di Francesco Rocchi
L’articolo di Claudio Giunta sulla sua esperienza come autore di un manuale di storia della letteratura, uscito su Internazionale, mi è parso largamente condivisibile, a tratti addirittura entusiasmante, ma leggendolo ho subito sentito il bisogno di rispondergli. La mia idea non è certo di controbattere ai suoi argomenti, assai validi, ma soltanto di offrirgli quello che a scuola abbiamo ormai imparato a chiamare feedback, ovvero un riscontro o, più semplicemente, un’altra prospettiva.
Molti dei mali nella didattica dell’italiano che egli denuncia sono assolutamente reali, ma io, da insegnante, vorrei provare ad offrirgli una spiegazione (la mia, per quel che vale) di come si sia arrivati a certi esiti inutili e grotteschi, quali la divisione in sequenze o altri famigerati esercizi che nel suo manuale, e lo dico con sollievo, per fortuna non ci sono.
Oltre a questo, vorrei anche provare a salvare qualcosa di quell’approccio storicistico e da “retore professionale” che nei nostri testi regna sovrano. Per capirsi, si tratta di quel metodo che trasforma la lettura di un testo letterario, soprattutto di poesia, in un’ostinata e minuziosa battuta di caccia alle figure retoriche. Quando se ne trovano tante l’analisi è buona, quando non se ne trovano (magari perché non ce ne sono), si va in crisi. Si capirà che non è un approccio che mi piaccia particolarmente, anzi, ma per come sono finito ad impostare le mie lezioni di italiano (più avanti spiegherò qualcosa al riguardo), mi sono accorto che qualcosa di quel modo di fare, che speravo di aver gettato fuori dalla finestra, mi era alla fin fine tornato comodo, nel corso delle mie lezioni.
Quel che Giunta denuncia è un’involuzione quasi “tecnicistica” del linguaggio dei manuali di letteratura italiana. Un gergo oscuro, lo scuolese, si è impadronito degli apparati di commento, che a loro volta si presentano come un dissezionamento minuto e rigoroso di ogni possibile scampolo di letteratura. Considerando l’ostilità degli umanisti italiani verso la “cultura ridotta a mera tecnica” è un esito piuttosto paradossale, ma tant’è: i manuali italiani, non solo di letteratura, sono scritti così. E presentano attività, esercitazioni, schemi e periodizzazioni elaborati con la stessa forma mentis. Come mai?
Si potrebbero trovare numerose spiegazioni accademiche e storico-culturali, ma non è su queste che vorrei concentrarmi, per quanto sarebbe anch’esso un discorso assai interessante. Il punto è, come spesso si dice, un altro. La prendo alla lontana, in una maniera che potrebbe sembrare vaga, ma non lo è affatto.
Il gusto per la lettura e per la letteratura è qualcosa di intimo e sottile, di personale e, forse, misterioso. Tacere dopo aver letto una poesia di Emily Dickinson è una cosa intelligente da fare, ed è umano rimanere interdetti dopo una poesia di Dylan Thomas o di Vladimir Holan. Va benissimo se certi testi oscuri non vengono digeriti subito. Per capire Battiato o De Gregori io ci ho messo anni, fino a quando non mi si è accesa una lampadina in testa o qualcuno non mi ha chiarito certi riferimenti culturali senza i quali immagini e metafore rimanevano arcane. Insomma, leggere è un piacere lento, solitario, raccolto, silenzioso, che non si presta facilmente ad una fluente verbalizzazione. Il problema – il paradosso – è che la scuola non è nulla di tutto questo: non è lenta e di certo non è solitaria o raccolta, e men che meno silenziosa.
A scuola i tempi sono contingentati, i voti messi sulla base di quello che gli studenti dicono o scrivono, l’acquisizione di idee e concetti costantemente verificata e controllata, in modo tale che si possano evidenziare tutti gli eventuali problemi ed intervenire di conseguenza. È anche giusto che sia così: in tutto quel che facciamo è necessario procedere a ragion veduta. Dobbiamo accertarci che l’apprendimento sia avvenuto e che sia duraturo, e che sia “completato” entro la fine dell’anno, e non con un ragazzo alla volta, ma con blocchi eterogenei di venti o trenta ragazzi, cui è imposto di andare tutti allo stesso ritmo.
Tutto quello che noi offriamo ai ragazzi ci deve in qualche modo tornare ordinatamente indietro, possibilmente rielaborato in maniera personale e creativa. Il non-detto e l’alluso non ci appartengono. E non è una deriva degli ultimi anni: a conti fatti è sempre stato così.
Si vede bene che gli insegnanti (di italiano, ma non solo) hanno una missione difficile. Se a questo si aggiunge che per molti nostri studenti lo studio della letteratura è ben lontano dall’essere una priorità, si capisce bene che il compito di far leggere gli studenti è ben improbo, perché senza un piacere per la lettura già posseduto dagli studenti (che se pure amano leggere, difficilmente amano farlo in italiano antico), bisogna trovare dei surrogati che inducano un adolescente a tenere il naso sul libro. Vi è mai capitato di dar da mangiare ad un gatto che per quanto affamato non si accorgeva affatto del cibo succulento che pure gli mettevate dritto dritto davanti al musetto? Guarda intorno, si agita, vi lecca le dita ma il cibo proprio non lo vede. È curioso, ma qualche volta un insegnante prova la stessa identica sensazione. Mettere un testo di italiano davanti ad uno studente non è sufficiente: bisogna far sì che il ragazzo ci entri dentro senza recalcitrare, senza distrarsi. Detto in scuolese, “il materiale va didattizzato”. Con le buone o con le cattive, verrebbe qualche volta da aggiungere!
In questa prospettiva si comincia a capire il perché di certi stolidi esercizi. Dividere in sequenze un brano non è un esercizio che abbia un senso in sé. Può anche darsi che qualcuno creda davvero nella divisione in sequenza, ma io non penso. È solo un modo per costringere uno studente a leggere e, forse, a capire. Ed è anche un trucco per portare uno studente a verbalizzare i propri pensieri, attraverso l’escamotage di chiedergli perché la divisione sia stata operata in un certo modo piuttosto che in un altro, o quale informazione lo abbia tanto colpito da indurlo ad isolare quel particolare passaggio dal resto.
Il risultato di questo lavoro è qualcosa di rassicurante. Un prodotto tangibile, una cosa fatta, reale e concreta. Lo si può saggiare, pesare e, non meno importante, mostrare ad altri. Anche senza voler pensare malignamente che questo sia il trucco di chi è impreparato ma deve fare didattica comunque, in qualche modo, non è strano che nella testa degli insegnanti, anche quelli più bravi e meglio intenzionati, quel che doveva essere un escamotage come un altro finisca per diventare, senza che ce se ne accorga, il pezzo forte della didattica, nonché il suo fine. È come quando ci si accanisce in una discussione ed inavvertitamente si finisce per andare a parare molto lontano da dove si era cominciato, o rispetto a dove si voleva andare.
Lo stesso si può dire di tanti altri esercizi che, focalizzando sull’aspetto antiquario o erudito, rendono facile all’insegnante valutare se lo studente ha studiato oppure no; altrettanto delle rapide e anodine definizioni che categorizzano la nostra letteratura (“Leopardi pessimista”, “D’Annunzio esteta e superomistico”, “Manzoni romantico”, ecc.).
Se a questo si aggiunge una forte spinta alla standardizzazione da parte degli uffici ministeriali, delle Indicazioni Nazionali/Linee Guida e degli editori che non vogliono mandar invenduto il loro sforzo editoriale, si capisce bene come mai la scuola si riempia e si incrosti tanto facilmente di abitudini che poi, alla fine, nessuno ama particolarmente. E che per lo studente sono comunque dannose: il risultato medio di questo approccio è quella indistinta infarinatura che purtroppo molti, studenti e non solo, scambiano per “cultura”.
Non credo tuttavia che la situazione sia del tutto disperata. Qualcosa si può fare e si fa. Bisogna però muoversi in più direzioni. In primo luogo bisogna guardare anche fuori della scuola. Quella lenta ma fertile sedimentazione del gusto per la lettura (o per la cultura in senso lato) ha bisogno di essere coltivata al di fuori della scuola, da altre agenzie culturali, nelle famiglie e nella vita sociale dei ragazzi: nei cinema, nelle librerie, nelle biblioteche, nelle fumetterie, nei teatri, nei laboratori creativi e in generale nei luoghi in cui trascorre la vita degli studenti. Non è un caso che in tutte le rilevazioni nazionali ed internazionali ci sia una fortissima correlazione tra livello culturale e risultati scolastici: quelli che, grazie al reddito dei genitori, possono viaggiare, vedere, manipolare e frequentare alla fine imparano molto di più, e i risultati si vedono anche a scuola. Ovviamente sarebbe un bel risultato portare anche la scuola, al di là delle lezioni frontali, all’interno di questo circuito. Qualcosa si muove, e sparsi risultati se ne vedono già da tempo, ma tanto resta ancora da fare.
In secondo luogo, bisogna continuare a fare quel che gli insegnanti generalmente non hanno smesso di fare: tornare sulla propria didattica e tentare di migliorarla il più possibile, all’interno delle condizioni date.
È per questo che ho cominciato ad adattarmi all’approccio storicistico. Troppo vigliacco per cominciare una crociata solitaria e fare qualche cosa di radicalmente diverso, con studenti che probabilmente non mi avrebbero seguito (gli studenti sono in media terribilmente conservatori), ho provato a ritagliarmi una strada mia, della quale mi confesso per ora soddisfatto, anche se in qualche modo credo si esponga ad alcune delle critiche di Claudio Giunta. Mi riferisco in particolare al passaggio in cui Giunta cita, come esempio di commento sbalestrato, la frase di uno studente su come “Dante faccia ampio uso di rime difficili e allitterazioni per conseguire un dettato aulico”.
Nel leggere questo esempio sono rimasto interdetto. Stavo seguendo perfettamente il suo ragionamento e mi ci ritrovavo pienamente (in particolare contro il curioso tropismo per le figure retoriche dei nostri libri), però mi sono sorpreso a pensare che in alcune prove dei miei studenti avrei accolto favorevolmente affermazioni del genere. Non è che non veda l’ingenuità della frase, vivaddio, o il goffo tentativo di leggere alcune presunte caratteristiche formali come un meccanismo semplice ed automatico capace di produrre circostanziati e documentabili effetti letterari. Quel che mi interessa di questa frase è che in qualche modo lo studente sta ragionando sul registro di ciò che sta leggendo, e io questo lo trovo importante. Ed è una cosa su cui lavoro in continuazione nelle mie lezioni di letteratura.
Mi spiego meglio, riprendendo in sintesi ciò di cui avevo già parlato qui, sempre su Le parole e le cose. I manuali seguono un approccio largamente prosopografico, con contestualizzazione e studio concreto della lingua relativamente ristretti (non per caso in tali libri abbondano le parafrasi preconfezionate, nella consapevolezza che uno studente non può leggere che in traduzione la prosa aulica di cinquecento o ottocento anni fa); io preferisco ragionare per grandi quadri e panoramiche, con grande attenzione alla lingua, con estese letture prive di parafrasi e, soprattutto, con un continuo ricorso all’analisi comparativa o contrastiva. All’interno di queste panoramiche i grandi autori trovano il loro posto, ma la loro fisionomia assume proporzioni meno gigantesche.
Per fare un esempio: anche nelle mie classi leggiamo qualcosa della Autobiografia di Alfieri, ma per coglierne la letterarietà non abbiamo letto dotte pagine di critica. Ho preferito affiancare ad un brano dell’opera il diario di uno suo famiglio, il “servo Elia”, che degli stessi identici avvenimenti narrati da Alfieri scriveva con piglio, cultura e padronanza linguistica ben diversi. Ho tentato dunque di far emergere per contrasto la letterarietà di Alfieri. Ma questo mi ha portato anche a ragionare su stile ipotattico oppure paratattico, di ritmo e respiro della frase, di elementi grammaticali e retorici, presenti da una parte e assenti dall’altra. Anche la punteggiatura ci ha interessato. Tutto questo, con letture guidate ed esercizi talora un po’ tediosi, ci ha portato a riflettere sul senso e sul significato della letteratura nel Settecento, e a fare qualche considerazione sociolinguistica sulla corrispondenza che nella letteratura classica esiste tra registro, argomento e destinatari.
Faccio un altro esempio: in una mia classe abbiamo affrontato testi di prosa barocca (Bartoli e Ségneri) accanto a predicatori riformati come Ochino, affiancando ad essi anche alcuni escerti delle dichiarazioni rese all’Inquisizione dall’eretico Domenico Scandella, il famoso Menocchio studiato da Ginzburg ne Il formaggio i vermi. Da una parte dunque grande prosa d’arte e predicazione contro-riformistica “sensazionale”, dall’altra il pacato dettato in un sacerdote riformato e il parlato di un semi-colto ascoltato nel momento più brutto della sua vita. Alcune differenze saltavano agli occhi, ed era proprio quello che cercavo. Che gli studenti percepissero anche loro tali differenze lo sapevo per certo, visto che avevo presentato in classe alcuni brani anonimi, e loro erano stati in grado di appaiare personaggi e scritti senza difficoltà. La gonfiezza retorica di un Ségneri (in realtà poi nemmen così esagerata) l’abbiamo dovuta descrivere in maniera talvolta tediosa, ma se questo poi ci ha permesso di apprezzare meglio la prosa scientifica di Galilei che abbiamo letto subito dopo, io sono soddisfatto.
Ancora: una lettura che per me è diventata ormai canonica è l’epistola che fa da presentazione alla Raccolta Aragonese del 1477: metafore, similitudini, magniloquenza e raffinatezza retoriche esibite ed insistite. La differenza con testi meno ambiziosi (quali si possono trovare nell’epistolario privato di Datini, o nelle opere dei Mercanti scrittori raccolte da Vittore Branca) è evidente, non fosse altro perché i testi dei mercanti molto spesso si capiscono, mentre la prosa di Lorenzo/Poliziano, semplicemente, no (e anche questo è un punto di partenza). Nel leggere Lorenzo/Poliziano anche io ho fatto notare ai miei studenti le inversioni latineggianti, le dichiarative infinitive, le accumulazioni anaforiche che danno al testo la sua solennità declamatoria. E ho spiegato ai miei studenti che tutto questo non è per caso, ma perché Lorenzo il Magnifico stava portando avanti un’ambiziosa politica culturale che gli garantisse rispetto e prestigio.
Anche io subisso i miei studenti di esercizi, nell’ansia di ottenere che il loro apprendimento sia quanto più vasto e approfondito possibile. E talvolta anche io mi rendo conto che le mie esercitazioni altro non sono che uno stratagemma per scansare quegli imbarazzati silenzi che si determinano quando i testi in lettura si rivelano troppo difficili, o sfumati, o criptici.
È per questo che giudico positivamente nei miei studenti anche frasi che non si discostano poi molto da quella citata da Giunta su Dante. Cito qui di seguito l’analisi condotta da uno studente su un brano de Dei delitti e delle pene di Beccaria, in un compito in classe svolto in una quarta di un liceo delle scienze umane. Il brano è stato analizzato dagli studenti in un compito in classe senza aver mai letto prima qualcosa di Beccaria (di cui pure conoscevano biografia e idee). La particolarità del lavoro stava nel fatto che il brano era presentato in due versioni: nella redazione di Beccaria e nella revisione fattane da Verri. Ai ragazzi è stato chiesto di sottolineare le differenze. Nello svolgimento che riporto subito sotto vi sono notevoli ingenuità e imprecisioni, ma io credo che chi ha scritto quell’analisi abbia cominciato ad aguzzare la vista, a guardare ad un testo letterario con occhio un po’ diverso e a fare tesoro di alcune nozioni apprese nel corso dell’unità didattica. Ecco:
“In questa pagina del Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria e nella rivisitazione della stessa a cura di Pietro Verri possiamo notare alcune differenze nella struttura sintattica, ma anche nella struttura stessa del testo che, qui diviso in piccolo paragrafi, Verri ha voluto rendere più lineare e comprensibile. In entrambi i testi il periodare è ampio e ricco di virgole, tuttavia Verri ha talvolta cambiato posizione a quest’ultime con l’intento di rendere la lettura più leggera e cristallina. Lo stesso autore ha disposto in maniera differente anche le parole, rendendo così l’insieme più vicino all’italiano moderno. Nella prima versione il linguaggio è più letterario ed appare più antiquato, seppure entrambi gli autori siano di inizio Settecento [sic], ma in entrambe le versioni non si riscontrano influssi dialettali e mantengono un tono neutro privo di opinioni. Infine, sia Beccaria che Verri fanno buon uso della sintassi, seppur sia chiaro che quest’ultimo autore abbia voluto renderla più semplice e scorrevole ai più.”
È questo un approccio più storico che letterario, forse, ma ritengo abbia un vantaggio. Non pretende di cavare a tutti costi dagli studenti profonde e pensose riflessioni (che sono benaccette, se arrivano, beninteso), né ci si perde in astrazioni troppo remote, né li si costringe ad amare qualcosa che spontaneamente non leggerebbero. Però permette loro, in qualche misura, di immergersi nella forma mentis culturale di altre epoche e di altre società. E offre loro competenze linguistiche non banali, sia in termini di lessico sia di linguistica in senso più generale: le lingue cambiano nel tempo e per opera di chi le usa, sia colto che ignorante, e con delle modalità che spesso sono anche riconoscibili, analizzabili e non prive di significato. Se poi si ritiene che invece il risultato presentato qui sia troppo povero o che si potrebbe ottenere di più in altri modi, sono apertissimo a suggerimenti. Cerco e sperimento nuovi modi di “sbloccare” gli studenti ogni giorno, e ogni aiuto è benvenuto.
Certo, forse questo mio approccio toglie spazio al lirismo e all’elevazione dello spirito, ma libera i ragazzi dalla sensazione fastidiosa di dover necessariamente amare quel che viene loro sottoposto, o di sentirlo a tutti i costi attuale e vicino ai moti del loro cuore. E toglie a noi docenti la necessità di far ricorso al tipico trucco scolastico della pesante elencazione di figure retoriche e notizie erudite, che spesso è anche un modo di riempire quei silenzi che altrimenti aleggerebbero nell’aula quando si leggono cose importanti ma difficili, e che richiedono forse più esperienza di quella che degli studenti adolescenti possono avere.
Spero con questo di aver spiegato perché mi trovo a voler dare compiutamente ragione a Claudio Giunta e alle sue considerazioni, ma allo stesso tempo a voler salvare qualcosa – solo qualcosa – di quello studio a volte un po’ pedante, ma non del tutto da buttare.
[Immagine: James Koehnline, Literature]
Oggi più che mai un approccio storicistico mi sembra indispensabile, proprio perché manca negli studenti qualsiasi capacità di orientarsi nel tempo. La stessa cosa viene ripetuta negli esami universitari, almeno al primo anno; molti professori universitari con cui collaboro sottolineano i limiti fortissimi dell impostazione monografica, esclusiva delle università all’estero, per cui lo studente conosce benissimo uno o due autori, che sembrano sospesi nel vuoto.
Rocchi ha ragione per quanto riguarda la scuola: è un problema di tempo, di tagli, a volte di incapacità dei docenti( è più comodo impostare una didattica sulle sequenze che sui percorsi che lui suggerisce, che richiedono competenza, sensibilità e finezza superiori alla media dei docenti).
E’ un problema di misurazione, di valutazioni che siano “oggettive e calibrate”: i commenti “liberi” non sono oggettivamente valutabili nè sopratutto “confrontabili tra loro”, cosa che ragazzi e genitori fanno continuamente. Più facile confrontare compiti in cui si chieda l’individuazione di figure retoriche o la divisione in sequenze: rientrano nelle griglie di correzione, ovunque imposte, a cui il libero commento non si piega. E il bravo docente-quello che si pone domande- si trova tra due fuochi, tra quello che vorrebbe fare e quello che deve fare per essere un “buon docente” per il mondo della scuola (una valutazione oggettiva e misurabile -come si fa per le materie umanistiche?- lo stare in linea con i programmi, il preparare gli allievi per un Esame di Stato standard). Non mi vergogno a dire che imposto il programma di quinta in maniera totalmente differente quando sono commissario interno (finalmente libero di leggere quello che voglio) o esterno.
E poi, se in un liceo si prepara all’Università, come dimenticare quei pochi, seppur pochi, che magari andranno a fare lettere all’Università?
Un minimo di parafrasi e commento vanno insegnati, sono i prerequisiti di qualsiasi test di ingresso alle facoltà letterarie. Oltre a insegnare alle superiori tengo corsi per gli studenti del primo anno in università, sono corsi obbligatori, legati a punteggi insufficienti nel test di ingresso, in cui dovrei trasmettere i fondamenti per affrontare gli esami universitari, e in particolare lo scritto del primo anno: parafrasi,commento,analisi stilistica e retorica. Qual è l’atteggiamento di questi studenti? Astio nei confronti dei loro ex-professori di liceo, che non li hanno preparati abbastanza, che li hanno costretti a seguire -ora all’università- altri corsi aggiuntivi e obbligatori, che vanno a gravare sul loro impegno: e vi assicuro che non sono solo studenti degli istituti tecnici o professionali: l’80 % viene dai licei.
Inutile anche dire che la proposta di Giunta non piace ai professori universitari, che generalmente consigliano altri manuali: si tratta allora di tutto un sistema da cambiare, oltre le aule di liceo.
Molto interessante, Rocchi.
Dunque unisciti a noi Buoni contro il Piano di aggiornamento con le sue 9 aree dove lo spazio per la riflessione e l’azione didattica che stai tentando tu non c’è proprio e ci sono le post-materie (le materie e le discipline non sono solo partizioni burocratiche del sapere, in effetti: magari lo sono la Filologia romanza e la Linguistica, in qualche modo, molto meno la Filosofia e la Chimica).
Solo un’osservazione: il tuo lavoro sulla percezione diretta della “letterarietà” (per dirla con gli strutturalisti che stanno antipatici a noi tutti) o il tuo lavoro “più storico che letterario”, è un bell’approccio, produttivo in molti sensi.
Io direi però che parlare del “senso” dei testi e del “senso per noi” dei testi (per dirla con Luperini) non è costeggiare l’ineffabilità dei moti del cuore.
Vuoi o non vuoi, la letteratura di quello parla, di qualcosa di ineffabile. Ci sono, io credo, approcci – diciamo rozzamente – più orientati al contenuto che alla forma (uh, che brutta distinzione, perdonatemi) che riescono comunque ad essere effabili e, se ci si impegna, persino effati. Bisogna naturalmente correre il rischio, almeno di primo acchito, di buttarla in attualizzazione.
Sono in parte d’accordo e in parte in disaccordo con Francesco Rocchi. In effetti la critica di Claudio Giunta contro la lettura dei testi letterari come una “caccia alle figure retoriche” ha più senso leggerla come una critica all’assolutizzazione di questa pratica incentrata solo su caratteristiche formali dei testi, trascurando quelle contenutistiche, nulla di male se lo studente su aspetti formali “sta ragionando sul registro di ciò che sta leggendo”.
Io invece sono di opinione opposta rispetto a Rocchi rispetto alla questione del dare molto valore alla lingua originale del testo e alla contestualizzazione. Certo, ritengo ovvio che non si devono neanche minimizzare questi valori per evitare di far credere agli studenti strafalcioni linguistico-filologici, ad esempio che in “Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia quand’ella altrui saluta” la parola “gentile” vuol dire “di buone maniere”, “onesta” vuol dire “che non dice mai bugie”, “donna” vuol dire “umano adulto di sesso femminile” e così via. Il problema è che dovremmo ricordare sempre a quali studenti ci stiamo rivolgendo per insegnare italiano. C’è una differenza enorme tra uno saggio di letteratura italiana medievale rivolto ad altri letterati italianisti rispetto a uno rivolto a studenti universitari di letteratura italiana e uno rivolto a studenti di scuole superiori. Ritengo che solo ai primi due destinatari si possa pretendere di far acquisire non solo un’ampia conoscenza del contesto in cui è sorto quel testo letterario, ma addirittura uno “studio concreto della lingua” e “con estese letture prive di parafrasi” (soprattutto se sono testi anteriori al ‘600 – ‘700, dove le note a pie’ di pagina linguistiche già iniziano ad essere abbondanti).
Lo studio della letteratura nelle scuole superiori dovrebbe essere infatti prima di tutto apprendere forma, contenuto e valore dei testi classici, dove per il termine “classici” si intende “testi che si ritiene contengano messaggi di valore per persone di ogni luogo e tempo”. Chiaramente si comprende che mediante questa definizione la lingua originale e il contesto storico di questi classici sono certo importantissimi e necessari elementi per comprendere questi testi, che sono però soltanto da considerare come premesse e non come il reale motivo per il quale si studiano i testi classici. Il vero motivo per cui si studiano è quindi questo contenuto che supera contesti ed epoche e parla perciò anche a noi e di noi. Per questo allora ritengo abbia fatto enormi disastri l’approccio storicistico che dice che “la storia va dal prima al poi” “la storia è una sola”, “la storia è composta da eventi distinti come punti su una linea” (che questo insieme di concezioni sia del tutto privo di fondamenta scientifiche, arbitrario ed ideologico non serve neppure ricordarlo, basta prendere qualsiasi trattazione sulla “filosofia della storia” e sulla “storiografia”).
Insomma, si spera arrivi un giorno in cui in Italia si comprenda che la successione “epoca in cui è vissuto l’autore – vita dell’autore – presentazione di opere dell’autore – lettura di brani di opere dell’autore” è perlomeno discutibile e che non è per nulla così dannosa o illogica una lezione in cui si inizia parlando del tema della “nostalgia per il paese natale” e in cui si leggono fin da subito il brano del “Paradiso” in cui Cacciaguida predice l’esilio a Dante e “A Zacinto” di Foscolo e dove il contesto viene sempre tenuto presente, però messo sullo sfondo, mentre in primo piano è messo in luce un contenuto sempre attuale e di valore per noi lettori di oggi.
Grazie per la lettura del mio pezzo e per la risposta, che è meglio del mio pezzo, per molti versi, perché meno estremistica. Condivido in sostanza quasi tutto (uno è estremista solo in teoria, poi in pratica scende a mitissimi consigli: così nel mio manuale). La frase su cui ironizzavo:
“Dante fa ampio uso di rime difficili e allitterazioni per conseguire un dettato aulico”
va letta nel contesto – lo studente dice queste cose dei primi versi della Commedia, dove rime difficili non ce ne sono: volevo dare l’idea del pilota automatico che gli studenti a un certo punto inseriscono, giocandosi i due-tre clichés che hanno imparato. Ma ho scritto confusamente, di qui l’equivoco.
Concordo con Lo Vetere e mi unirei volentieri ai “buoni contro il piano di aggiornamento”….
@Bradamante
Non so se l’approccio storicistico sia indispensabile. Di certo non lo trovo inutile, ma non credo che sia l’unico. Il mio approccio, peraltro, lavora molto su grandi quadri con materiali contemporanei da comparare in senso orizzontale, piuttosto cronologico-verticale. Non avrei problemi a mettere tali quadri in sequenza rovesciata: dalla contemporaneità all’antico. Per gli studenti vorrebbe andare dal noto all’ignoto, e probabilmente per loro sarebbe molto più semplice.
L’approccio storicistico ha un problema: un’eccessiva fiducia nei rapporti causali tra epoche. I legami talora sono visibili o ragionevoli, ma non sempre così: se è vero che le ragioni della fondazione dell’Arcadia sono causalmente legate al Barocco (per antinomia), tanti altri snodi della storia della letteratura sono molto più oscuri e complessi da rilevare. Con buona pace di Hegel credo che ormai siamo tutti d’accordo che possiamo lasciar perdere certi meccanicismi facili. Tra l’altro, una poesia arcadica può essere tranquillamente letta e apprezzata (se così si vuole) senza doversi essere prima stufati della poesia marinista.
Credo che vantaggio dell’approccio storicistico stia nell’essere enciclopedico, cosa che alla scuola italiana piace molto.
Tornando alla didattica spicciola, per me l’ideale sarebbe fare tre ore di storia della letteratura e una di “cultura viva” impostata più liberamente, o anche due e due ore. Per cinque anni, senza la frattura biennio-triennio.
Se la mia impostazione richieda una particolare preparazione non lo so (intanto grazie per l’implicito complimento). Io sono arrivato alla didattica dell’italiano dopo anni di insegnamento di latino e greco, con italiano insegnato solo al biennio. Mi sono anche laureato in lettere classiche, non moderne. Quindi non mi sento particolarmente preparato. I materiali che uso e che ho citato li conosco per la semplice ragione che, per la maggior parte, li ho trovati nella storia della lingua italiana di Marazzini. E il Marazzini m’è capitato tra le mani perché cercavo un approfondimento per il concorso a cattedra. Ho preso la bibliografia di quel testo e sono andato alle fonti, in biblioteca. Nient’altro.
@Michele De Russi
La lettura di ampi brani senza parafrasi non è così assurda come parrebbe: alcuni testi sono oggettivamente difficili, tali da richiedere comunque un certo apparato; ma molti altri testi sono ben più leggibili e piacevoli. Se il lavoro di lettura viene cominciato presto, già al biennio delle superiori, non vedo difficoltà di sorta di imparare nel tempo a leggere qualcosa che è comunque scritto nella nostra lingua.
I professori di latino e greco sono convintissimi che i licei possano formare studenti capaci di apprezzare la letterarietà di testi in latino e greco, figurarsi se ciò non può avvenire per testi che sono già in italiano. E’ solo che non siamo abituati a crederci. I miei studenti sono studenti normalissimi, e mi stanno dando significative soddisfazioni, devo dire la verità, sia pure con tutti i limiti del caso.
Per molte opere, poi, basta anche una lettura anche un po’ impressionistica, nella quale non è necessario fare analisi del periodo ad ogni virgola. Faccio un altro esempio e chiedo scusa se continuo a citarmi: per far capire ai miei studenti come fosse intesa e vissuta la nobiltà nel ‘500 (premessa necessaria per capire Ariosto e Tasso), abbiamo letto qualche pagina di Giovio, “Dialogo dell’imprese”. Niente di fenomenale in sé, ma istruttivo. Mi serviva il succo della questione, e se qualche frase ci è sembrata un po’ oscura, amen. Ah, l’esistenza di tale dialogo mi è venuta da un po’ di smanettamento su Google e Wikipedia.
@Daniele Lo Vetere
Grazie anche a te. Sono anche d’accordo che nell’esporre questa mia prospettiva ho sorvolato sui contenuti, che pure di certo non trascuro.
Sull’aggiornamento invece mi sono già espresso in calce al tuo articolo, non ho cambiato idea e non credo di ritornarci nel prossimo futuro. Non condivido il tuo approccio, che più che Leopardi mi ricorda Corazzini.
@Claudio Giunta
Grazie per ‘intervento e per l’apprezzamento. In effetti non avevo ben colto il senso della tua osservazione, ma dubito che sia da imputare a tua confusione. E ovviamente nel merito hai ragione.
Anche quello dei clichés dei nostri studenti è un argomento ampio e difficile. Qui, dato che sono già stato molto prolisso, butto là giusto un’idea: non sarà che nel nostro studio tradizionale della letteratura, i nostri studenti siano poco stimolati ad uscire dalle frasi fatte? Dai nostri studenti vogliamo risposte “giuste”, piuttosto che interessanti.
Grazie a tutti e scusate la lunghezza.
@ Rocchi. Per la verità Corazzini non mi è mai piaciuto, nemmeno in quinta liceo.
E’ che tu confondi la mia malinconia con il suo giovanile lamento, perché così la liquidi meglio.
Vecchia storia…
(DLV)
liceo scientifico, lettere moderne, tesi in letteratura contemporanea, insegno in un istituto tecnico. Preambolo (storicistico?) per contestualizzare il mio intervento. mi sono formata sul Contini, su Segre Martignoni, eppure sempre piu’ mi scopro a riservare all’ultimo anno un’analisi formale approfondita, un po’ perche’ gli studenti hanno alle spalle due anni di studio, un po’ perche la distanza linguistica si attenua; mi rendo conto di privarli della sensibilita’ alla forma, allo stile, della consapevolezza della lingua, ma e’ anche vero che i miei studenti non fanno latino e greco, non hanno mai tradotto e, spesso, li prendo in terza, senza che nel biennio abbiano lavorato sulla lingua (non parlo di grammatica ma della comprensione della natura creativa del linguaggio, anche ludica, persino espressionistica). Mi sono trovata a dover scegliere, a chiedermi che cosa servisse piu’ loro, i temi, le riflessioni, gli strumenti concettuali o la consapevolezza diacronica e sicronica della lingua? cosi’ ho incontrato Luperini, e ho abbracciato la sua linea e la sua letteratura, che non trascura la forma ma ridimensiona i “tecnicismi” rispetto alla mia formazione pavese. Ma i dubbi sui tagli, gli approfondimenti, la preferenza ad una lettura tematica piuttosto che storicistica, affiorano spesso e i vostri interventi li sollecitano. (chiedo scusa per l’apostrofo al posto dell’accento ma non riesco ad inserire le vocali accentate)
La letteratura non andrebbe studiata a scuola, veicolata dalle parole di uomini e donne sopravvissuti a vanagloria, passione, necessità. Mai dalla bocca vivo suono vibrante e contaminato.
Ogni poesia, ogni racconto, romanzo, altra forma di parola andrebbe letta con riservatezza, desiderata, scelta, cercata. Tra le mura di casa, a letto, sul divano, nella sdraio, alcun altra presenza che il lettore e il libro, una finestra. Fuori casa in una panchina appartata, un albero, un fiore essiccato, l’erba, l’ombra. Non a scuola, non a teatro, non letture pubbliche. Ascolto da morto a vivo, un raggio di sole, ché il vivo al vivo maleodora.