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di Gabriele Fichera

[Questo intervento apre il volume collettivo La scrittura che pensa: saggismo, letteratura, vita (Nerosubianco), dedicato alla scrittura saggistica e al genere letterario del saggio]

«Come devo vivere?» si chiede Ulrich.
E Agathe, alzando le spalle: «Bisogna tentare».
(R. Musil, L’uomo senza qualità).

Dopo aver tanto dato al saggio, in dieci anni di attenzione e studio, adesso vorrei provare a chiedergli qualcosa. Magari nei termini di una richiesta ironicamente perentoria. Vorrei chiedergli di deporre la maschera dell’irriconoscibilità, di dismettere i panni consunti dell’oggetto imprendibile e sfuggente, di abbandonare, fosse solo per un attimo, le fattezze della chimera e di dirci finalmente chi è. Se il saggio è davvero la forma della responsabilità, non potrà non rispondere.

Il saggio, in prima istanza, è tutto meno che un genere letterario. Il saggio è un aggettivo, prima che un sostantivo. E indica un’umana qualità che pertiene alla sfera dell’etica. Trovo ancora molto fertili alcune analisi di Aristotele, da cui vorrei partire. Per il filosofo infatti era preciso dovere dell’uomo saggio indicare alla collettività i criteri di una retta vita. «La virtù è una disposizione abitudinaria riguardante la scelta e consiste in una medietà in relazione a noi, determinata secondo un criterio, e precisamente il criterio in base al quale la determinerebbe l’uomo saggio. Medietà tra due vizi, quello per eccesso e quello per difetto»[1]. È dunque saggio colui che è in grado di individuare il punto medio fra due sproporzioni di segno opposto, e non in modo astratto o meramente formale, ma rapportando tale «medietà» a un interesse concreto, incarnato in un’esigenza collettiva. La virtù del coraggio, ad esempio, è l’eccellente giusto mezzo fra la viltà e la temerarietà. Si può osservare come l’espressione cruciale «medietà in relazione a noi» coniughi oggettività – il concetto di medio – e soggettività, in questo caso declinata al plurale – «noi». Il saggio è già in Aristotele il luogo vivente della mediazione fra particolare e generale. Ma non basta, perché la saggezza per lui si basa su due altri elementi fondamentali: la scelta e l’azione o práxis. La saggezza si distingue così sia dalla scienza sia dall’arte, intesa come produzione tecnica, poiché queste ultime sono attività necessarie, finalizzate a uno scopo ad esse esterno, che si impone loro. Esse esistono «per necessità», non per deliberazione. Al contrario: «Sembra che caratteristica propria del saggio sia la capacità di ben deliberare su ciò che è bene e utile per lui, non negli ambiti particolari […] ma in ciò che lo è per la vita buona in generale»[2]. L’azione del saggio si collocherebbe dunque, come l’imitazione poetica, non nell’ambito asservito al bisogno della produzione (poíesis), ma in quello libero della práxis, che contiene il proprio fine in se stessa. Il saggio si basa sulla capacità di scegliere, che non è innata, o per natura, ma una disposizione acquisita; e mette in relazione l’interesse personale con quello più ampio e oggettivo della «vita buona in generale», senza sacrificare il particolare: «La saggezza riguarda le cose umane […] La saggezza non riguarda solo gli universali, ma deve conoscere anche i casi particolari, infatti è pratica, e la prassi riguarda i casi particolari»[3]. La traduzione di «proàiresis» con «scelta» non è però del tutto esatta. Si preferisce piuttosto parlare di «piano in vista d’un fine», «intenzionalità» o più semplicemente di «interesse personale». Il saggio è dunque la forma della mediazione fra diversi – talora contrapposti – interessi.

Ora, volendo trasportare il concetto aristotelico della medietà nella sfera dell’invenzione, potremmo affermare che il saggio – stavolta come genere espressivo – si colloca in una posizione di equilibrio fra due sproporzioni dell’invenzione: quella per eccesso, che elide del tutto la realtà, e quella per difetto, che sulla realtà, al contrario, rischia di interamente appiattirsi. Avremmo su due poli opposti ed estremi l’eccesso di finzione, e di passività dei personaggi, del fantastico e l’eccesso di reale della storiografia o del realismo letterario. Il saggio potrebbe dunque essere la virtù della rappresentazione e della mimesi, ovvero quel giusto mezzo dell’invenzione, in cui attenzione alla realtà e bisogno di finzione trovano un momentaneo equilibrio dialettico, di certo fragile, ma comunque significativo. Fra realtà e finzione inseriamo dunque il tertium dialettico del vero, nel senso di autentico. Il saggio si rivolge ad oggetti già esistenti e preformati, che liberamente sceglie e reinventa, attraverso la peculiarità dello stile e dei metodi. Media fra interesse soggettivo e interesse generale e oggettivo. Uno dei più luminosi scrittori-saggisti del secolo scorso, Robert Musil, ha parlato più esplicitamente di egocentrismo e altruismo. Al centro resta il concetto di interesse, etimologicamente, in latino, «essere tra», «partecipare», dunque «essere in mezzo»[4].

In una società che in tutte le sue articolazioni appare sempre più soggetta ai valori di mercato, e alle sue necessità, le cose assumono una luce diversa. Non è più possibile distinguere in termini netti fra scienza e saggio, nella misura in cui la dialettica fra libertà e necessità diventa un dato problematico che taglia trasversalmente tutti i campi dell’attività umana, inclusa l’etica – quella scienza che da tempo è divenuta, et pour cause, adornianamente «triste». Già per Musil il saggio non sarà più alternativo al sapere scientifico, ma dialetticamente diverso, a metà del guado, o al centro di un vortice, fra scienza, vita e arte: «Esso [il saggio] possiede, della scienza, la forma e il metodo. Dell’arte, la materia […] Esso cerca di creare un ordine. Non offre immagini, bensì una connessione di pensieri, dunque di natura logica e, come la scienza, prende le mosse da fatti, che pone in relazione. Solo che questi fatti non sono universalmente osservabili e anche il loro collegamento è, in molti casi, solo un collegamento particolare»[5]. Ancora la tensione fra particolare e universale. Oggetto del saggio è dunque l’ibrido delle «idee sentimentali», una particolare sintesi fra ragione e «sentimenti fondamentali […] costitutivi dell’individualità»[6]. Ora bisogna notare che Musil individua una rilevante differenza tra ragionamento razionale, che può essere solamente vero o falso, e «ragionamento sentimentale», sintesi fra pensiero ed esperienza vissuta, che inoltre «“interessa” o non interessa»[7]. Di nuovo al saggio viene associato il concetto dell’«interessante». Ma dai tempi di Aristotele molte cose sono cambiate e divenute più complesse, e questa categoria ha subito una significativa rilettura e valorizzazione in termini estetici. Musil recupera qui una tradizione romantica che, fra Schlegel e Kierkegaard, volta le spalle al bello e si fa conquistare dall’esperienza problematica e inappagata dell’interessante. Schlegel aveva contrapposto al bello oggettivo e universale l’«interessante» inteso come «l’individuale, il caratteristico, il sentimentale». Egli era ben conscio del decisivo ruolo della riflessione e del saggio all’interno dell’arte romantica, che deve ormai mescolare genialità e critica. E sapeva pure che «i romanzi sono i dialoghi socratici del nostro tempo» e che dunque «in questa forma liberale si è rifugiata, fuggendo la saggezza delle scuole, la saggezza della vita»[8]. Kierkegaard, da parte sua, aveva letto l’«interessante» come categoria che sta al limite fra estetica ed etica. Lo aveva inoltre connesso sia al seduttore Johannes, il cui spirito si forma nel crogiuolo di riflessione e spontaneità, sia a Socrate, la figura umana più emblematica del saggio. In Timore e tremore Socrate verrà definito come «l’uomo più interessante che sia mai stato». E non va dimenticato che il brutto, ma interessante Socrate è per Lukács la figura per eccellenza della mediazione saggistica, che trascende in ironia e umoristica deformità la dialettica fra comico e tragico: «La vita di Socrate è tipica per la forma del saggio»[9].

L’interessante dunque come mediazione fra soggettività e oggettività, anima ed esattezza. Anche per Musil il campo privilegiato dei nostri interessi concreti è il saggio; questa sfera è più ampia di quella della conoscenza scientifica e fa perno su una centrale esigenza di trasformazione dell’uomo: «Escludiamo ora gli interessi mistici […] per il saggio richiediamo solo una trasformazione dell’uomo»[10]. Richiedere, pretendere, esigere. Non sono azioni innocenti nella riflessione condotta da Musil. Pensiamo a uno dei passaggi più importanti del suo Uomo senza qualità; quello in cui Ulrich si interroga sull’essenza del saggismo: «Un uomo che vuole la verità, diventa scienziato; un uomo che vuol lasciare libero gioco alla sua soggettività diventa magari scrittore; ma cosa deve fare un uomo che vuole qualcosa d’intermedio fra i due?». E poco dopo: «Una cosa che non è né una verità né una soggettività viene chiamata talvolta un’esigenza»[11]. In italiano la parola ʻesigenzaʼ ha la stessa origine etimologica di ʻsaggioʼ, dal latino exigere, che significa ʻcondurreʼ, ʻspingere fuoriʼ. Come puntualizzato da Pierre Glaudes, exagium – il sostantivo da cui più esattamente deriva ʻsaggioʼ – è un deverbale da agĕre, un verbo d’azione centrato sul soggetto che la compie. Inoltre la preposizione ʻex-ʼ fa dedurre che il movimento parta da un luogo concreto e precisabile[12]. Di nuovo l’intreccio fra práxis dell’io e suo necessario impatto col mondo, che questa práxis limita. E Ulrich ha ben chiaro come questa esigenza del saggio sia in realtà un’azione che non scaturisce da moventi estrinseci, ma dal profondo del suo essere. Ulrich afferma che «non potrebbe mai essere l’esattore indifferente di un’esigenza a lui imposta»[13]. Verità e soggettività si fondono dunque nel saggio come esigenza di una lotta per la trasformazione dell’uomo. Nel frammento sul saggio prima citato Musil scrive: «Siamo di fronte a una nuova suddivisione dell’attività spirituale. L’una [quella mistica] orientata alla conoscenza, l’altra alla trasformazione dell’uomo. Complessi sentimentali lottano per il predominio […] Nuovi rapporti tra gli uomini vengono a galla»[14]. Ma quest’azione trasformatrice del saggio, interpretata da Musil come lotta per il predominio di nuovi rapporti umani a discapito di quelli precedenti, ha in qualche modo a che fare – metaforicamente – con il racconto storico-filosofico della lotta fra servo e signore? Abbiamo visto che il lavoro di mediazione profittevole svolto dall’uomo saggio contempla una faticosa dialettica fra libertà della propria intrapresa e della propria scelta e la necessità o resistenza che il mondo gli oppone. Nei termini etici di Aristotele tali limiti della libertà si manifestano ad esempio nelle forme degli opposti eccessi di attività e di passività, cioè di azione dell’io verso il mondo esterno (práxis) e di affezione, ossia di azione del mondo esterno che l’io subisce (pathos). Questi eccessi sono leggibili metaforicamente come momenti di predominio signorile, perché instaurano tra gli uomini rapporti asimmetrici.

La dialettica hegeliana servo/signore disegna due figure in competizione per il dominio e il   riconoscimento. Il signore si impone sul servo per via di una minore paura della morte, e di un minore attaccamento alla vita. Si guadagna la libertà sollevandosi, in un attimo decisivo, al di sopra della cogente necessità della morte. L’unica possibilità di riscatto per il servo è data invece dal lavoro quotidiano e certosino, che gli dà la possibilità, nel tempo, di vincere la paura, trasformando lentamente la realtà attorno a sé e dunque, in prospettiva, quei rapporti di forza che lo hanno visto in passato soggiacere. Tale dialettica ha un elemento paradossale, messo ben in luce da Peter Bürger in alcune pagine del suo Il pensiero dei signori. L’oggetto per cui contendono, il riconoscimento o «appetito dell’altro», se non si dà nella forma dell’amore, può darsi solo nella forma della lotta per la vita e per la morte, dunque in realtà diventa irraggiungibile. Il signore, colui che prevale, infatti ottiene il riconoscimento del proprio dominio, ma non dai suoi pari, bensì da parte del servo, che però lui a sua volta non riconosce. «Nessuno dei due avversari raggiunge il proprio fine»[15]. Ma quando ogni mutuo riconoscimento diventa impossibile non rimane che lo scacco e l’angoscia dello straniamento perpetuo. In questo senso Bürger parla di un’ombra signorile incancellabile che scompare ed è presente, e che continua a ergersi, umoristicamente minacciosa, sul destino del servo anche dopo il rovesciamento vittorioso del signore. Il conflitto fra servo e signore continua ad essere attivo, anche se in forme a volte poco visibili e indirette. L’operato servile è infatti, pur nella sua estrema linearità sintagmatica, di tipo obliquo. Esso si basa su un fondamentale scarto ironico. Come il Saul di Lukács, che era uscito per cercare le asine, si ritrova fra le mani un regno, metafora del saggista che cercando la verità trova l’ancor più preziosa vita[16], così il servo hegeliano, proprio mentre lavora alla trasformazione della materia bruta e degli oggetti più modesti, può trovare invece l’autocoscienza e l’emancipazione dal dominio del signore. Questa ironica eterogenesi dei fini apparenta al servo la prosa del saggio. Inoltre quest’ultima, ancora come il servo, nel suo processo di sviluppo non si distacca dal piano reale, dalla verità concreta del mondo. Come nell’Aristotele dipinto da Raffaello, anche il dito del saggio è rivolto verso il qui e ora. E quando trascende questo piano lo fa in modo mediato e dialettico, senza perdere mai di vista il particolare, e l’orizzonte dell’azione pratica. Starobinski, in pagine davvero pregnanti sugli Essais dell’antesignano Montaigne – e sul saggismo in generale – ha individuato tre tipi principali di rapporti che lo scrittore sperimenta col mondo, metaforizzandoli nei termini di una «marche de la passacaille». Questi rapporti sono: «La dépendance subie, puis la volonté d’indépendance et de réappropriation, et infin l’interdépendance acceptée et les mutuels offices»[17]. Si indovinano in controluce le figure fenomenologiche della lotta servo/signore, fra iniziale dipendenza subita, movimento di riappropriazione di se stessi e conclusivo riconoscimento dell’altro, in questo caso paritetico e mutuale, secondo uno schema di perfetta reciprocità. Ma traspare chiaramente anche la libertà del saggio come nesso dialettico fra passività e reattività. Inoltre nell’analisi di Starobinski affiorano altri elementi fondamentali che possono corroborare le osservazioni fin qui svolte. Ad esempio il saggio come nodo indissolubile che lega io e mondo in un groppo di tensioni che si scaricano le une sulle altre. In Montaigne infatti «l’exercise de la réflexion interne est inséparable de l’inspection de la réalité extérieure»[18]. Poco prima si era riconosciuto che il saggio possiede sempre due versanti principali, uno soggettivo e l’altro oggettivo, legati da una «relation indissoluble»[19]. Inoltre il saggista è colui che elegge come campo d’esperienza «le monde qui lui résiste»[20]. Aristotelicamente, egli non resta confinato in una sfera privata d’analisi, ma «il se peint par touches dispersées, à l’occasion de questions d’intérêt général»[21]. Il saggio, come il servo, lavora umilmente con le mani. Montaigne è infatti ben capace di «“penser avec les mains”», perché «il faut savoir tout ensemble méditer et manier la vie»[22]. Starobinski coglie anche quelli che sono i problemi della forma-saggio, la sua indegnità. Fin dal suo apparire il saggio è tacciato infatti di superficialità. Ma la questione più delicata è il rapporto che il saggio moderno, in specie quello letterario, intrattiene con le scienze umane specialistiche e coi loro linguaggi, spesso impersonali e falsamente neutrali. Qui Starobinski ragiona ancora una volta dialetticamente, perché indica come compito del saggista quello di mediare, dunque di «conserver et dépasser dans un effort plus libre et plus synthétique»[23] le determinazioni delle nuove scienze. Tale sforzo può diventare a volte convulso e assumere una «configurazione drammatica»[24], generando il riflesso dell’insicurezza e dello straniamento – se il nesso fra particolare e universale si fa più labile e la totalità si allontana la tensione ad essa si esaspera e certi movimenti mentali diventano rigidi e scomposti. Il saggista dunque, e a maggior ragione se scrittore, dovrà tutto spiegare; o piuttosto giustificare, in termini ʻscientificiʼ, il senso della propria opera, i contorni di una poetica, i suoi modelli, e così via. Ma dovrà misurarsi anche con quello che è stato chiamato «l’odio del saggio»[25], e cioè la ferma determinazione a tenere separati pensiero e letteratura, sapere e figura. Ai feroci sospetti sulla liceità del rapporto fra figure e pensiero, il cui valore resta invece cruciale per il saggio, si potrebbe ribattere in molti modi. Basterà ricordare le intuizioni geniali di Vico, che individuò con sicurezza il ruolo euristico ed esplorativo della metafora posta di fronte al non noto, e alla paura che esso infonde. Alla paralisi dello straniamento conoscitivo il pensiero metaforico aggiunge il lavoro faticoso del riconoscimento dell’altro, e di sé nell’altro[26].

Anche secondo l’ultimo Berardinelli la «terza» reinvenzione della critica novecentesca, quella a dominante linguistica e strutturalistica, fa problema. E segna, col suo scientismo mummificante, la fine della critica e la sua «liquidazione»[27]. Mi chiedo se l’affermarsi sempre più vigoroso lungo il secondo novecento di una saggistica degli scrittori, o dei critici-scrittori, oltre ad essere un sintomo di insicurezza e di turbamento, ovvero il segno tangibile di una difficoltà a legare particolare e universale, possa essere interpretato anche come una più o meno consapevole risposta a tale liquidazione. Il saggio, in particolare quello letterario, dovrà dimostrare allora una tempra agonistica davvero notevole. Egli deve strappare lo spazio della propria libertà, dibattendosi fra le molteplici maschere della necessità. E se il suo limite interno positivo è facilmente individuabile proprio in quella realtà da cui il suo discorso prende le mosse – realtà che egli deve sempre reinventare al livello della forma, dello stile e dei metodi –, i suoi limiti esterni, dialetticamente negativi, sono più nascosti e capziosi. Vale la pena specificare che qui si intende il concetto di limite come elemento che determina ed è determinato, secondo lo schema filosofico dell’azione reciproca. Poniamoci dunque sul piano dei generi di scrittura – sarebbe forse meglio dire: posture discorsive – e ipotizziamo che siano quattro le principali frontiere turbolente del saggio: l’avanguardia e il suo estetismo, la tragedia, le scienze umane e la prosa d’arte[28]. All’interno di questo quadrilatero di ferro si sviluppa la partita del saggio. Esso si distingue intanto dall’avanguardia per la sua decisa propensione gnoseologica, e cioè per la convinzione che ancora l’arte possa conoscere la realtà, idea che l’avanguardia viceversa nega. Ma l’immediatezza appassionante dell’avanguardia pone al saggio un problema. La sua connaturata attitudine alla mediazione non affascinerà mai il pubblico dei lettori quanto il plateale gesto di rottura che mima la tabula rasa. La talpa del saggio si muove lentamente e in profondità; come se accumulasse[29] l’uno sull’altro piccoli scarti metonimici che rielaborano elementi diversi tra loro, il cui rapporto è reale, contiguo, osservabile in una successione spaziale e temporale[30].

Il fulcro centrale della tragedia era per Szondi l’«unità di salvezza e annientamento»[31]. In quanto attimo puntiforme e convulso in cui tutti gli opposti coincidono e si equivalgono, per cui la morte salva, mentre la vita uccide, la tragedia tende a svilupparsi in quell’orizzonte circolare e ripetitivo, che è tipico del dominio signorile, e antitetico a quello del saggio[32]. Fortini, in un suo lavoro su Lukács giovane, metterà in opposizione le mediazioni del saggio con l’estremismo tragico[33]. Lo spazio del saggio non è affatto puntiforme, e non è circolare. Esso si sviluppa lungo traiettorie lineari, ma indomite e frastagliate, come dei fiordi scandinavi. Il suo progetto servile di lotta e trasformazione del reale presuppone una temporalità larga, dialettica, processuale, contingente. Il presente non è tanto, musilianamente, «un’ipotesi non ancora superata», quanto un groviglio inestricabile di passato e futuro, di memoria e intenzionalità. Il presente del saggista non è un paesaggio vuoto e spettrale. Anche nelle situazioni più desolanti il saggio non è mai uomo solo; non può concedersi l’alibi della disperazione e non può illudersi di tornare allo stadio originario della creatura[34]. Al contrario è tenuto a rispondere alle sollecitazioni del proprio tempo, muovendosi in uno spettro di relazioni fruttuose col passato e col futuro. Perché il saggio interessa, e si interessa. Con le parole ancora di Starobinski, egli prova infatti un «intérêt vivant» verso il passato, che non smette di «confronter à notre present, où nous ne sommes pas seuls, où nous ne voulons pas rester seuls»[35]. Va precisato che il momento nichilista del tragico penetra dentro i movimenti del saggio; quest’ultimo infatti non può che essere un organismo a sua volta dialettico, e non monolitico. Per cui esiste un saggismo tragico che espone la propria nudità, e si vota eroicamente alla morte e al sacrificio di sé[36]. I silenzi esclamativi del tragico screziano di lirismo la sintassi prosastica del saggio.

Se rispetto all’avanguardia e alla tragedia la conflittualità col saggio appare abbastanza netta, più complessa appare la situazione dei rapporti con la prosa d’arte e le scienze umane. Nel primo caso il punto comune più evidente è costituito dalla questione dello stile, che può assumere la tendenza verso il bello stile. In una formula di Jacques Bouveresse spesso ripresa viene stigmatizzato proprio l’«abus de Belles-Lettres dans la pensée»[37]. E in effetti questa parziale vicinanza, come chiarisce anche Dalmas nel suo contributo, è per il saggio fonte di perturbamenti, di una non conciliazione con se stesso, che vorrei chiamare vergogna del saggio, con un’espressione il cui genitivo è da considerarsi nello stesso frangente soggettivo e oggettivo.

Per quanto riguarda infine il rapporto con le scienze umane, il punto di contatto e frizione si dispiega sul piano dell’oggettività. Abbiamo già visto come sia caratteristica precipua del saggio il voler mediare fra io e mondo, soggettività e oggettività. Questa posizione mediana lo pone nella situazione di doversi misurare con lo scientismo impersonale e a volte astrattamente ideologico di tali scienze, nel tentativo di salvarne il nocciolo conoscitivo e progressivo – e il saggio di Cadoni ci mostra ad esempio la risposta satirica di Cases alla «logotecnocrazia» scientista. Ma su questo punto conviene anche un saggista acuminato ed esigente come Fortini, il quale, non solo ha distinto con nettezza il critico dallo specialista, ma ha avanzato anche la suggestiva ipotesi che uno dei compiti più urgenti del saggio moderno sia quello di «trasferire tutta la scienza, meno la sua ideologia, ossia quante più certezze scientifiche è possibile, nei luoghi fisici e morali dove gli uomini si chiedono di dove vengano e dove possano o debbano andare, i luoghi che fondano il presente come rapporto fra passato e futuro». Aggiungendo subito dopo: «In questa ipotesi il tema delle forme […] diventa straordinariamente importante»[38].

Sono dunque tante, e diverse tra loro, le forme del saggio, in quanto svariate le battaglie mentali che esso conduce. Al saggio capita infatti di dover indossare il volto libero della verità sulle innumerevoli maschere dell’invenzione. Il presente volume collettivo, intitolato La scrittura che pensa, si segnala innanzitutto proprio per la voluta eterogeneità, e per la problematicità, delle figure in esso scandagliate. Esso si sviluppa dunque, saggisticamente, per accumulazione. Gli scrittori e/o critici saggisti che vengono passati al crivello della critica, elencati e ordinati per anno di nascita, sono undici: Emilio Lussu (1890-1975), Alberto Savinio (1891-1952), Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), Salvatore Satta (1902-1975), Natalia Ginzburg (1916-1991), Franco Fortini (1917-1994), Cesare Cases (1920-2005), Leonardo Sciascia (1921-1989), Angelo Maria Ripellino (1923-1978), Luigi Baldacci (1930-2002), Emanuele Trevi (1964).

A partire dal taglio che gli estensori dei saggi hanno dato di volta in volta all’oggetto del loro studio tenterò di individuare dei rapporti con le questioni fin qui emerse, raggruppando i vari autori analizzati in figure di saggio, sintetiche ed emblematiche, e quindi parziali e arbitrarie, ma capaci di riconoscere delle tendenze di volta in volta dominanti, benché mai in modo univoco e assoluto.

La prima figura di saggio è quella del ʻmilitanteʼ. Il suo saggismo combattivo e maschile, con le parole di Garboli, si potrebbe riassumere di volta in volta con una diversa frase di tono imperativo. In questo gruppo si possono porre sia il Lussu analizzato da Giovanni de Leva, che il Fortini di Davide Dalmas. Nel primo acquista preminenza il tentativo inesausto di ibridare in uno «studio narrato» lo sforzo di conoscenza che l’autore indirizza all’Italia del potere fascista. Il motto imperativo sempre attuale che ci consegna in eredità Lussu potrebbe essere: «Lotta contro il tiranno!». La battaglia di Fortini viene letta da Dalmas su tanti livelli. Ne trascelgo solo uno: la feconda colluttazione col lettore, al quale Fortini chiede uno sforzo intellettivo vigoroso, un’assunzione di responsabilità piena, e una presa di coscienza che parte dalla politica ma la trascende. Tale ingiunzione si potrebbe tradurre in un altro cruciale imperativo: «Convertiti!». Il Cases satirico studiato da Alessandro Cadoni pone ancora la questione dell’«ironia militante», per recuperare una limpida formula di Northrop Frye sulla satira[39]. In questo Cases la polemica contro i nemici dell’illuminismo, siano essi tutti i tecnocrati e/o i burocrati del sapere, si attenua nelle forme del grottesco e del motto di spirito arguto, pur non perdendo nulla sul piano della mordace causticità del pensiero. L’ultimo esponente dei militanti è il mite Baldacci restituitoci da Massimo Onofri. Nel critico-saggista si saldano il rigore, sempre stilisticamente elegante ed efficace, del giudizio critico, e una decisa insofferenza verso gli intellettualismi autoreferenziali di certo Novecento, che inibiscono i rapporti di fruibilità fra testi e pubblico. Se dall’ironia di Cases si può arrivare, attraverso un bizzarro cunicolo, al Tomasi umoristico di Jossa, Baldacci sembra riallacciarsi sia alla riservatezza[40] della non saggista Ginzburg (ancora Dalmas) sia al saggismo squisito del ʻdilettanteʼ Savinio – qui esplorato da Gabriele Tanda. Il punto che quest’ultimi autori hanno in comune è il già citato anti-intellettualismo, coniugato a una decisa propensione per un dettato chiaro, comunicativo, e al limite superficiale – ma come lo intende Savinio – nel senso di avverso a ogni ermetico gusto per l’oscurità. Nella figura cangiante e poliedrica di Savinio si intersecano davvero molti fili, e in modi anche paradossali. Tanda ne sottolinea la particolare militanza anti-borghese. Ma si potrebbe anche menzionare la diffidenza verso gli uomini sedicenti saggi, e segnatamente verso quel Socrate, vizioso inventore della coscienza, che avevamo individuato come l’emblema stesso del saggismo. In Savinio la mescolanza di atteggiamenti signorili e servili si tramuta davvero in nodo gordiano. Da una parte il coltissimo, e un po’ aristocratico, dilettante che sprezza i borghesi e il «plebeo invidioso» Socrate[41]; dall’altra lo scrittore che predilige un rapporto aperto col lettore, che ama porre le cose in piena luce e che apprezza l’abilità di tutti quelli che sanno usare le mani, oltre che la mente – e voglio qui ricordare le memorabili pagine di un libro come Ascolto il tuo cuore città, in cui si descrive con estasiata ammirazione il lavoro certosino di un vasaio di Tarquinia.

A partire da un primissimo Tomasi, che esordisce per l’appunto con dei saggi, Stefano Jossa ci propone il ritratto inedito e spiazzante di un saggista ʻumoristaʼ. In questo Tomasi pirandelliano e anti-eroico l’incrocio fra poetica dell’umorismo, modernismo e saggismo diventa davvero saliente. E la presa di posizione in favore di una poetica dell’umorismo viene confermata anche sul piano dello stile – brioso, idiosincratico, sornione – che Tomasi adotta nei saggi qui analizzati. Dalla Sicilia di Tomasi alla Calabria di Trevi, «metafora di tutti i Meridioni del mondo». Il Trevi scandagliato da Luciano Curreri rovescia umoristicamente, col suo «narrato saggistico», il destino conformistico del Pinocchio di Collodi. Ma nella descrizione/invenzione di una Calabria di legno che si nega ad ogni processo di metamorfosi imposto con la violenza dall’esterno, come nella Sicilia gattopardesca che non vuole mai cambiare, si delineano i contorni di una questione nazionale ancora ineludibile per l’Italia. E che ritorna in questo volume non solo nelle pagine su Lussu già menzionate, ma anche nell’implacabile De profundis (1948) di Satta, messo a fuoco da Piero Mura. A partire dal concetto di «morte della patria» il saggista ʻmeditativoʼ Satta, giurista di formazione, compie una dolorosa riflessione sul fascismo italiano e sui differenti ruoli che in esso giocò il borghese, dapprima nelle vesti di «uomo baco», imbozzolato nella difesa miope di micragnosi privilegi, e in seguito come «uomo vampiro», sempre più attivamente coinvolto nel processo di asservimento e sfruttamento delle classi sociali più deboli. La morte della patria impone dunque una scelta etica ed esistenziale, di fronte alla quale ognuno si trova d’un tratto solo. E allora, se in Lussu prevale, gramscianamente, l’ottimismo della volontà, e la fede nell’azione politica, in Satta sembra farsi strada un tragico pessimismo della ragione che sa bene come il peggiore nemico del popolo sia a volte il popolo stesso, che mira a identificarsi col signore che lo domina. Ma Satta è anche autore di riflessioni saggistiche molto dense sul processo e sul «mistero del giudizio» che non sono sfuggite, et pour cause, a Leonardo Sciascia. In Porte aperte (1987), un testo ambientato proprio nel periodo del fascismo, e il cui protagonista è un giudice, egli riporta in esergo una citazione dello scrittore sardo. Il meditativo Satta e lo Sciascia ʻinquisitoreʼ della verità sembrano essere mossi dalla medesima lancinante sete di giustizia. La stessa che spingerà il saggista siciliano a mettersi, anche in netto anticipo sui tempi, sulle orme del fenomeno criminale mafioso, adoperando da par suo le armi della scrittura – su questo tema si concentra il contributo di Matteo Di Gesù. Difficile infine tradurre in poche parole la figura camaleontica di Ripellino saggista, qui esplorata da Giuseppe Traina. Proprio a partire dalle pagine di Traina si potrebbe però azzardare un minuscolo, forse bizzarro, cammeo. Per l’amore incondizionato che questo «cézanniano» militante della fantasia ha nutrito verso tutto ciò che è aereo e s’inerpica verso l’alto, associerei la sua figura di saggista, che attraversa e sconvolge ogni grigia recinzione disciplinare, a quella di un caparbissimo ʻscalatoreʼ.

Ho cercato, in modo necessariamente incompleto e provvisorio, di evidenziare solo alcune fra le molteplici linee di contatto fra diversi saggismi, che possono emergere dagli studi contenuti in questo volume. Credo che un materiale così vasto e fecondo possa dare solo nel tempo lungo del ʻservoʼ i suoi frutti più maturi e nutrienti. I frutti autentici di un pensiero saggistico che non vuole smettere di riflettere e sperimentare. Ma soprattutto di scrivere. Savinio, citando Schopenhauer, ha detto: «Diffido di coloro che non hanno lasciato traccia scritta del proprio pensiero»[42]. Nella lotta del saggio il pensiero del signore si pone in rapporto dialettico con il lavoro di scrittura del servo. Ed è proprio la traccia di questa lotta ad imprimersi in modo effimero ma visibile sulla sabbia assai tormentata della storia e delle sue rappresentazioni. Non è nient’altro che questo, in fin dei conti, il senso più segreto e profondo della «scrittura che pensa».

[1]   Aristotele, Etica Nicomachea, II, 6, [1106b, 36 -1107a, 1]. Corsivi miei.

[2]   Ivi, VI, 5, [1140a, 25]. Corsivi miei.

[3]   Ivi, VI, 8, [1141b, 15]. Corsivi miei.

[4]   In rapporto ai tre modelli teorici del saggio felicemente descritti da Irène Langlet – «le mixte», «l’entre-deux» e «l’en deçà» – queste pagine propendono verso il paradigma tensivo e utopico, giocato fra Adorno e Musil, dell’«entre-deux». «L’entre-deux est une façon d’imaginer, plutôt que conceptualiser, différentes tensions du genre : tension entre l’affirmation de soi et le refus d’être catégorisé, tension entre la prose et la poésie, tension entre l’art et la science, voire entre l’inconscient et le coscient». Cfr. Irène Langlet, L’Abeille et la Balance. Penser l’essai, Paris, Classiques Garnier, 2015, p. 91.

[5]   Robert Musil, Sul saggio, in Stefano Benassi e Paolo Pullega (a cura di), Il saggio nella cultura tedesca del ‘900, Cappelli Editore, Bologna, 1989, p. 145. Corsivi miei.

[6]   Ivi, p. 146.

[7]   Ivi, p. 147.

[8]   Friedrich Schlegel, Frammenti critici e scritti di estetica, trad. it. di Vittorio Santoli, Firenze, Sansoni, 1967, p. 22.

[9]             György Lukács, Über Form und Wesen des Essays, in Id., Die Seele und die Formen. Essays, Berlin, Egon Fleischel &   Co., 1911 (Essenza e forma del saggio, in Id., L’anima e le forme, trad. it. di Sergio Bologna, Milano, SE, 2002, p. 31).

[10] Musil, cit., p. 147.

[11] Robert Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, Hamburg, Rowolt Verlag, 1978 (L’uomo senza qualità, trad. it. di Anita Rho, 2 voll., Torino, Einaudi, 1996, p. 286).

[12] Pierre Glaudes, L’essai: métamorphoses d’un genre, Toulouse, Presses Universitaires du Mirail, 2002, pp. 2-6. Ma l’etimologia della parola ʻsaggioʼ non è questione del tutto lineare. André Belleau e Jean Starobinski hanno voluto arricchirla di sfumature, notando come il latino ʻexāmĕnʼ, parola molto vicina alla coppia ʻexĭgo/exagiumʼ, contenga due sensi: l’esaminare, cioè il pesare col giudizio, ma anche lo ʻsciameʼ d’api (ʻessaimʼ in francese). Per Belleau dunque: «L’essai n’est pas une pesée, une évaluation des idées ; c’est un essaim d’idées-mots». Cfr. André Belleau, Petite essayistique (1983), in François Dumont (a cura di), Approches de l’essai. Anthologie, Quebec, Éditions Nota Bene, 2003, p. 162. Ma vedi anche Jean Starobinski, Peut-on définir l’essai? (1985), ivi, p. 166. Lo spunto è messo in rilievo dal già citato studio della Langlet, non solo a partire dal titolo, ma anche per l’idea che la duplice etimologia rimandi a una doppia anima del saggio, sempre in bilico fra «l’équilibre et la profusion, la balance et l’abeille». Cfr. Langlet, L’Abeille et la Balance. Penser l’essai, cit., p. 10. Mi limito solo a constatare che, dopo i seminari di Jacques Lacan degli anni Settanta, la parola ʻsciameʼ, connessa da Lacan all’infinita e perniciosa catena semiosica dei significanti, non è più del tutto innocente.

[13] Musil, cit., p. 287.

[14] Musil, Sul saggio, cit., p. 148. Corsivi miei.

[15] Peter Bürger, Das Denken des Herrn. Bataille zwischen Hegel und dem Surrealismus, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1992 (Il pensiero dei signori. Bataille fra Hegel e il surrealismo, trad. it. di Patrizia Farinelli, “Allegoria”, n° 24, 1996, p. 17). Le pagine tradotte in italiano, da cui cito, compongono il capitolo conclusivo del libro.

[16]        Lukács, op. cit., p. 29.

[17] Jean Starobinski, op. cit., p. 177.

[18] Ivi, p. 175.

[19] Ivi, p. 171.

[20] Ibidem.

[21] Ivi, p. 175. Corsivo mio.

[22] Ivi, p. 171.

[23] Ivi, p. 181. Corsivo mio.

[24] Cfr. Stefano Benassi, Il saggio. Teoria e forma, in Benassi – Pullega (a cura di), op. cit., p. 21.

[25] Cfr. Marielle Macé, En quel nom parler? Individu et communauté dans la modernité, “Modernités”, 31, 2010 (La situazione del saggio, trad. it. di Cristina De Simone, in Anna Dolfi [a cura di], La saggistica degli scrittori, Roma, Bulzoni Editore, 2012, pp. 57-59). Ma vedi anche Marielle Macé, Le temps de l’essai. Histoire d’un genre en France au XXe siècle, Paris, Éditions Belin, 2006, pp. 48-52, 273-283.

[26] La questione dei rapporti fra metafora e pensiero è al centro di una bibliografia enorme. Qui non posso che limitarmi a ricordare i nomi di Paul Ricoeur e di Ernesto Grassi. Per l’efficace e succinta chiarezza, che nulla perde sul versante della densità, segnalo solo le belle pagine di Anceschi su «Metafora e poesia». Cfr. Luciano Anceschi, Gli specchi della poesia. Riflessioni, poesia, critica, Torino, Einaudi, 1989, pp. 201-210.

[27] Alfonso Berardinelli, L’invenzione della critica, in Silvia Lutzoni (a cura di), La critica come critica della vita. La letteratura e il resto, Roma, Donzelli, 2015, p. 19.

[28] Una teoria dialettica e agonistica dei generi intesi come «configurazioni di potere», ma diversamente impostata rispetto a quella qui tratteggiata, la si trova in uno studio di John Snyder. In esso il «non-genere» del saggio gioca un ruolo centrale nell’opposizione alla tragedia e alla satira. Cfr. John Snyder, Prospects of Power. Tragedy, Satire, the Essay, and the Theory of Genre, The University Press of Kentucky, 1991.

[29] La legge formale del saggio si esplica, fin dagli albori, come rapsodia. Il saggio procede in modo volutamente anti-sistematico; dunque non per articolazione, ma per accumulazione. Hugo Friedrich, a proposito degli Essais di Montaigne, dopo aver ripreso una distinzione kantiana, ha precisato: «Aussi leur exposition ne procède-t-elle par articulation, mais par accumulation». Cfr. Hugo Friedrich, Montaigne, Bern, Francke Verlag, 1949 (Montaigne, trad. francese di Robert Rovini, Paris, Gallimard, 1968, p. 31). Il verbo latino exaggerare, che deriva da agger ʻterrenoʼ, significa appunto ʻaccumulareʼ, ʻammassareʼ, ʻaccrescereʼ. Sarebbe stimolante poter verificare fino a che punto l’espressione ʻsaggioʼ abbia a che fare, al limite anche etimologicamente, con l’ʻesagerareʼ nel senso di un complicare che accresce e amplifica il reale e la sua percezione. Musil associa, in più punti del suo Uomo senza qualità, il saggio, l’esagerazione e l’immagine metaforica. Per lui inoltre «dovrebbe scrivere saggi solo chi vede connessioni ampie» (trovo quest’ultima citazione in Bruno Berger, Der Essay. Form und Geschichte, Bern, 1964 (Forme aperte di struttura, trad. it. di Chiara Simonato, in Benassi – Pullega [a cura di], op. cit., p. 165). Il saggista sarebbe alla lettera un auctor, nel senso etimologico di colui che aumenta e accresce.

[30] Il tentativo di leggere la forma-saggio come luogo espressivo in cui la dialettica servo/signore si interseca con funzioni letterarie e linguistiche prende liberamente le mosse dall’intenso saggio Opus servile di Fortini, e prosegue su quel solco, provando a immaginare che proprio nella prosa inventiva ma non finzionale del saggio quella dialettica possa conoscere una fase ulteriore di avanzamento e mediazione in una pur provvisoria sintesi. Franco Fortini, Opus servile (1989), in Id., Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di Luca Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, pp. 1641-1652.

[31] Peter Szondi, Versuch über das Tragische, Frankfurt a. M., Insel, 1961 (Saggio sul tragico, trad. it. di Gianluca Garelli, a cura di Federico Vercellone, Torino, Einaudi, 1996, p. 79).

[32] Il saggio è il genere anti-tragico per eccellenza. Cfr. Lukács, op. cit., p. 32.

[33] Franco Fortini, Lukács giovane (1963), in Id., Verifica dei poteri (1965), a sua volta in Id., Saggi ed epigrammi, cit., pp. 268-273.

[34] «Il saggio non esalta l’attenzione rivolta al primigenio quasi che quella fosse più originale dell’attenzione rivolta al mediato, poiché nell’originarietà stessa esso vede un oggetto della riflessione, un negativo». Cfr. Theodor W. Adorno, Der Essay als Form, in Id., Noten zur Literatur, Frankfurt a. M., Surhkamp, 1965 (Il saggio come forma, in Id., Note per la letteratura, trad. it. di Alberto Frioli, con uno scritto introduttivo di Sergio Givone, Torino, Einaudi, 2012 [1979], p. 21).

[35] Starobinski, op. cit., p. 181. Corsivo mio.

[36] In questa sede posso solo accennare al concetto sartriano di «essai-martyre» che connoterebbe il saggismo tragico di Bataille. Le considerazioni polemiche di Sartre, intese in senso metaforico, e dunque estese ad ambiti più ampi, possono essere utili a individuare una divaricazione all’interno del saggio, una dialettica dentro la dialettica, in cui momento servile e signorile ancora una volta si coagulano, si biforcano e si affrontano. Cfr. Jean-Paul Sartre, Un nouveau mystique (1943), in Id., Situations I, Paris, Gallimard, 1947, pp. 133-174.

[37] La formula campeggia fin dal titolo in Jacques Bouveresse, Prodiges et vertiges de l’analogie: de l’abus des belles-lettres dans la pensée, Paris, Éditions Raison d’agir, 1999. La trovo ripresa in Macé, Le temps de l’essai, cit., p. 278.

[38] Franco Fortini, Una opportuna premessa, in Id., Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, Milano, EST, 1998 (1968), p. 18. Corsivo mio.

[39] Northrop Frye, Anatomy of Criticism: Four Essays, Princeton University Press, 1957 (Anatomia della critica. Quattro saggi, trad. it. di Paola Rosa-Clot e Sandro Stratta, Torino, Einaudi, 2000 [1969], p. 298).

[40] Giacomo Magrini ha definito il mondo espressivo della Ginzburg con la felice formula «oltranza del riserbo». Cfr. Giacomo Magrini, Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, in Letteratura italiana. Le opere, IV Il Novecento, II La ricerca letteraria, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1996, pp. 784-785.

[41] Alberto Savinio, Nuova Enciclopedia, Milano, Adelphi, 1977, p. 103.

[42] Ibidem.

[Immagine: Olafur Eliasson, Your Rainbow Panorama (gm)]

2 thoughts on “Il saggio ovvero il giusto mezzo dell’invenzione

  1. “ 8 marzo 1994 – Io ho solo il naso ma il naso mi funziona bene. Proprio ora che mi sto ponendo il problema della critica letteraria – della critica come « genere », della « forma saggio », etc., fra l’altro ripensando a Fortini, leggendolo o ri-leggendolo (Critica, in Ventiquattro voci, 1968), interrogandomi sul perché da vent’anni a questa parte io senta il bisogno di scrivere ma insista a diffidare claustrofobicamente dell’odore di accademico chiuso che spira nella critica, constatando di pari passo che se non è sorta una generazione di scrittori è sorta tuttavia una generazione di critici, e però il mio problema non sono né gli uni né gli altri, perché il mio problema è la Letteratura, etc: – mi capita fra le mani questo numero della rivista «Nuova corrente» interamente dedicato al tema Il saggio nel Novecento italiano (n. 113, 1994). Mentre mi propongo di leggerlo devotamente, penso fin d’ora che sarebbe bello dimostrare che la saggistica è tutto quanto è rimasto della letteratura (vedi sopra), anzi nemmeno, dato che la saggistica (la critica) ormai mi pare che si senta pressoché totalmente autonoma dal suo oggetto, dimentica della sua origine, che si celebri, denigri, racconti, discuta, in quanto tale, in sé e per sé, solipsistica-mente. E forse ha ragione. Perché la domanda è se si faccia critica per le stesse ragioni, con gli stessi fini con cui si scrive letteratura. In questi anni, solitari e un po’ scemi, io ho sentito che qualcosa era in pericolo di vita, moribondo o già morto, e questo qualcosa ho chiamato, sommariamente, Letteratura. Otto milioni di critici letterari sono apparsi a dimostrare che il mio pathos era, come minimo, ingenuo. Ma il pathos, antropologicamente determinato, rimane. “

  2. “Essai, conosciuto nel francese del XII secolo, proviene dal basso latino exagium, la bilancia; essayer deriva da exagiare, che significa pesare. Nelle prossimità di questo termine si trova examen: ago, spola sull’ago della bilancia, di seguito, peso, esame, controllo. Ma un altro senso di examen designa lo sciame [essaim] di api, lo stormo di uccelli L’etimologia comune sarebbe il verbo exigo, spingere fuori, cacciare, poi esigere. Quante tentazioni se il senso nucleare delle parole d’oggi dovesse risultare da quel che hanno significato in un lontano passato! L’essai dice del pesare esigente, dell’esame scrupoloso, ma anche dello sciame [essaim] verbale da cui si libera il volo.”

    Jean Starobinski “Peut-on definir l’essai?” in Cahier pour un temps, Centre Georges Pompidou, Paris, 1985 p. 185

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