile 1970, p. 21; identiche parole in ODS, pp. 111-112. Ancora, nell’Odore del sangue Filippo dirà di amare Silvia come un ragazzo e Paloma «come un vecchio» (ODS, p. 10); «Lungi dall’esprimere vitalità, il rapporto tra persone con venti, trent’anni di differenza, era il primo atto della senilità, cioè del rimpianto per la vitalità» (ODS, p. 114).
[16]. ODS, p. 111.
[17]. Così Parise su Pasolini, in una lettera del ’59 a Giovanni Comisso: Marco Belpoliti, La fine dell’Arcadia cristiana, cit., p. 61.
[18] Da una lettera a Naldini, in Il solo fratello, cit., p. 31.
[19] P. Pasolini, Progetto di uno spettacolo sullo spettacolo [1965], in Id., Teatro, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 2001, p. 239.
[20]. Goffredo Parise, Un artista rabbioso e decadente, in «L’Espresso», 23 giugno 1968 (ora in OP2, p. 1364).
[21]. Manlio Cancogni, L’odore casto e gentile della povertà. Conversazione con Goffredo Parise, in «La Fiera letteraria», XLIII, 34, 22 agosto 1968, p. 17.
[22]. «In me c’è un immenso rispetto per loro [gli intellettuali italiani], ma nessun interesse»: Ma ho occhi e cervello e sufficiente esperienza. Colloquio con G. Parise, a cura di Aldo Rosselli, in «Il club dei club», I, I 1982, p. 45.
[Immagine: cobra]
Molto interessante il binomio Pasolini/Parise e il loro modo di “rileggere” la parola povertà. In questo senso vale la pena rileggere un articolo di Parise, “Il rimedio è la povertà”, del 1974. È un tema che mi sta particolarmente a cuore. Tempo fa avevo “composto”, nel senso di “assemblato”, un dialogo a quattro voci tra Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Edoardo Sanguineti e Serge Larouche, il teorico della decrescita, a partire da articoli, poesie, interviste, carteggi che risalgono ai primi anni settanta del 900. Si può osservare come Pasolini sia stato straordinariamente moderno nell’intuire alcuni effetti negativi della globalizzazione e del consumismo. Il suo invito a “tornare indietro” fu osteggiato e ridicolizzato dagli intellettuali del tempo, ma è accolto, a quarant’anni di distanza, dal teorico della “decrescita”, Serge Larouche. Era altrettanto moderno Parise.
L’articolo è “Pasolini parla quarant’anni dopo”