(Les Fleurs du Mal, Épaves, V)
di Umberto Fiori
A quella che è troppo gaia (À Celle qui est trop gaie)
L’aria che hai, la tua testa, il tuo gesto,
son belli come è bello un paesaggio,
il riso gioca sul tuo viso
come in un cielo chiaro un vento fresco.
Il misero passante che sfiori
resta abbagliato dalla salute
che dalle braccia, dalle tue spalle,
emana come una luce.
Lo strepito di colori
che spargi nei tuoi vestiti
proietta nella mente dei poeti
l’idea di una danza di fiori.
Sono l’emblema, queste pazze vesti,
del tuo spirito variopinto;
pazza di cui sono pazzo,
ti amo e ti detesto!
A volte, in un giardinetto
dove portavo la mia atonia,
ho avvertito, come un’ironia,
il sole squarciarmi il petto;
e primavera e verzura
mi han tanto umiliato il cuore
che ho fatto pagare a un fiore
l’insolenza della Natura.
Così vorrei, una notte,
quando l’ora dei piaceri suona,
avvicinarmi strisciando
ai tesori della tua persona
per punirti la carne piena di vita,
schiacciarti il seno, senza ira,
e nel tuo fianco stupefatto aprire
un’ampia e fonda ferita
poi, attraverso quelle labbra nuove,
più sconvolgenti e più belle,
-vertigine dolcissima!- iniettarti
il mio veleno, sorella.
*
Ta tête, ton geste, ton air
Sont beaux comme un beau paysage;
Le rire joue en ton visage
Comme un vent frais dans un ciel clair.
Le passant chagrin que tu frôles
Est ébloui par la santé
Qui jaillit comme une clarté
De tes bras et de tes épaules.
Les retentissantes couleurs
Dont tu parsèmes tes toilettes
Jettent dans l’esprit des poètes
L’image d’un ballet de fleurs.
Ces robes folles sont l’emblème
De ton esprit bariolé;
Folle dont je suis affolé,
Je te hais autant que je t’aime!
Quelquefois dans un beau jardin
Où je traînais mon atonie,
J’ai senti, comme une ironie,
Le soleil déchirer mon sein;
Et le printemps et la verdure
Ont tant humilié mon coeur,
Que j’ai puni sur une fleur
L’insolence de la Nature.
Ainsi je voudrais, une nuit,
Quand l’heure des voluptés sonne,
Vers les trésors de ta personne,
Comme un lâche, ramper sans bruit,
Pour châtier ta chair joyeuse,
Pour meurtrir ton sein pardonné,
Et faire à ton flanc étonné
Une blessure large et creuse,
Et, vertigineuse douceur !
A travers ces lèvres nouvelles,
Plus éclatantes et plus belles,
T’infuser mon venin, ma soeur !
I giudici che la condannarono per offesa alla pubblica morale non lessero in questa poesia –pubblicata più tardi insieme ad altri testi censurati- se non la compiaciuta evocazione di uno stupro morboso. Sadismo, pornografia. A distanza di un secolo e mezzo, la relativa apertura del “comune senso del pudore” dovrebbe attutire lo choc. Non è così: anche per il lettore più spregiudicato, la scena finale resta fonte di turbamento e di angoscia. C’è qualcosa, nell’atto immaginato da Baudelaire, che va oltre le peggiori crudeltà escogitate da Sade, alle quali si sarebbe portati a ricondurla. Ma prima di discutere il senso di quel memorabile finale, ripercorriamo il cammino che ad esso conduce.
*
Nell’articolazione del testo -costituito da nove quartine di ottonari rimati ABBA- possiamo identificare tre momenti: un ritratto di donna in forma di apostrofe (quartine I-IV); una (apparente) digressione che ha al centro il poeta stesso (V, VI); infine (VII-IX) il sogno ad occhi aperti coronato dall’eccentrico stupro. Le tre parti si differenziano anche nel tono: leggero, quasi frivolo, nella prima; nella seconda pensoso, accorato, cupamente meditativo; torbido, poi delirante, nell’ultima.
Lo choc che conclude la poesia è accuratamente preparato –per contrasto- da un preludio volutamente lieve, manierato, galante. Nella prima quartina, le lodi dell’amata sono sorprendentemente prevedibili: è raro che Baudelaire si lasci andare a simili clichés, soprattutto quando –come in questo caso- implicano immagini naturali; il suo canto suona qui come un ironico falsetto. Nella seconda quartina, la fuggevole apparizione del passante (passant chagrin: disgraziato passante) ébloui dal breve contatto con la donna è un sommesso annuncio di ciò che seguirà.
La bellezza di questa figura femminile ha un effetto dirompente, paralizzante, che si colloca agli antipodi di quello della stilnovistica donna-angelo. Con la loro grazia e la loro umiltà, le donne dello Stil Novo incantano chi le incontra, lo fanno ammutolire, sospirare, elevano il suo spirito; la protagonista dei versi di Baudelaire agisce sugli uomini – anche su quelli che casualmente sfiora per strada- come una improvvisa, accecante scossa erotica. A poco a poco, quella che da principio appariva come una femminilità delicata, discreta, si rivela come un clamoroso richiamo sessuale, ai limiti del buon gusto: i colori di cui la donna ama adornarsi sono retentissantes, strepitosi, vistosi, insomma eccessivi. Ritorna, in loro, il troppo del titolo. Il ballet de fleurs che quelle tinte evocano nello spirito dei poeti (si noti l’evasivo plurale) è un’immagine stucchevole, da fiera, che prelude al beau jardin della quinta strofa. L’effetto è rinforzato dalle rime –toilettes/poëtes, ma anche jettent (rima interna)- che sembrano mimare un petulante strombettio (è difficile pensare che Baudelaire, sensibilissimo ai legami rimici, non abbia avvertito in questa catena fonica –insieme a trompette– l’eco di un altro termine: bête).
La conclusione del ritratto-apostrofe, con il calco da Catullo (Je te hais autant que je t’aime!), è ancor più convenzionalmente “poetica” del suo inizio. Ma Baudelaire non teme di apparire manierato, anzi sembra compiacersene: sa che il suo odi et amo è pronto a spingersi ben più a fondo del modello classico, e di ogni convenzione letteraria.
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Nella quinta e nella sesta quartina la presentazione dell’amata lascia il posto a un breve aneddoto di cui il poeta stesso è protagonista. La scena –intenzionalmente generica- è quella di un “bel giardino” a primavera. L’idillio non tarda a rabbuiarsi: in quel locus amoenus, Baudelaire “trascina la [sua] atonia” (agonie, nel manoscritto del 1852); il sole (celebrato in un’altra fleur come sanatore di ogni male e fonte di ogni gioia) gli squarcia il petto “come un’ironia”. Il poeta reagisce strappando e calpestando un fiore.
Con la sua insensata isteria, quel gesto non manca di sconcertarci. L’effetto è voluto, naturalmente; lo sconcerto, però, non è fine a se stesso, e l’insensatezza è solo apparente. Baudelaire parla come se il lettore fosse perfettamente in grado di comprendere ciò che il poeta ha fatto, addirittura di approvarlo; se non lo giustifica ulteriormente, è perché la spiegazione è già stata fornita. La violenza sul fiore è un atto di legittima difesa, una sacrosanta punizione (“J’ai puni sur une fleur…”). Punizione di che cosa? Dell’”umiliazione” che il cuore del poeta ha subìto da parte della buona stagione e del verde in rigoglio, dell’”insolenza” della Natura. L’offesa da vendicare è la bellezza cieca, ingenua, inconsapevole, di fronte alla quale ogni bellezza cercata, meditata, prodotto dell’ingegno e della riflessione, non può che avvertire penosamente la propria inferiorità.
Il torvo risentimento che Baudelaire esibisce potrebbe suonare artificioso, astratto, tutto letterario, se non fosse radicato nel vivo di un umano sentire, di quella ambivalente passione (odi et amo) dalla quale ha preso le mosse. La Natura contro cui il poeta si scaglia l’abbiamo già incontrata nelle quartine precedenti: è la femmina “troppo gaia” che abbaglia l’uomo, lo contagia con la sua “follia”, suscita in lui la tenebra del desiderio. La similitudine che troviamo nei primi due versi (“Ta tête, ton geste, ton air/ Sont beaux comme un beau paysage”) non è da intendersi come un qualsiasi paragone: quello che Baudelaire sta dicendo non è che la donna è bella come un bel paesaggio (si osservi la studiata ridondanza dell’aggettivo), ma che è bella nel modo in cui lo è un paesaggio, che la sua bellezza è della stessa natura di un paesaggio. La donna è insolente Natura.
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Nel fascino dell’idolo celebrato da Baudelaire la carnalità ha un ruolo centrale, quasi esclusivo. A turbare il povero passante sfiorato dalla donna non è lo sguardo, non è il sorriso: è la salute che emana dal suo corpo (v.6). Il principio tradizionalmente opposto, lo spirito, fa la sua comparsa solo più avanti, ed è comunque da intendersi in senso ristretto, come sinonimo di carattere, di indole (“ton esprit bariolé”). A Celle qui est trop gaie può essere letta come un percorso lungo il corpo femminile, un trepidante trascorrere dalla testa (v.1) alle braccia e alle spalle (v.8) verso i “tesori” evocati al verso 27 (splendeurs, in una prima stesura), verso la “carne gioiosa” (v.29), fino al seno (v.30), al fianco (v.31), alle ambigue “labbra nuove” che il poeta vorrebbe aprirvi.
Quelle indimenticabili, raccapriccianti labbra sono l’apoteosi della fisicità, ma anche del suo contrario. Artificio e Natura vi si confondono. Grazie alla ferita che la fantasia del poeta gli ha inferto, il corpo femminile perde la sua spensierata, innocente, insolente salute: le labbra nuove lo hanno reso ben altrimenti éblouissant. Quello che la pensosa violenza dell’innamorato fa emergere è un corpo rigenerato, ricreato ad arte, iper-naturale; un corpo immaginato, fatto immagine, e tuttavia (o proprio per questo) più reale di prima. Lacerando il velo di salute e di gaiezza in cui si celava, la poesia ne ha rivelato la nudità più segreta. Il fianco stesso della donna è étonné dal miracolo che si produce.
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Nessuno stupro è mai stato tanto materiale e insieme tanto spirituale, casto, teneramente libidinoso. A differenza dei libertini di Sade, che dispongono freddamente delle loro vittime come di impersonali, intercambiabili strumenti di piacere, Baudelaire è innamorato –seppure ambiguamente– dell’oggetto del proprio desiderio, delle sue attrattive esteriori quanto del suo “spirito”. E’ proprio questa donna, e non un’altra, ad attrarlo. Le violenze escogitate dagli eroi sadiani violano sistematicamente l’essere umano, lo offendono e lo penetrano in mille modi; le loro fornicazioni contronatura sfruttano ogni fornice, ogni varco che la Natura ha disposto; nessuno di loro però si è mai spinto fino a inventarne uno, a crearlo, collocandolo oltretutto fuori dall’asse naturale del corpo, dalla sua armonica simmetria.
L’atto “contronatura” vagheggiato da Baudelaire –che anche in questo si differenzia dalle morbosità sadiane– non è la realizzazione di un dominio in vista di un appagamento fisico immediato. Le voluptés cui si accenna nella strofa che apre il sogno ad occhi aperti (v.26) hanno radici nell’eros, certo, ma si spingono ben oltre il soddisfacimento di un impulso sessuale, per quanto perverso. Sono voluttà mistiche, metafisiche. Le nefandezze immaginate da Sade, per quanto orrende, sono pur sempre verosimili, virtualmente riproducibili; nella scena che il poeta ha immaginato, invece, l’inverosimiglianza, la dimensione puramente allucinatoria, sono l’essenza stessa dell’atto.
Del desiderio maschile, Baudelaire ci mostra il risvolto disperato. Possedere la donna che lo suscita non sarebbe sufficiente: ogni possesso è destinato a confermare l’impenetrabilità del posseduto, l’impotenza di chi lo possiede. Il sogno (irrealizzabile, ma profondamente connaturato al desiderio, come il poeta ci rivela) è quello di violare i confini che separano i generi, di infondere nella femmina non il seme che la feconda e ne fa strumento di generazione, ma il proprio veleno (sang, nella prima stesura). Vendicarsi della Natura, che ha separato i sessi e li ha opposti l’uno all’altro, permettendo tra loro soltanto una fugace, illusoria fusione, che fa dell’attrazione un infinito tormento.
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Lo stupro sognato dal poeta delle Fleurs poco ha a che fare con il coito di cui sembra mettere in scena la macabra parodia . Più che come un amante in preda all’eccitazione, il lâche che si accosta silenziosamente al corpo bramato ha l’aria di un sinistro chirurgo, una sorta di negromante o piuttosto – come suggerisce il verbo ramper, strisciare (v.28)- un serpente velenoso. Il castigo alla carne gioiosa e i maltrattamenti al seno della donna (misticamente “perdonato”), che sembrano preludere a un atto di possesso, se non addirittura di annientamento, culminano invece in una contaminazione. Il veleno che il poeta inietta nel varco aperto sul fianco dell’amata non è poison, è venin. Non pozione letale, filtro affatturato (o infezione, come qualcuno ha voluto interpretare): umore secreto da un certo essere, suo proprio. “Mon venin”.
E’ lo spirito del poeta, lo spleen, il nero umore generato dalla sua dolorosa consapevolezza, a fare da rimedio –nel sogno- alla insopportabile salute della donna, alla sua irritante spensieratezza, alla sua insolente naturalità. Più che di una violenza, si tratta di una trasfusione, che farebbe giustizia della differenza tra gaiezza femminile e virile malinconia, affratellando amante e amata (“ma soeur”). Farebbe, appunto: Baudelaire è ben consapevole del carattere delirante, disperatamente immaginario –titanico, e in questo persino un po’ comico- della sua “vendetta”. La sua esibita impossibilità non fa che gettare nuova luce (o nuova ombra, se si vuole) sullo scacco in cui il nostro desiderio è preso.
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A conclusione di questa lettura vorrei fare qualche ulteriore osservazione sul piano della forma e della dinamica del testo, e in particolare intorno alle strategie che l’autore mette in atto per imprimere a ciascun movimento del testo un carattere, un tono e un impulso specifico all’interno del disegno ritmico complessivo. Grammatica e sintassi –come spesso in Baudelaire– risultano decisive (è l’autore stesso a suggerirci –in una pagina dei Paradisi artificiali– la loro funzione di “stregoneria evocatrice” ).
Ciascuna delle prime quattro quartine è chiusa da un punto fermo: ad ogni unità strofica corrisponde un periodo di senso compiuto; la paratassi prevale, le subordinate sono ridotte al minimo, e non vanno oltre il primo grado. Una sorta di simmetria sintattica ribadisce quella marcata dalle rime: all’interno delle singole quartine, alla prima coppia di versi e alla seconda corrispondono unità sintattiche distinte (vv.I e II, principale, III e IV coordinata; vv.I e II principale, III e IV subordinata, etc.); questo conferisce al discorso un andamento “binario”, altalenante, leggermente bamboleggiante, perfettamente in tono col personaggio e col “falsetto” della voce che lo presenta. La quinta e la sesta quartina (corrispondenti alla digressione in prima persona del poeta) introducono un’ipotassi più marcata, e sono collegate tra loro dalla congiunzione che introduce una coordinata copulativa (“Et le printemps et la verdure…”). Nelle ultime tre, il collegamento si fa ancora più stretto, e l’ipotassi prevale: un’unica principale (“je voudrais”, v.25) regge –oltre alla temporale, “Quand l’heure… sonne”- l’oggettiva di primo grado (“ramper sans bruit”) e le quattro finali di secondo grado (“Pour châtier… pour meurtrir… et faire… et… t’infuser” che chiudono il testo.
Sul piano sintattico, insomma, il testo si muove dalla paratassi dell’inizio verso l’ipotassi finale, da un susseguirsi di strofe relativamente “chiuse”, indipendenti, a un periodo che con un solo respiro ne abbraccia tre. Il contributo di questa dinamica puramente “linguistica” al senso del testo è tanto più rilevante quanto più inavvertito: è (anche) la sintassi a dare alle prime strofe il tono “frivolo” e infantile che percepiamo, è lei a variarlo, a generare un senso d’attesa, a produrre il crescendo che culmina nella scena finale. Ma anche l’atmosfera onirica, senza la quale lo stupro risulterebbe insopportabilmente crudo, ha un debito con la grammatica: nelle tre quartine conclusive, l’unico verbo di modo finito è quello della reggente, “je voudrais” (condizionale); nelle subordinate che seguono, tutte implicite, l’”angelo del movimento” (come Baudelaire chiama il verbo) resta sospeso al modo più vago, più statico, più impersonale della coniugazione: l’infinito. E’ il modo non-finito del verbo ad attenuare la mostruosità della terribile azione finale; è nella sua aura tutta virtuale, senza numero, senza soggetto, senza contorni, che essa ha il suo memorabile non-luogo.
[Immagine: Helmut Newton, David Lynch e Isabella Rossellini (gm)]
Splendida lettura quella di Fiori. Aggiungerei che, come vuole Proust, un testo letterario “è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nella vita sociale, nei nostri vizi”. L’orrendo “vizio” dello stupro qui è dunque solo espressione del modo di essere dell’inconscio che, secondo la definizione di Matte Blanco, è governato da una logica simmetrica, capace di rendere uguali e reversibili tutte le relazioni. In questa sorta di prosecuzione di A una passante, veleno e ferita, apparentemente torbidi, si rivelano “dolcissimi”, e l’atmosfera onirica autorizza slittamento e identificazione.
il poeta è colui che varca soglie pericolose con coraggio…solca il disumano dell’umano, il male celato e antico, il piacere della morte propria nell’ altrui…il poeta osa, s’insinua nel nostro nondetto-non si può. il poeta, appunto. il suo maschile universale qui è sventolato con un’ingenua luce. Che verità! Chi? Quale maschile che non sia poeta può svelare l’odio amorevole per LEI ? Eppure quotidianamente quelle donne sorelle amanti materne pagano sottilmente quel sadismo, quella capacità di genere, insaziabile. Il poeta sa denunciare cullandola la sua porno-anima, divisa e sofferente…sa cantare la prelibatezza di quell’amore mortifero. ad alta voce. Quando gli uomini sapranno cogliere l’invito di questo poeta, quando vorranno fare sentimento, in fondo, nel loro nero fango, della necessità di far male alle care preziose sorelle? la poesia è il tempo dell’occasione.Se non ora…perchè?
Bella lettura. E se il poeta urinasse sul fiore, invece di strapparlo?