cropped-Paolini_Mimesi_214.jpgdi Mariangela Caprara

Nella discussione sul futuro del liceo classico in Italia è molto usato, da parte dei suoi difensori, l’argomento “chi studia il greco e il latino diventa un eccellente professionista in qualunque campo”. A parte il fatto che eccellenti professionisti si formano anche in molti altri modi, non amo molto questo tipo di difesa degli studi classici, perché attribuisce all’apprendimento della lingua greca e latina una funzione ‘ginnica’ e preliminare rispetto a saperi altri, più importanti e con maggiori prospettive di occupazione e appagamento personale. Mi sembra, insomma, che non promettiamo allo studente di liceo classico di diventare direttore del British Museum, o archeologo tra le sabbie d’Egitto, o artista che innova una tradizione solidamente appresa; per rassicurarlo, gli promettiamo piuttosto di diventare avvocato, medico o scienziato. Questa mentalità, diffusa dentro e fuori le aule dei licei classici, offende, mi pare, il valore autonomo della conoscenza storica, per di più in un Paese come il nostro; mi piacerebbe piuttosto che la cultura greco-latina fosse nota al maggior numero possibile di persone, e che quindi anche nelle scuole non liceali gli studenti fossero messi di fronte, seriamente, a quel patrimonio di memoria e identità. Certo, non con la traduzione, per tutti, dei testi scritti in quelle lingue. Il liceo classico deve rimanere l’indirizzo frequentato da chi decide di approfondire e affinare da un lato competenze linguistiche, per mezzo dell’apprendimento dei sistemi chiusi delle cosiddette ‘lingue morte’, dall’altro competenze testuali, per mezzo dell’esercizio di traduzione. Deve poi farsi strada l’idea che questa scuola è ‘professionalizzante’ nell’ambito della ricerca storica, perché insegna a leggere e a interpretare le fonti di tipo testuale, con particolare attenzione a quelle letterarie. Qui cerco quindi di esporre la mia idea su cosa debba essere la traduzione degli autori antichi al liceo classico, e, più in generale, su come potrebbe essere cambiata l’intera impostazione del curriculum per ridare un senso pieno a questo indirizzo scolastico; un senso che non sia, come nella vaga dizione corrente, lo sviluppo dello spirito critico e delle capacità logiche.

L’idea dominante è che la traduzione dal greco e dal latino sia il miglior esercizio di logica. Francamente mi pare un’idea debole: oggi per sviluppare la logica di un adolescente abbiamo strumenti eccezionali anche nei videogiochi; abbiamo sempre avuto la matematica, la geometria. La logica, peraltro, potrebbe essere insegnata come disciplina autonoma: per ora, però, non viene presa in considerazione nei programmi scolastici. L’elemento distintivo della traduzione sta nel fatto che è un’operazione linguistica, ermeneutica, che non consiste solo nell’applicazione di protocolli (dalla regola grammaticale alla traduzione meccanica), ma nel raggiungimento di una cifra comunicativa ed espressiva adeguata nel codice di arrivo. Tradizionalmente nel biennio (il vecchio ‘ginnasio’) l’apprendimento del greco e del latino si realizza con un metodo deduttivo, all’interno del quale trova naturalmente ampio spazio l’esercizio che definisco ‘meccanico’ e che deve, sempre in una visione tradizionale, sviluppare la logica. Ora, tali esercizi meccanici male non fanno; ma giovano a pochi, e perdono molti, che (giustamente) in questa aridità, a 14 e 15 anni, non hanno alcuna intenzione di stare. Per di più, l’adolescente che sceglie il classico è nella stragrande maggioranza dei casi uno che la matematica l’ha amata poco, perché l’ha capita pochissimo o zero (a causa spesso di cattivi insegnanti), e dunque mai potrà essere lieto e alacre di fronte a quello che percepisce come un arido esercizio meccanico, benché non fatto di numeri, ma di parole. Insomma, credo che si debba fare attenzione a glorificare questo sviluppo della logica come effetto preminente dell’esercizio di traduzione, per di più intesa in chiave meccanica; attenzione, e l’ho già detto anni fa su queste e altre pagine, al metodo tipo “Tantucci”, dove le versioni scelte per far esercitare gli alunni del biennio sono brani del De bello Gallico non contestualizzati, in cui però pare che si possano applicare facilmente (?) i protocolli appresi mnemonicamente attraverso lo studio della grammatica.

È bene, invece, che da subito, dal biennio, gli studenti si abituino all’idea di una traduzione che sia anche, nel suo piccolo, atto creativo, che sia campo di scelte espressive, perché il testo tradotto deve essere capito nella sua interezza, e deve essere inquadrato in una tipologia (favola, mito, storiografia, aneddotica e così via); del testo sottoposto all’osservazione devono diventare progressivamente percepibili i tratti stilistici, e dunque quegli elementi estetici che affinano la percezione anche dell’italiano: deve trattarsi, dunque, in primo luogo, di una lettura. Attraverso il testo, gli studenti devono arrivare a una visione nitida del passato, sentire (lo intendo proprio come moto emotivo) che le voci degli autori sono vite che parlano, e che sono da ascoltare. Non esiste, quindi, traduzione senza contesto. Se devo tradurre Cesare, lo devo fare inquadrando bene Cesare in prospettiva storica, anche con dovizia di dettagli attinti proprio dalle sue opere. Tra l’altro, gli studenti che scelgono da sé, e non solo per volontà familiare, il liceo classico, sono assetati di queste conoscenze: le voci degli autori sono proprio ciò che cercano, ma non le trovano di certo nei brani di versione, raggruppati negli eserciziari del biennio il più delle volte in base alle ‘regole’ riconoscibili in essi, e non secondo un criterio tematico.

Gli obiettivi che ho fin qui descritto sono tradizionalmente considerati tipici del triennio (il vecchio ‘liceo’), cioè sono considerati raggiungibili da studenti che abbiano ben masticato la grammatica e imparato a praticare la traduzione meccanica nei primi due anni di studio della lingua: a questi studenti è (finalmente) chiesto il salto di qualità. Ma di fatto, al triennio, gli studenti non traducono con regolarità, giacché nel tratto finale del liceo classico ci si deve impossessare delle nozioni di storia della letteratura greca e latina, bisogna conoscere i contenuti dettagliati delle opere e le biografie dei loro autori, e il tempo per andare quanto meno a sbirciare nei testi di cui si parla non c’è; ne deriva, attualmente, il ricorso massiccio al testo con traduzione a fronte, un vero scandalo nel triennio del liceo classico, utile forse solo perché il docente possa dire “ho fatto questo, e questo, e quest’altro”, in un bilancio meramente quantitativo del lavoro svolto. Temo che in molti licei classici la didattica applicata ai testi in lingua consista tradizionalmente nella selezione di un numero x di paragrafi/capitoli/versi di questo o quell’autore, che verranno letti e tradotti dall’insegnante in classe, e poi richiesti a memoria, in italiano e con qualche domanda di lingua (grammatica) qua e là, agli studenti, che oltre alla traduzione dell’insegnante possono (naturalmente) usare quella reperibile su Internet. Quando all’Esame di Stato arriva la traduzione di un testo, esteso ma coerente, pochissimi sanno da dove cominciare, moltissimi tentano di copiare, e i docenti sommessamente dettano nelle loro orecchie la soluzione dell’enigma per non fare brutta figura con i colleghi, oppure per non far perdere punti alla propria scuola nelle classifiche nazionali. Si può difendere il liceo classico senza denunciare questo stato delle cose? Dobbiamo essere seri.

Cosa fare, quindi, di latino e greco dal primo giorno all’Esame di Stato? Intanto, eliminare definitivamente, senza nostalgie, la tradizionale divisione del corso di studi tra biennio e triennio. Poi, decidere che non si può trasmettere a studenti liceali la conoscenza di tutta la letteratura sia greca che latina, perché il risultato è un’infarinatura di nozioni, unita alla perdita di competenze utili alla traduzione. L’apprendimento della lingua (sistema grammaticale più lettura dei testi) deve così durare tre anni. In questo arco di tempo, trasversalmente alla lingua, deve essere insegnata la civiltà greco-romana, come proposto già adesso da alcuni libri di testo per il biennio. Per questo tipo di percorso i tempi devono essere distesi, e, ripeto, i testi non devono esser intesi solo come esercizi ginnici, ma come testimonianze storiche. Nella fase iniziale del percorso non è indispensabile sottoporre agli studenti il testo originale di questo o quell’autore: lo si può facilitare, oppure corredare di note adeguate. Negli ultimi due anni si lavora su un canone ristretto di autori e/o opere, selezionati dal Ministero e imposti già all’inizio del quarto anno: questi saranno oggetto della prova finale. Nel canone devono rientrare autori considerati senza dubbio esemplari, e testi anche di genere poetico. Gli alunni a questo punto dovranno tradurre i testi con le proprie forze, benché guidati dagli insegnanti, comprendendoli a fondo sul piano dei contenuti e diventando contemporaneamente sensibili all’usus scribendi di ciascun autore e alle caratteristiche dei vari generi letterari. Nell’esperienza dei docenti di greco e latino è assodato che solo la consuetudine quotidiana, e protratta per mesi, con la lingua di Tucidide o di Cicerone rende tutti gli studenti, anche i più deboli, capaci di orientarsi in un brano di questi autori; nei migliori, nei più sensibili, i risultati al momento della traduzione sono strabilianti. L’obiettivo trasversale, in questa impostazione, è la conoscenza storica, quella tradizionale, quella dei fatti e delle fonti, che può essere anche valutata in sede di esame finale per mezzo di un questionario o (meglio) di una esposizione scritta complementare alla traduzione.

Riportare l’accento sulla storia mi sembra urgente, dal momento che le riforme Moratti e Gelmini hanno reso davvero poco incisivo l’insegnamento della storia nelle scuole di ogni ordine e grado: l’ignoranza in questo ambito, anche in giovani istruiti, comincia a diventare evidente. Non esiste vera difesa della cosiddetta ‘cultura umanistica’ se non si prende atto, soprattutto a livello accademico, di quello che è stato fatto alla storia nella scuola italiana. Il liceo classico è chiamato dunque a riparare a questo danno, tempestivamente, e con le forze dei suoi insegnanti di latino e greco. Dunque mettiamo via quell’idea grammaticale e poi ‘ginnica’ di traduzione, o di storia letteraria separata dalla traduzione degli autori: mettiamoci a raccontare la storia antica, e poi portiamo i testi, e magari, a forza di raccontare, e leggere, e capire, e discutere, almeno chi è un Giulio Cesare gli studenti lo avranno imparato veramente.

(Firenze, Liceo Classico “Michelangiolo”, 30 settembre 2016)

[Immagine: Giulio Paolini, Mimesi.]

 

 

13 thoughts on “Imparare il latino e il greco oggi (e domani)

  1. Nel complesso il discorso mi sembra molto sensato, ma: 1) in quanti licei classici si continua a pretendere davvero questo apprendimento meccanico nel corso del biennio? 2) Quante possibilità ci sono di realizzare l’impostazione pedagogica proposta dalla collega Caprara col miserrimo monte-ore lasciatoci dalla riforma Gelmini? Quest’ultima non è una domanda retorica: se la prof. Caprara parla per eseprienza personale e ha potuto verificare direttamente l’efficacia del criterio che propone, credo farebbe a noi tutti un grosso favore se ce ne parlasse ancora

  2. Finalmente una voce di buon senso! Finalmente un ragionamento concreto e ben radicato nella realtà della scuola!

    @Jacopo
    1) Che io sappia, praticamente in tutte. E basta vedere come sono strutturati i libri di testo. 2) Stiamo parlando, per il classico, di 9 ore al biennio e 7 al triennio, per un totale di cinque-anni-cinque. Non è poco. E’ tanto, e tanto si può fare. Ma ovviamente sono d’accordo a lasciare spazio alla professoressa Caprara!

  3. Grazie, per la chiarezza d’ analisi e l’ assenza di sterili nostalgie, all’autrice di questo articolo che, con realismo, guarda alla scuola e al mutamento dei ragazzi e della loro formazione. È vero, c’ è moltissimo da fare; tra gli altri impegni, anche quello di raccontare loro le storie che, nonostante tutte le decurtazioni disciplinari che le varie riforme hanno inferto alla scuola, i ragazzi ascoltano sempre con passione. Grazie!
    Paola Montagner

  4. Cara Mariangela, grazie dell’intervento sobrio, competente, condivisibile.

    Io continuo a ribadire l’importanza di distinguere, in questo dibattito sul classico, i tre contesti che ho individuato in calce al post di Fusillo.

    Per il primo, il contesto didattico, il tuo intervento è prezioso e indica con grande chiarezza la giusta direzione.

  5. Intervengo molto brevemente solo per ringraziare l’autrice per avermi introdotto in delle tematiche con le quali non ho alcuna confidenza e di avermi anche convinto sulla tesi che ella espone così limpidamente.
    Tanta chiarezza in un articolo così sintetico è davvero cosa rara e preziosa.

  6. Insegno latino e greco da 35 anni nel triennio del Classico (il vecchio “liceo”) e sono sostanzialmente d’accordo con l’articolo della collega Caprara, molto chiaro e documentato. Vorrei intervenire solo su un punto, che riguarda il modo con cui lavorano molti colleghi del biennio, il vecchio “ginnasio”: in molti casi essi si limitano ad un insegnamento mnemonico delle cosiddette “regole”, che poi non trovano puntuale applicazione sui testi. Voglio dire che spesso i ragazzi al ginnasio traducono solo frasi o brevi versioni molto “purgate” rispetto ai testi d’autore originali; e la conseguenza di ciò è che conoscono le strutture morfologiche e sintattiche da un punto di vista teorico ma poi, una volta giunti in terza (la ex I° liceo) e messi davanti ai veri testi d’autore falliscono miseramente, a eccezione di pochi particolarmente inclini a questo esercizio. Le conseguenze sono disastrose: valutazioni bassissime nelle prove scritte del triennio, con successivo codazzo di genitori preoccupati e polemici che, non avendo nulla di meglio da inventare, se la prendono con il docente del triennio perchè “dà versioni troppo difficili”, e così tutto viene facilitato fino alla prove d’esame nella quale, come dice giustamente la collega, spesso la traduzione la fanno i professori e la passano agli alunni. Mi dispiace doverlo dire, ma sovente le cose vanno proprio così. Cosa si può fare a riguardo? Secondo me occorre abbandonare in parte il metodo esclusivamente deduttivo e passare a quello induttivo, cioè, nella fattispecie, sottoporre agli alunni, fin dal biennio, testi d’autore e far loro constatare quel è l’organizzazione sintattica delle lingue classiche e quali le cifre stilistiche di ogni scrittore di prosa e di poesia, in modo che non imparino le regole in teoria per trasferirle poi sul testo, ma che proprio dall’esperienza testuale si ricavino le regole stesse. Purtroppo, finché al biennio ci si limiterà alle frasine o alle versioncine come “La volpe e l’uva” gli alunni non entreranno mai nel vivo delle lingue classiche, continueranno a scaricare le versioni da internet e impareranno i classici a memoria anziché ragionarci sopra e comprendere veramente il loro messaggio. A tal riguardo io sono favorevole all’ipotesi di Bettini di cambiare la seconda prova scritta d’esame del Classico, non abolendo la traduzione ma affiancando ad essa almeno una contestualizzazione adeguata sull’autore e sulla sua personalità. Se non facciamo questo gli studenti continueranno a copiare e i professori a fare la versione al posto loro.
    Di questo ed altri problemi mi occupo quasi quotidianamente sul mio blog, che invito tutti i colleghi a visionare e magari ad iscriversi e a mandare commenti. L’url è: https://profrossi.wordpress.com

  7. Vale, carissima collega, anche per i licei scientifici.
    Ovviamente concordo pienamente.
    Lucia Pollio

  8. Giovanni Pascoli, 1893 (relazione sull’insegnamento del latino nei ginnasi-licei al ministro della Pubblica Istruzione) “Si legge poco, e poco genialmente, soffocando la sentenza dello scrittore sotto la grammatica, la metrica, la linguistica…Anche nei licei, in qualche liceo, per lo meno, la grammatica si stende come un’ombra sui fiori immortali del pensiero antico e li aduggia. Il giovane esce, come può, dal liceo e getta i libri: Virgilio, Orazio, Livio, Tacito! de’ quali ogni linea, si può dire, nascondeva un laccio grammaticale e costò uno sforzo e provocò uno sbadiglio”.

    Giovanni Gentile, 1923 “…evitare quello sconcio… che giovanetti che hanno tradotto pagina per pagina il loro Cornelio e il loro Fedro, non sanno poi di che cosa parlino!”

    Guido Calogero, 1955: “Dopo anni di latino la generalità della popolazione italiana con maturità classica o scientifica, … messa davanti alla scritta latina sul frontone di una chiesa, … balbetta e non sa cavarne i piedi”

    Beniamino Placido, 1996: “C’ è sempre uno studio americano – o francese, o neozelandese – in giro, che dimostra qualsiasi cosa. Ma questo argomento, che è il più frequentemente usato, è un gioco di prestigio truffaldino, di scadente qualità. Si costruisce una scuola. Ci si mette dentro il latino (che si studia ma non si impara: particolare non secondario). La si nomina pomposamente Liceo classico. A questa scuola, per varie ragioni affluiscono i rampolli delle famiglie benestanti. Che hanno in casa i libri, la buona conversazione, i soldi per il cinema e per i viaggi. Si capisce che da questa scuola verranno fuori i migliori medici, i migliori ingegneri. Si dice: è per merito del latino che hanno studiato. Ma sarebbero i migliori comunque – sono già i migliori: perché i più favoriti in partenza – anche se in quella scuola avessero studiato per anni l’ astrofisica o la pollicoltura, invece del latino.”

    http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1996/07/21/virgilio-cento-metri-da-record.html

  9. Pochissime osservazioni, e mi scuso se sono seccamente scandite.

    Gli studenti del classico a volte amano la matematica, a volte no, come tutti gli studenti di tutte le scuole superiori. Gli stereotipi non giovano alla comprensione dei fenomeni.

    La traduzione, se vi si è condotti da guide competenti, non è mai un’operazione meccanica, né è un’operazione meramente mnemonica l’apprendimento di meccanismi morfologici e sintattici. Questi ultimi passano per una comprensione profonda e comparata del funzionamento delle lingue; la traduzione, dal canto suo, è sempre un atto creativo che implica necessariamente una maggiore consapevolezza nella lingua d’arrivo, la capacità di operare scelte, una sensibilità lessicale… Non ci si riesce sempre, tutti e subito, ma si lavora sempre in quella direzione. Il latino e il greco “veri”, del resto, ci aiutano particolarmente con alcune loro strutture caratteristiche, a sollecitare una riflessione in questo senso.

    Tutti – tutti – i nuovi libri che adottiamo al ginnasio (continuo a chiamarlo così, non capisco quale sia il problema, chiunque capisce di che cosa sto parlando) lavorano sulla civiltà, proponendo percorsi che spesso sono fatti molto bene e che sono corredati di bei testi. Credo che il Tantucci non sia più adottato da anni.

    Al liceo (vedi sopra), è vero, il tempo non basta mai e il rischio è che i ragazzi traducano molto poco, magari scaricando da internet. Per questo molti di noi affrontano la letteratura sempre affiancandola a percorsi di traduzione dei testi studiati. Noi studiamo Erodoto, Tucidide, Isocrate, Demostene, Platone ecc… sui loro testi, analizzando i temi, le problematiche, lo stile in modo organico. Confesso che non riesco a proporre gli autori solo in questa modalità, ma lo faccio il più possibile, anche per insegnare ai ragazzi una modalità di lettura di un testo d’autore, applicabile a qualsiasi opera, in qualsiasi letteratura, in qualsiasi epoca e lingua.

    Mi viene da osservare che le riflessioni dei colleghi sono interessanti e condivisibili generalmente, ma che corrispondono spesso a pratiche già in atto. La famosa prova immaginata da Bettini, per esempio, è praticata già da tempo da molti docenti. Forse il discrimine è la qualità dell’insegnamento che si impartisce. Forse. E’ solo uno spunto di riflessione.

    I miei alunni di quarto ginnasio imparano a leggere il greco e il latino in gran parte sui versi dei poeti.
    I miei alunni di quarto ginnasio soffrono come tutti gli studenti quando hanno troppi compiti per casa, ma a scuola bevono le parole.
    Alcune mie alunne di quarto ginnasio, ho scoperto, hanno come stato su whatsapp versi di Catullo che abbiamo letto a scuola.

    Buon lavoro

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