di Valentina Pisanty
[Una prima versione di questo intervento è uscita sul «Manifesto»]
Da qualche anno è stato coniato un termine per riferirsi alla visione ininterrotta e compulsiva di più episodi di una serie televisiva in streaming: binge-watching, sulla falsariga del binge-eating (bulimia). I tratti distintivi di questo fenomeno – come di tutti gli altri comportamenti che in inglese meritano il prefisso “binge”: –drinking, –dating, –sleeping, –gambling… – sono l’eccesso, la passività e la perdita di controllo. Qualcuno fa qualcosa in modo sfrenato, e subisce la propria compulsione senza sentirsene pienamente responsabile. Ma la parte meno autoindulgente di sé avverte, ingloba e amplifica la condanna sociale che grava sui comportamenti eccessivi e incontrollati. Almeno secondo una vecchia idea di virtù come moderazione, compostezza e gestione lungimirante delle energie, non è bene cadere in balìa (farsi agire) da sostanze esterne. Di qui il grumo di sentimenti auto-svalutanti da cui scaturisce ogni varietà di dipendenza.
Strettamente legato alle nuove forme di distribuzione di fiction via cavo o in streaming, e dunque all’esplosione seriale che Gianluigi Rossini (Le serie TV, Il Mulino) ripercorre nelle sue principali tappe storiche, il binge-watching è al contempo effetto e causa del successo di piattaforme come HBO, Showtime, Netflix e altre che dal 1995, e sempre di più negli ultimissimi anni, inondano il mercato con vecchie e nuove serie. L’offerta massiccia genera una domanda crescente e modifica i consumi in senso qualitativo, oltre che quantitativo. Mentre attingono a scorte illimitate e semi-gratuite di produzioni televisive scandite in episodi e stagioni, affidandosi al proprio fiacco Super-Io come unico argine a una fruizione sempre più casalinga e solitaria, gli spettatori si svincolano dalle cadenze del palinsesto tradizionale, abbassano la soglia di frustrazione dovuta all’attesa tra un episodio e l’altro, e sviluppano un rapporto morboso con gli universi seriali in cui si immergono per diverse ore di seguito, rimandando il più possibile il ritorno all’assai più disforica sfera dell’agire quotidiano.
I comportamenti di consumo retroagiscono sulla produzione. Man mano che si afferma la pratica della visione in streaming, le serie di ultima generazione – Breaking Bad, Game of Thrones, True Detective, House of Cards, Homeland, The Walking Dead, e tante altre – accentuano alcune caratteristiche già sperimentate, seppure in modo meno radicale, in alcune fiction precedenti: The Sopranos, House, 24, Dexter, e altre celebrate apripista della cosiddetta terza Golden Age televisiva. Diversamente dai vecchi telefilm, la cui struttura era prevalentemente episodica (cioè: ogni episodio aveva un inizio, uno sviluppo e uno scioglimento che riportava tutto più o meno alla situazione di partenza), le nuove serie sono contrassegnate da frequenti colpi di scena, agnizioni e cliffhanger, in una fuga senza fine di peripezie che non si concludono mai, neppure a fine stagione.
La tecnica della serialità continua non è nuova. Tipica del feuilleton, fa leva sul bisogno umano di completezza narrativa: quella messa in racconto del caos che conferisce ordine al disordine costitutivo dell’esperienza; quel principio epico primitivo di cui, prima degli odierni narratologi, parlava Musil nell’Uomo senza qualità (“Beato colui che può dire ‘allorché’, ‘prima che’ e ‘dopo che’!…”); quel bisogno irrefrenabile di intendere il post hoc come un propter hoc che, a quanto pare, è prerogativa della specie umana… Come i romanzi a puntate, le serie continuative solleticano il desiderio di interpretare il mondo come una sequenza ordinata di eventi concatenati, con soggetti che agiscono in vista di scopi riconoscibili, peripezie che ne rendono difficile il raggiungimento, programmi e sottoprogrammi narrativi che si intersecano polemicamente e, soprattutto, con uno scioglimento che decreta il successo o l’insuccesso dei vari soggetti in gioco. Come i romanzi a puntate costruiscono trame travolgenti, “a curva sinusoidale” scriveva Umberto Eco nel Superuomo di massa, che rimandano all’infinito la fase dello scioglimento. L’effetto cumulativo di questi differimenti è l’impossibilità, per chi soggiorna a lungo nei mondi delle serie, di fare un ritorno tranquillo nel mondo reale. Senza chiusura non c’è catarsi, consolazione di sapere che “così è stato”, accettazione dell’ineluttabile, elaborazione del senso della fine, e dunque non c’è rappacificazione con il presente. Dopamina senza endorfina: la formula delle dipendenze.
Fin qui il paragone con il feuilleton regge benissimo, salvo che per il fatto che in quel caso la scansione delle pubblicazioni in puntate quantomeno imponeva dei ritmi al consumo. Ma un altro tratto tipico dei romanzi popolari era il loro massiccio ricorso a stereotipi letterari – l’Eroe Fatale, il Vendicatore, la Belle Dame Sans Merci, la Vergine Prostituta… – per costruire intrecci consolatori in cui le previsioni dei lettori fossero sistematicamente confermate, e la gratificazione del riconoscimento compensasse la frustrazione della serialità infinita. Sotto questo profilo le nuove serie sono l’esatto contrario. Se i personaggi di Dumas erano poco più che figurine bidimensionali – magari potentissime e memorabili ma, quanto a complessità psicologica, del tutto simili ai supereroi dei fumetti, almeno prima che anche questi entrassero in crisi – i protagonisti delle nuove sono problematici e contorti. Non si limitano a incarnare ruoli, non servono solo a far procedere l’azione: sono proprio le loro contraddizioni a generare gli intrecci. In comune hanno da una parte il fatto di essere psicologicamente ammaccati (da malattie, dipendenze, caratteri impossibili e traumi vari), e dall’altra di saper prendere decisioni impossibili e di far succedere cose impensabili nelle situazioni di emergenza che in quei mondi sono all’ordine del giorno. Fini strateghi, moralmente ambigui, lacerati da contraddizioni, eppure capacissimi di agire per sé e per – o contro – gli altri, non si limitano a far succedere le cose, ma sanno anche perché le cose succedono: come i personaggi-ideologi di Dostoevskij descritti da Bachtin amano discettare sui massimi sistemi, talvolta in contrasto con antagonisti-filosofi altrettanto eloquenti, e non mancano di dispensare aforismi fulminanti a chiunque li stia ad ascoltare.
Last but not least, sono eminentemente mortali. Mentre negli intrecci tradizionali l’eliminazione di un personaggio importante solitamente avviene all’inizio o alla fine, la morte seriale colpisce a pioggia, senza marcare i limiti in entrata o in uscita dell’universo narrativo, e dunque senza contribuire ad alcun effetto di pacificazione o di chiusura retrospettiva del senso. Nei confronti di questi eroi perituri scattano processi tortuosi di identificazione, segnati dall’attaccamento ansioso che si prova verso le persone amate a cui si teme un giorno o l’altro di dover sopravvivere. Come è possibile che ci si identifichi con personaggi al contempo così problematici e caduchi (come noi) eppure così straordinariamente capaci (diversamente da noi) di far fronte ai propri limiti con mirabile spirito di iniziativa? È nel coacervo di somiglianze e differenze che si annida il principio attivo delle nuove serie.
Altra caratteristica: molte serie mettono in scena mondi inospitali, spietati, estranei a qualsiasi contratto sociale. La lotta per la sopravvivenza – tutti contro tutti, senza esclusione di colpi, e che vinca il più adatto – può ricordare, sia pure in forma iperbolica, alcuni tratti del mondo attuale, e basta partecipare a un consiglio di dipartimento per capire cosa intendo. Nella realtà saremmo inclini a scappare da simili contesti sleali, selvaggi e aleatori. Eppure la spinta propulsiva che induce a ricliccare su “Next Episode” ha moltissimo a che vedere con il fascino esercitato da questi mondi rapidi, insidiosi e spaventosamente reattivi: mondi hobbesiani-darwiniani, dicono i numerosi pop-filosofi che oggi hanno eletto le serie a proprio oggetto precipuo di ricerca. A cosa si deve la formidabile attrattiva degli universi seriali? Di nuovo entra in gioco una miscela di identificazioni e di proiezioni discordanti: in quanto competitivi e insicuri i mondi delle serie sono, sì, simili al nostro, ed è questo vago riconoscimento che ce li rende stranamente familiari. Ma per altri versi non potrebbero essere più differenti. Difficilmente nel mondo reale il groviglio della complessità si dipana in catene riconoscibili di cause e di effetti, e difatti molti eventi restano inspiegati, avvolti in una nebbia di motivazioni e di responsabilità incerte. Al contrario le serie districano il garbuglio degli eventi nei suoi molteplici fili, restituendogli una parvenza di perfetta intelligibilità. È come se i moventi, gli stratagemmi, le azioni e le reazioni, per intrecciate che siano, risaltassero con insolito nitore, e ciò pone lo spettatore competente in pieno controllo della situazione come raramente gli accade nella vita quotidiana.
Proprio perché sono intelligibili, i mondi seriali appaiono anche agibili: vedendo Homeland si ha l’impressione di comprendere finalmente le dinamiche nascoste della politica internazionale e, una volta capito cosa sta succedendo, si intuisce anche dove sarebbe possibile intervenire per modificare il corso degli eventi a proprio vantaggio, ovvero a vantaggio dei personaggi con cui ci si immedesima. Issati sulle spalle degli sceneggiatori, a livello con i protagonisti, gli spettatori si proiettano così nel ruolo attivo che tendenzialmente gli è precluso nella vita reale, immaginandosi come soggetti capaci, decisionisti e performativi in quei mondi. Ma affinché l’illusione euforizzante persista, occorre rimandare il ritorno all’io-qui-e-ora, oppure rientrarci in modo psicotico, alla maniera di Don Chisciotte.
Non sarà un caso che, come suggeriscono alcuni recenti studi sull’incidenza del binge-watching sulla depressione (e viceversa), la dipendenza seriale entra in circuito con quella forma contemporanea di depressione che Alain Ehrenberg chiama “la fatica di essere se stessi”, e che all’incirca riguarda l’impossibilità di sentirsi all’altezza dei principi di prestazione, di competitività e di massima efficienza che la cultura egemone prescrive. Il contrasto tra il Sé ideale (rappresentato dagli eroi e dalle eroine sullo schermo) e il Sé reale (afflosciato sul divano col dispositivo sulla pancia) in effetti non potrebbe essere più stridente, come risulta penosamente chiaro al termine di una maratona seriale quando, rigettati nel proprio mondo, ci si sente svuotati di ogni prospettiva esistenziale: what now?
“Sai perché i personaggi delle serie tv hanno delle vite così interessanti?” chiede un appassionato serialista su facebook. Ovvio, “Perché loro non guardano le serie tv”. Torna in mente il “paradosso di Joe Valigetta” con cui, in un famoso saggio del 1990, David Foster Wallace illustrava la tipica astenia del teledipendente, paralizzato dal richiamo contraddittorio che lo inchioda alla poltrona: in un orecchio il dispositivo gli mormora “Joe, Joe, c’è un mondo in cui la vita è vissuta sul serio, dove nessuno passa sei ore al giorno a rilassarsi davanti a un mobile”; nell’altro gli dice “Joe, Joe, il tuo unico accesso a quel mondo è la tv”.
Prolungare il soggiorno negli universi finzionali lì per lì narcotizza la malinconia del presente e la delusione di sé. Ma in qualche recesso della mente si fa largo la consapevolezza che, come sempre con le dipendenze, la sostanza che si assume come balsamo è causa del disagio che allevia. Unica via di uscita, rivendicare il paradosso come elemento costitutivo della propria identità; dichiararsi orgogliosamente dipendenti; riconoscere e condividere con una moltitudine di altri affini il doppio legame in cui ci si è avviluppati, e rinascere al mondo come serializzati tra serializzati.
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Che la Grande Serialità televisiva abbia conquistato riconoscimenti e consensi pressoché unanimi è oramai un dato di fatto. Che la qualità di alcune nuove serie sia talmente pregiata da contendere il primato artistico a cinema e letteratura è addirittura un luogo comune. Le serie coinvolgono, colpiscono, avvinghiano anche grazie alle notevoli abilità degli sceneggiatori che in alcuni casi particolarmente felici paiono istituire un nuovo canone narrativo, inedito bricolage di intrecci epici, ricostruzioni filologicamente accurate, psicologie convincenti, dialoghi sofisticati e procedimenti audaci. Critici e massmediologi convengono che siamo entrati nella terza Golden Age della televisione (dopo l’era postbellica degli show in diretta e l’impennata degli anni Settanta-Ottanta): l’età dello storytelling digitale, delle tv via cavo e in streaming, della flexi-narrative, della mescolanza dei generi e del binge-watching. Ma da quali forme anteriori e in quali contesti evolvono le serie di ultima generazione? Partendo dall’assunto che “ciò che caratterizza le forme seriali è il rapporto tra l’industria che le produce e i lettori/ascoltatori/spettatori che le consumano”, Gianluigi Rossini (Le serie TV) ricostruisce, fase per fase, la fitta trama di istituzioni, assetti economici, strategie di mercato, innovazioni tecnologiche, trovate artistiche e risposte del pubblico di cui è fatto l’ecosistema mediale. Dimostrazione esemplare di quanto i processi creativi siano condizionati dalle strutture che li sostanziano, il libro descrive la parabola ascendente di una forma televisiva in continua metamorfosi – la serie serializzata, improntata alla formula problema/soluzione – il cui trionfo è testimoniato dal fatto che da più parti se ne dichiari già la fine.
[Immagine: House of Cards].
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