di Tommaso Giartosio

[Questa è la terza puntata del mio prossimo libro, in uscita il 12 gennaio 2012 per Laterza nella collana “Contromano”. La prima è stata pubblicata qui, e la seconda qui. Con queste pagine finisce il preludio e inizia il viaggio vero e proprio, a piedi, lungo l’O di Roma – che preferisco lasciare a chi vorrà leggerlo su carta. Quindi interrompo qui l’anteprima. Anche per pubblicare su Le parole e le cose miei testi d’altro tipo.]

 Procurarsi un talismano

 Per esempio: mi trovo davanti un portone, suono, poniamo che mi aprano. Sarà solo l’inizio. Nella più semplice palazzina la mia O passerà per almeno tre o quattro appartamenti, frammentati, incastrati, mille volte rifatti; senza una piantina catastale di ogni immobile sarà impossibile seguirla da una stanza all’altra. Ogni volta che fallisco al piano terra dovrò riprovare con l’omologo del primo piano, e se necessario anche con quello del secondo, e così via. Per superare un grande condominio ci metterò mezza giornata. Per l’intero viaggio, mesi o anni.

Il Vasco da Gama della mia città. Vasco de Roma.

L’alternativa è chiara: o rinunciare, oppure darsi delle regole.

Decido che la prima regola sarà: devi almeno provarci. Suonare a quei campanelli, bussare a quelle porte, tentare di ricostruire il tracciato. Un onesto tentativo di bucare i muri. Una dignitosa scommessa sulla penetrabilità del mondo.

Stabilirò di volta in volta dopo quanti sforzi mi è lecito rassegnarmi, tornare sul portone, seguire il marciapiede torno torno fino a riprendere il filo del mio viaggio sul lato opposto dell’edificio. In fondo non mi dispiace l’idea che a questa O di Giotto si sovrapponga una rotta reale, una circonferenza piena di strappi, fiocchi, scoppiettii, sbavature – un frattale, direi, se i frattali non fossero così mortalmente assettati. Però certo che…

Ed ecco che di botto ho la mia prima reazione puramente fisica a questo viaggio: un senso di disagio acutissimo al solo pensiero di allontanarmi dall’O, una scomodità pungente, e la cosa a cui somiglia di più è il disturbo di sentire che il pacco ti è scivolato fuori dalle mutande, quando non puoi proprio rimetterlo a posto.

Mi agito sulla sedia, mi alzo di scatto. Non ho alcun dubbio che la soluzione ottimale, la più pratica e la più gradevole, sarebbe una sorta di carotaggio della città. Montare su una “talpa” di quelle usate per scavare tunnel, trafori, gallerie della metropolitana, spingere il motore al massimo dei giri (si dirà così, si farà così? naturalmente ho un’immagine molto fumettistica di un marchingegno simile) – e compiere il mio viaggio in quattro e quattr’otto in una frastornante tempesta di polvere calcinosa, spianandomi la strada attraverso palazzi e chiese, con la violenza di ogni utopia (violenza utopica però).

Ecco, devo trovare soluzioni meno distruttive ma altrettanto tangibili. Intanto una seconda regola: dove non passo io, devo cercare di far passare qualcos’altro. Qualcosa che porterò con me. Un talismano. Un amuleto. Un oggetto transizionale. Una pedina… Insomma, un “coso”.

Comincio a gironzolare per casa. Dev’essere qualcosa di piccolo, compatto, non troppo pesante, visto che dovrò lanciarlo oltre le mura aureliane e i binari della metro legato a una cordicella, e poi recuperarlo dall’altra parte. Oppure lo farò scorrere su un filo (potrebbe essere un espediente per il passaggio del Tevere?). Lo darò a chi non mi fa entrare, chiedendogli di portarlo lungo il tracciato che dovrei percorrere io e poi restituirmelo. Se per esempio non volessero farmi passare per una zona militare potrei chiedere al comandante di dare l’aggeggio a un appuntato, che se lo metta in tasca e attraversi la caserma al posto mio. (Qui la mia riluttanza a passare per matto, che avevo messo a tacere nell’intraprendere il progetto, cerca di richiamare la mia attenzione con cenni e colpi di tosse.)

A dir la verità, questo escamotage mi lascia perplesso. Se alla fine l’impresa giungerà a compimento non l’avrò compiuta io, ma il talismano. Quanto a me, sarò solo il suo supporto, il suo assistente. Il suo Sancho Panza. Solo che, avendo ideato tutta questa follia, in realtà dovrei essere Don Chisciotte! Si vede che io sono tutti e due – mentre il talismano, probabilmente, è il mulino a vento. E va bene così.

Quanto alla scelta dell’oggetto, non ho il minimo dubbio. Vado subito a prenderlo in fondo a un vecchio cassetto. È una palla. Una palletta. L’ho comprata molti anni fa nel gift shop del museo di La Brea: un luogo speciale in cui il gigantesco e il minuscolo, il passato remoto e il presente e il futuro anteriore, sembrano incontrarsi.

Nei bacini bituminosi di La Brea, in California, per trentottomila anni rimasero catturate centinaia di specie animali e vegetali. Finora sono stati ritrovati resti di mammut, tigri dai denti a sciabola, leoni, avvoltoi, tartarughe, salamandre, pulci, e una donna. Sequoie, sicomori, rovi, e noci.

Intanto i pozzi sono stati a loro volta inghiottiti – da una metropoli: Los Angeles. Lungo Wilshire Boulevard, un viale di grattacieli, tra le fasce d’ombra si apre all’improvviso questo piccolo parco luminoso e ventoso. Ogni filo d’erba è una fiammella verde lungo le vaste fosse di bitume gorgoglianti. Qualche moscerino ci rimane ancora prigioniero.

Sulle rive, tra le canne, pascolano tre mammut in resina a grandezza naturale. C’è un piccolo museo dei reperti che sembra un’astronave. E un gift shop dove ho trovato questa palla-mappamondo.

I mari sono azzurri, le terre verdi.

Dimensioni tennis, ma di gommapiuma morbida. Dovrebbe essere facile stringere un cordino attorno all’equatore, e mi isolerà dalla corrente della terza rotaia.

 

Contare su un amico

 Dio, sarebbe bello compiere l’intero viaggio proprio come il bambino della mia favola – in una sola tappa, senza pause! Se necessario dormendo fuori casa, in sacco a pelo per terra proprio sul filo della mia O, una gamba da una parte, una dall’altra!

– Così avresti davvero il senso della continuità del viaggio, l’abbandonarti alla corrente, – dice Piccio.

E’ venuto a trovarmi. Mangiamo pane e formaggio e olive nere e un prosciutto che si sfalda tra le dita, beviamo succo d’arance rosse. Tra di noi c’è la carta di Roma. Sulla carta, l’O.

– Piccio, sai quanto è lunga l’O? Più o meno un metro per ogni giorno della mia vita finora. Un chilometro per ogni lettera dell’alfabeto, dalla A all’O. Più di quindici chilometri in linea d’aria. E incontrerò ben altro che l’aria. –

– Appunto. Per tutto il tempo che vai, camminare ti prenderà completamente. E’ qualcosa che cambia la tua percezione del corpo, del tempo, delle persone. Richard Long dice che… –

– Chi è Richard Long? –

– Un artista. Non lo conosci? –

– Senti, ho bisogno di spezzare ogni tanto. Per prendere qualche nota. – E per altri motivi, penso. Uno di questi motivi ha sei mesi, e va allattato; l’altro sta per compiere tre anni, e va portato ai giardinetti.

– Questo è vero – ammette Piccio. – Devi scrivere a mente fresca. –

Decidiamo che posso farcela in poche giornate di cammino, se parto subito sperando nella clemenza della primavera. Prima di ogni giornata dovrò documentarmi sugli spazi da attraversare. Magari cercherò autorizzazioni e appoggi per non restare bloccato. Ma eviterò di fare sopralluoghi: non devo bruciarmi la sorpresa.[1]

Quando cominciamo a studiare il percorso, Piccio si anima ancora di più. – Qui c’è un seminario, conosco un prete che può farti passare… All’università invece ti faccio scavalcare io… Qui passi per il liceo Mamiani… Questa è la residenza dell’ambasciatore russo, lo sai, no? Sarà un problema… – Cazzo, sì, sarà un problema! Già mi vedo inseguito da quattro Daniel Craig in giubbotto di pelle nera.

Per il passaggio del Tevere, gli spiego che potrei far viaggiare al mio posto la palla. – Allora devi trovare un arciere. O almeno un canottiere. Aspetta, forse ne conosco uno… –

Abbiamo continuato così per un po’. Non c’è niente di più dilettevole che immaginare queste situazioni senza ancora muovere un dito per affrontarle concretamente. Il giro del mondo in ottanta giorni è molto più divertente del giro del mondo in ottanta giorni. Ma è solo divertente, e ti lascia dove l’hai iniziato. L’immaginazione pura non avrebbe ragion d’essere senza l’immaginazione pratica, il viaggio.

– Pensiamo alle mappe, – prosegue Piccio. Gli dico della S.A.R.A. Nistri. – Hai fatto bene, inutile buttare soldi. Puoi usare Google Earth. –

– Sì. Buona idea. –

– Le foto aeree hanno un buon dettaglio, le ingrandisci come ti pare. Quando invece ti occorre una topografica usi le mappe di Tuttocittà. Le trovi in rete. –

– Ne ho già stampate un po’. –

– Bene…

Mi guarda.

– …allora io sono con te. –

Forse si rende conto anche lui che questa investitura è un po’ troppo solenne, perché continua: – Cioè, il viaggio te lo fai tu con le tue scarpe. Io ti aiuto, per quello che posso. –

E’ comunque un bel sollievo. Deve aver capito perché faccio tutto questo.La cosa mi rassicura, visto che io ci capisco sempre meno.

Non so, per esempio, che logica abbia la regola numero tre (assurda e puerile come le altre due), che ora gli illustro con fermezza: ogni volta che mi allontano dalla mia linea, devo lasciare traccia della posizione raggiunta. Esempio: arrivo al muro di un palazzo, traccio per terra con il gesso un segno – una sorta di segnaposto o segnalibro – nel punto oltre cui non posso procedere, poi vado a cercare di riprendere il filo del mio viaggio oltre il muro, affacciandomi alle finestre per ritrovare il segno e proseguire senza errori. Farò altrettanto quando dovrò fermarmi per qualsiasi altro motivo. Così saprò sempre da dove ripartire, gli spiego.

– E poi è bello scrivere per terra con i gessetti, – fa lui, smascherandomi. – Comunque, non stare troppo attaccato alla mappa. –

– Ma non eri tu che durante il Giro di Roma ti lasciavi dietro una traccia di farina? –

Sorride. – Appunto. Era un modo per segnarmi la strada. La mappa la facevo io. –

– Anch’io me la sono fatta da solo, la mia O. –

E’ bella questa condivisione di sensatissima follia, come due poeti surrealisti che discutono se sui binari del tram sia meglio far scorrere ermellini o anaconda.

– Anzi, ho bisogno di trovare un modo per tracciarla con la massima precisione possibile.-

Piccio, che è davvero entrato nello spirito, mi esorta a incollare l’uno all’altro tutti e ottantatré i fogli del Tuttocittà (“oppure solo quelli che ti servono, saranno una quarantina”), stendere questo vestito da arlecchino per terra, poi piantare una puntina al centro (“lì, nel parquet”) e tracciare il cerchio con una matita legata a uno spago. E’ uno scherzo generazionale, da architetto cresciuto prima del plotter e del computer.

– Dai, sul serio. –

– Allora conosco una persona che forse può aiutarti. Si chiama Azzurra. Per ora è occupata, ma tra una decina di giorni…

E così mi lascia di nuovo appeso a una donna del mistero.

– Tu però intanto vai. Non caricare troppo la partenza. Esci di casa, metti un piede davanti all’altro. –

– Hmm. Non sono ancora pronto. Sai dove posso comprare un odometro? –

– Vuoi dire un contapassi? –

Visitare la Libreria del viaggiatore

 Un ultimo indugio prima di partire. Vado alla “Libreria del viaggiatore”, in via del Pellegrino, ci sono libri che raccontano tutti i paesi del mondo. (Solo del mondo? Chissà se hanno la Commedia?) Il libraio lo conosco da sempre, ma non so come si chiama. Gentilissimo, occhi grigi da viaggiatore.

Ha qualcosa sul viaggiare a caso, seguendo un cerchio disegnato sulla carta?

Non pensa neanche per un attimo che io lo stia prendendo in giro. Mi parla di una pratica chiamata experimental travel. Ma al momento non ha libri sul tema. Tranne uno, che lo tocca solo di sfuggita. Me lo dà, lo intasco senza guardarlo.

A casa cerco con Google experimental travel. Be’, c’è da spaventarsi. A quanto pare esiste un laboratoire de tourisme expérimental. Esiste una guida dedicata, nella celebre collana Lonely Planet. Esistono decine di variazioni bizzarre, dal “filo di Arianna” (trovare sull’elenco telefonico una donna di nome Arianna, e visitare in sequenza tutti i luoghi che lei suggerisce) alla “spedizione sul K2” (esplorare il quadrante K2 della mappa cittadina). Al confronto, il mio arrampicarmi lungo una semplice circonferenza sembra di una banalità sconcertante.

In realtà ho l’impressione che il mio progetto non abbia nulla a che fare con il turismo sperimentale – che non abbia nulla di sperimentale. Passo a vedere il libro.

Sorpresa.

L’ha scritto Piccio.

Si chiama: Walkscapes, che posso tradurre: i paesaggi del camminare. Sottotitolo: Camminare come pratica estetica.

Ci sarà qualcosa su Richard Long?

 “In Long…il camminare è un’azione che si incide sul luogo. È un atto che disegna una figura sul terreno e che quindi può essere riportato sulla rappresentazione cartografica. Ma il procedimento può essere utilizzato all’inverso, la carta può funzionare da supporto su cui disegnare figure da percorrere successivamente: una volta disegnato sulla mappa un cerchio lo si può percorrere al suo interno, lungo i bordi, all’esterno… Long utilizza la cartografia come base su cui progettare i propri itinerari, e la scelta del territorio su cui camminare è in relazione con la figura prescelta. Il camminare, oltre ad essere un’azione è anche un segno, una forma che si può sovrapporre a quelle preesistenti contemporaneamente sulla realtà e sulla carta. Il mondo diventa allora un immenso territorio estetico, un’enorme tela su cui disegnare camminando. Un supporto che non è un foglio bianco, ma un intricato disegno di sedimenti storici e geologici su cui aggiungerne semplicemente un altro. Percorrendo le figure sovrapposte alla carta-territorio, il corpo del viandante annota gli eventi del viaggio, le sensazioni, gli ostacoli, i pericoli, il variare del terreno. Sul corpo in movimento si riflette la struttura fisica del territorio.”

 Ho cercato in rete le opere di Long. Sono sentieri, linee, rettangoli, e soprattutto cerchi, cerchi, cerchi.


[1] Per lo stesso motivo ho limitato il mio ricorso alla funzione di Google chiamata Street View: uno straordinario  montaggio di foto che permette di “camminare” lungo i centri urbani di mezzo mondo e tra l’altro, dal 2008, in quasi tutta Roma. Ho usato Street View solo occasionalmente, per verificare dopo il mio passaggio, al momento della scrittura, un numero civico o la posizione di un albero o l’altezza di un muro. Restando sempre con il dubbio che dal 2008 quel numero sia stato cambiato, o quell’albero abbattuto.

3 thoughts on “L’O di Roma /3

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