[Giovedì scorso è stato assegnato il premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan. Se n’è discusso e se ne discuterà molto. Claudio Giunta ci parla di Dylan, Marco Grimaldi riflette sul rapporto fra canzoni e poesia. Una prima versione dell’articolo di Claudio Giunta è uscita sul «Domenicale» del “Sole24ore»].
Don’t Think Twice, It’s All Right
di Claudio Giunta
Gore Vidal – che almeno per i suoi saggi il Nobel se lo sarebbe meritato – non sarebbe stato contento. «La gente vive d’illusioni», scriveva (Literary Gangsters). «Si tratti di quello studente del college che si alza in piedi alla fine della conferenza e dichiara, non chiede: “Non crede che Bob Dylan sia il più grande poeta vivente?”. O si tratti di Richard Nixon che non vuole essere il primo presidente americano a perdere una guerra». Ma Vidal ironizzava sul poeta-paroliere Dylan nel 1970, quando Dylan aveva ventinove anni e cantava da meno di un decennio. Non avrebbe smesso di scrivere canzoni per i successivi quarantasei anni, ed è questa incredibile fecondità – unica nel numero, spesso suprema, pace Vidal, nella qualità – che l’Accademia di Svezia ha voluto premiare col Nobel per la letteratura, giovedì scorso.
Come succede con quegli artisti che hanno vissuto e lavorato a lungo, e senza mai veramente ripetersi (come succede con Allen, o Picasso, o Philip Roth), ognuno ha il suo Dylan, ognuno ha un periodo e un fascio di canzoni a cui è particolarmente devoto. E naturalmente la devozione, se tenuta viva dagli ascolti, può cambiare con gli anni (arriva abbastanza presto un momento della vita in cui Blowin’ in the Wind diventa inascoltabile). Il Dylan che proprio non si può non amare è quello degli anni Sessanta, quello che sfornava canzoni a decine, a centinaia, quello che – come ricorda uno dei suoi biografi, Daniel Epstein – «temeva di andare a dormire la sera per paura di perderne anche soltanto una». In meno di tre anni, tra il 1964 e il 1966, fa uscire tre album (The Times They Are a-Changing, Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde) che da soli non bastano forse per il Nobel, ma sono più che sufficienti a farlo considerare come il più grande cantautore della sua epoca (per capirsi, l’abbondanza è tale che il capolavoro che è Positively 4th Street – «Yes, I wish that for just one time / You could stand inside my shoes / You’d know what a drag it is / To see you» – non trova posto in nessuno dei tre album).
Di lì in poi si possono avere, sull’evoluzione della sua carriera, idee diverse. Ma c’è un largo accordo sul fatto che il disco centrale degli anni Settanta, Blood on the Tracks (1975) sia uno dei più bei dischi rock di tutti i tempi. E mentre nessuno ha il coraggio di rivalutare i dischi della ‘svolta cristiana’, tra i Settanta e gli Ottanta, non si può negare che negli ultimi trent’anni, in mezzo a molte canzoni dimenticabili, Dylan ha scritto parecchi capolavori. Secondo me: Infidels (1983) in blocco; Oh Mercy (1989) in blocco; e tra i singoli, in ordine crescente di perfezione, Things Have Changed, Most of the Time, Series of Dreams (sì, la Più Bella Canzone di Sempre).
Dopo decine e decine di canzoni ascoltate mille volte, dopo gli articoli su di lui, dopo aver letto le sue memorie, Chronicles, uno si aspetterebbe di conoscerlo come le sue tasche, invece no. Si sa più o meno cosa aspettarsi da Neil Young, o da Cohen, o da Jagger; ma Dylan è diverso. Le sue interviste sono rare, laconiche, contraddittorie, disseminate – come lui stesso ha detto una volta – di mezze verità o di bugie («The press? I figure you can lie to them»). Sulla sua vita privata è sceso un velo nel 1966, quando a venticinque anni si è ritirato a vivere in campagna con la prima moglie, e il velo non è mai più stato davvero sollevato. Le sue canzoni parlano e non parlano di lui. Non che manchino le idee espresse chiaramente (da, per citare due meraviglie, The Lonesome Death of Hattie Carroll [1964] a Workingman Blues #2 [2006], Dylan ha sempre scritto canzoni in difesa della dignità della povera gente), o i frammenti di vera autobiografia: Dylan è sempre intensamente personale, anche quando racconta la storia di un pugile accusato a torto di omicidio. Ma nei suoi testi più complessi e interessanti (per esempio in Tangled Up in Blue) le personae si sovrappongono, il filo della trama si perde nel vortice dei giochi di parole e nelle associazioni mentali, chi sia davvero l’io che sta parlando non si capisce più. Per quanto insopportabilmente pretenzioso fosse il film, pochi titoli sono stati più azzeccati di quello del biopic di Todd Haynes I’m Not There.
Infine c’è Dylan in pubblico, che è davvero uno degli spettacoli più deliziosi che lo star-system dell’ultimo mezzo secolo sia riuscito, chissà come, a produrre. Da giovane era, semplicemente, consapevole di essere un’icona, e la sua serena noncuranza, o spocchia, in mezzo agli altri, si spiegava ovviamente così. Da vecchio ha pose su cui si vorrebbe il parere di uno psichiatra. Patologico narcisismo? Timidezza? Autismo? Semplice stronzaggine? Guardatelo alla fine della penultima puntata del Letterman Show, mentre Letterman lo ringrazia e gli indica il pubblico acclamante, e lui si gira dall’altra parte; oppure alla Casa Bianca, con Obama che gli mette al collo la Medal of Freedom, e lui – occhiali scuri, faccia scura (chi lo ha visto sorridere, negli ultimi anni?) – lo ringrazia con una pacca sulla spalla e se ne va. Sociopatia? Difficile dire, ma a Stoccolma, sempre che ci vada, ascolteremo probabilmente il più strano discorso di accettazione dell’intera storia del Nobel, un carosello di smorfie e borbottii.
Resta la Questione Teorica, quella che agita i pensatori. «Gli scrittori protestano: lui che c’entra?», era il già memorabile titolo del sito del «Corriere» giovedì pomeriggio (catenaccio: «Baricco è dubbioso, Irvine Welsh si scaglia contro l’Accademia svedese»). E insomma: può la canzone, ancorché d’autore, permettersi di pareggiare la Letteratura? Non c’è davvero niente che non vada nella serie Montale-Miłosz-Brodskij-Heaney-Dylan?
A me sfugge il senso di queste remore. Perché non si tratta di dichiarare che le canzoni sono come le poesie, o sono le poesie del nostro tempo, né che i testi di Dylan si possono leggere come si leggono quelli di Montale o di Brodskij; si tratta di prendere nota con gratitudine del fatto che da mezzo secolo a questa parte un nuovo genere è venuto ad arricchire e a complicare il macrogenere che chiamiamo Letteratura. C’è stato un tempo in cui un autore di sonetti non avrebbe vinto il Nobel, perché i sonetti erano considerati nugae; e c’è stato un tempo in cui non lo avrebbe vinto un romanziere, perché i romanzi venivano liquidati come roba per signorine. Le cose cambiano, se sono vive. E del resto, se è indubbio che ci sono cose che una canzone non può dire tanto bene, tanto esattamente quanto può dirle una poesia, è anche vero il contrario, cioè che la sola carta non basterebbe a contenere l’invettiva di Like a Rolling Stone, o l’inno di Chimes of Freedom, o il sogno medievale di All Along the Watchtower. Se non sai metterli in musica, non li puoi dire.
E comunque di queste cose, alla fine, non giudicano gli intellettuali ma il senso comune, e il Senso Comune si è espresso con classica tempestività: «Mentre siamo al lavoro sui numeri della stabilità arriva la notizia di #BobDylan Nobel per la letteratura. La poesia vince, sempre» (Matteo Renzi, tweet di giovedì 13 ottobre, ore 13.28). Ma infatti.
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Perché il Nobel a Bob Dylan è una rivoluzione
di Marco Grimaldi
Io mi occupo di letteratura medievale. Quest’anno con i miei colleghi ho avuto la folle idea di presentare un progetto di ricerca a Futuro Remoto, una manifestazione di cultura scientifica che si svolge a Napoli da trent’anni ed è pensata per gli studenti delle scuole medie e superiori. Il nostro banchetto era fra un team di ingegneri che crea super-materiali e dei tizi con una tuta ipertecnologica per immersioni. Com’era facile immaginare, i nostri poster sui trovatori e Dante, i nostri computer sui quali scorrevano immagini di manoscritti e con i quali facevamo ascoltare qualche pezzo di canzoni medievali non hanno riscosso molto successo. Era anzi divertente osservare i professori che, dopo una saggia e rapida occhiata, scartavano il nostro stand conducendo oltre la scolaresca. Il record di permanenza è stato stabilito da una coppia di tedeschi (lei era una germanista e alla fine ci ha umiliati recitando versi in tedesco antico) e da un vecchietto che non si sa perché voleva sapere da noi se la tensostruttura che ospitava la manifestazione sarebbe stata portata via smontata pezzo per pezzo o sollevata tutta intera. Quando un gruppo di studenti si fermava ad ascoltare c’erano solo pochi argomenti che funzionavano e facevano scattare qualcosa dentro le loro teste piene di tecnologia e di innovazione: che i trovatori sono stati i primi “cantautori” moderni, i primi a comporre in una lingua comprensibile a tutti, e che per un po’ di tempo, in Italia, gli italiani scrivevano in occitano, che aveva maggior prestigio culturale, e non nella loro lingua materna, proprio come oggi si scrivono canzoni in inglese.
Insomma, quando si parla di letteratura antica i più giovani sembrano essere colpiti soprattutto da due aspetti. Uno più generale, cioè che il passato per certi versi non è poi così diverso dal presente, e uno più specifico ma più interessante: che una parte significativa delle opere contenute nei manuali scolastici è in realtà abbastanza lontana dall’idea di letteratura che le istituzioni culturali cercano di tramandare. E più precisamente che i trovatori, i primi poeti in lingua volgare, quelli che hanno “inventato” la poesia moderna e senza i quali non sarebbero esistiti né Giacomo da Lentini né Petrarca, erano in fondo più simili a Bob Dylan che agli altri poeti che hanno vinto il premio Nobel e che invece si studiano normalmente a scuola, come Salvatore Quasimodo o Eugenio Montale. I tempi erano comunque maturi per il Nobel a un cantautore: in alcuni manuali di letteratura italiana per le superiori si mettono già in parallelo i trovatori e i cantanti moderni; e la sera in cui si è saputo che il Nobel lo aveva vinto Dylan, alla radio qualcuno ricordava di averlo portato alla maturità alla fine degli anni Ottanta (in inglese, non in italiano). L’ovvia conclusione sembra essere che se i trovatori, i poeti più importanti del Medioevo, quei poeti che oggi studiamo come una parte della letteratura, erano quasi come dei cantautori, allora è legittimo assegnare a un cantautore il Nobel per la letteratura.
Ma le cose non sono così semplici. Il Nobel a Bob Dylan è una rivoluzione. Anche chi come me si occupa di letteratura italiana e romanza dei primi secoli, quei secoli in cui la maggior parte della poesia era cantata o accompagnata dalla musica, e che quindi dovrebbe considerare del tutto normale che delle canzoni siano trattate come letteratura, non può evitare di fermarsi a riflettere quando per la prima volta il più importante premio letterario al mondo è assegnato non a un autore che scrive per essere letto, ma a un autore che scrive per essere ascoltato. Quello che conta, infatti, non è che Bob Dylan e i trovatori possano sembrare molto vicini tra loro (una visione che però non tutti condividono), ma che con il Nobel a Dylan finisce un’idea di letteratura che è nata dopo i trovatori e che è durata fino a oggi.
La nostra idea di letteratura, almeno in Occidente, nasce infatti quando le opere scritte nelle lingue moderne raggiungono lo stesso livello di dignità culturale delle opere greche e latine e quando a scuola non si studiano più solo Virgilio e Cicerone ma anche Dante, Petrarca e Boccaccio. Questo fenomeno va di pari passo con la separazione della poesia dalla musica. Si può discutere di quando si sia prodotta la frattura; si può precisare che per molto tempo il distacco non è stato netto, che Dante faceva ancora cantare alcune delle sue poesie e che molta “poesia per musica” (da Monteverdi a Metastasio) è parte integrante di quello che chiamiamo letteratura. Ma fino a qualche giorno fa quello che si intendeva per letteratura (moderna) era esattamente questo: l’insieme delle opere scritte in una lingua moderna e in particolare quelle sulle quali si impara a leggere e a scrivere.
Già il caso di Dario Fo, che a differenza di altri premi Nobel che erano scrittori e anche drammaturghi ha scritto quasi solo per il teatro, aveva complicato un po’ il quadro. Tuttavia, sebbene il teatro sia fatto per essere rappresentato e non solo per essere letto, da molti secoli l’altissima qualità letteraria di alcuni autori (Shakespeare, Molière, Racine, Goethe e via dicendo) aveva trasportato di diritto il teatro nella letteratura. Ed è un dato di fatto che moltissime persone leggono il teatro invece di assistere agli spettacoli. Il Faust, per esempio, è pensato come un’opera che fa parte della letteratura, un’opera che deve essere stampata e letta e solo occasionalmente rappresentata. Quante persone invece leggono le canzoni di Bob Dylan slegate dalla musica? Non è tanto importante che la destinazione ideale del testo di Amleto sia la scena; è più importante che finora molte generazioni, e non solo di parlanti inglesi, abbiano letto Shakespeare ben prima di vederlo rappresentato. La stessa cosa si può dire per i trovatori: è vero che senza la musica si percepisce forse solo metà della bellezza di quelle canzoni, ma il trascorrere del tempo ha destinato quei componimenti prevalentemente alla lettura e non più all’ascolto (anche perché sappiamo molto poco di come venivano eseguiti, mentre siamo più o meno sicuri di come fossero fatti i testi). Ed è questo uno dei motivi per i quali i trovatori fanno parte della letteratura.
Nel caso di Dylan, sembra che la giuria del Nobel abbia voluto anticipare i tempi. Non so se si siano ripromessi di fare sì che le canzoni di Bob Dylan conseguano in futuro una certa autonomia rispetto alla musica. A mio parere è molto difficile, ma non impossibile, che ciò accada, considerato il ruolo di media come You Tube nella nostra vita quotidiana. Non riesco infatti a immaginare che Dylan diventi un classico della letteratura così come la intendevamo ieri e che il pubblico inizi a leggerlo più che ad ascoltarlo; mi aspetto piuttosto che lo statuto della letteratura muti ancora e che da qui a qualche anno il Nobel venga assegnato a un autore di graphic novels.
[Immagine: Bob Dylan].
“ 21 giugno 1984 – « Bob Dylan? Gli anni Sessanta? Io ci sono nata. Non so bene cosa sia successo in quegli anni, ma vedendo ora quella generazione sono contenta di non averne fatto parte. Non mi piace la gente triste. » (Dice Jo Squillo) “.
Ma è proprio ovvio,al netto della questione canzone/poesia, che i testi di Bob Dylan meritavano di vincere su tutto quello che hanno scritto Roth, DeLillo, Merwin, eccetera eccetera…?
Effettivamente, pensando a quanto scrive Grimaldi, un Nobel a un autore come – per dire – Art Spiegelman fugherebbe il ragionevole sospetto che l’ultima assegnazione sia, prima ancora che un’azzardata provocazione sulle soglie di ciò che da cinque-seicento definiamo “letteratura”, una trouvaille sbarazzina.
È difficile stabilire quanto Bob Dylan tenga a questo premio! Ha ricevuto nel corso degli anni della sua lunghissima carriera artistica innumerevoli premi e onoreficienze. L’ultima da parte del presidente degli U.S.A. Barack Obama. La prima onoreficenza che ricevette è stato il Premio Tom Paine, pochi mesi dopo l’assasinio del presidente John Fitzgerald Kennedy nel 1963. Quella prima volta ritirando il premio fece un discorso che lasciò interdetti e offesi molti accademici e personalità della cultura e dell’establishment americano presenti. Aveva appena 23 anni ma aveva ben chiaro quello che non voleva diventare. Certamente a quei tempi non voleva diventare un Premio Nobel e sono convinto che anche ora glie ne porti poco. Importa sicuramente più a chi gli ha dato il Premio Nobel, ad alcuni suoi fan e soprattutto ai suoi detrattori.
In queste poche righe c’è gran parte del pensiero di Dylan che non si discosta da quello odierno. “… preferirei costruire impugnature per armoniche piuttosto che discutere di antropologia azteca/letteratura inglese o storia delle nazioni unite.
Io accetto il caos, non sono sicuro che il caos accetti me, so che c’è gente che ha il terrore di una bomba ma ci sono altri che hanno il terrore di essere visti con una rivista di cinema moderno in mano, l’esperienza insegna che il silenzio terrorizza gli uomini più di ogni altra cosa.. sono convinto che tutte le anime devono rendere conto a qualcosa di superiore, di fronte a questo, responsabilità, sicurezza, successo non significano assolutamente nulla… i grandi libri sono stati scritti, i grandi detti sono stati pronunciati, voglio solo mostrarvi un’immagine di quello che succede qui qualche volta, anche se io non capisco bene che cosa stia succedendo, so che moriremo tutti un giorno e che nessuna morte ha mai fermato il mondo. Le mie poesie sono scritte in un ritmo di distorsione non poetica, divise da orecchie forate, finte ciglia, sottratte da gente che costantemente si torura a vicenda…una canzone è qualcosa che può camminare da sola, io scrivo canzoni, una poesia è un uomo nudo…qualcuno dice che io sono un poeta” B.Dylan
Magari fra 50 anni, quando la morte avrà finalmente modellato l’ennesimo Mito e dimenticato l’Uomo con le sue tristi e antipatiche debolezze, si potra parlare serenamente di questo personaggio disturbato, che scrive testi considerati degni di un Nobel.