di Alessandro Brizzi
Nelle analisi sulla vittoria di Donald Trump si possono individuare due diversi approcci. Il primo, per così dire «culturalista», si concentra sugli aspetti discorsivi della sua campagna elettorale, individuandone con legittima preoccupazione il sessismo, la xenofobia e il razzismo. Il secondo, più attento ai fattori socioeconomici, considera l’evoluzione demografica degli Stati Uniti, la distribuzione territoriale e generazionale del voto e, soprattutto, gli indicatori sul tasso occupazionale, il livello di istruzione e l’andamento delle disuguaglianze. Le riflessioni post-voto si devono perciò muovere da un piano all’altro, per ovvie esigenze di sintesi, saldando società e politica, bisogni e risposte. Tuttavia, molto spesso si incorre nel rischio di attribuire, in maniera deterministica, una coscienza politica fissa e «naturale» a interi gruppi sociali. Il risultato è che all’elettore medio di Trump, «maschio bianco impoverito» e sprovvisto di un titolo del college, vengono arbitrariamente attribuiti connotati, pensieri e addirittura colpe morali.
Tuttavia, per analizzare la vittoria dei repubblicani conviene partire, più che dalla scelta estrema di un fantomatico tipo antropologico, dalla sconfitta dei democratici – e non solo di Hillary Clinton, ma dei vertici del partito. La loro strategia elettorale si è infatti delineata chiaramente negli scorsi decenni, ed è apparentemente lungimirante: puntare sulla demografia. La macchina del partito, a livello nazionale e locale, doveva ricercare un’alleanza tra gruppi dal crescente peso all’interno della società statunitense, contrassegnati da una precisa identità etnica (i neri e gli ispanici), di genere (le donne) o da uno statuto di minoranza (la comunità Lgbt). La rappresentazione delle istanze di questi gruppi trovava una risposta nell’identity politics, attenta alla conciliazione delle diverse pressioni lobbistiche (nel senso originario del termine) in un programma di espansione dei diritti civili e di tutela delle minoranze. Si trattava, beninteso, di una strategia elettorale, alla quale affiancare un strategia politica malleabile ma al tempo stesso imperniata, soprattutto a partire dagli anni novanta, sulla fiducia nella globalizzazione.
La candidatura di Hillary Clinton si inseriva in questo processo senza apparenti discontinuità. È vero che il Partito democratico ha diverse anime, non sempre in accordo tra loro: si va da quella liberal alla progressive e infine alla moderate. Le primarie del 2008, per esempio, opponevano il progressista Obama alla moderata Clinton. Tuttavia, le credenziali che l’ex first lady offriva ai democratici erano più che solide: un lungo percorso di promozione dei diritti delle donne e una solida esperienza nell’amministrazione. A queste qualità però ne va aggiunta un’altra, meno spendibile sul piano mediatico ma certamente più convincente per i finanziatori del partito: la vicinanza a Wall Street, alle corporations e alle élite urbane. In incontri a porte chiuse organizzati da Goldman Sachs, la candidata democratica esaltava la libera circolazione dei capitali, scusandosi per le accuse che aveva dovuto rivolgere, «per ragioni tattiche», al mondo finanziario. All’esterno, intanto, si cuciva l’abito della perfetta democratica, grazie ai consigli degli attentissimi spin doctors: erede di Obama e amica della popolazione nera, oppositrice del movimento dei gun rights, madrina della comunità Lgbt e paladina dell’Obamacare.
Si trattava dei temi migliori e più nobili da proporre nell’ambito di una campagna elettorale classica. Il punto, però, è che il 2016 è stato un anno tutto meno che classico. Sarà invece ricordato come l’anno in cui si sono affermati i movimenti, generalmente etichettati come «populisti», cresciuti nella contestazione dell’establishment che ha gestito la crisi economica. La Brexit di giugno ha anticipato, pur con tutte le differenze del caso, alcuni degli eventi che si sono verificati nelle elezioni americane: proposta di un aut aut elettorale secco; divisione tra un blocco dominato dal centro liberista e dalla sinistra liberal e un altro egemonizzato dalla destra xenofoba e protezionista; schieramento nel primo di capi di Stato e banche d’affari (nonché di stelle del cinema e dello spettacolo!); vittoria del secondo, anche (e non solo) grazie ai voti provenienti dalle vecchie aree industriali.
Le aree industriali abbandonate dovrebbero essere l’angolo visuale privilegiato per l’analisi della vittoria di Trump come della Brexit. Questo non perché esse siano state irrimediabilmente conquistate ai populismi di destra: ben lungi dall’esprimersi compattamente, parte della vecchia classe operaia ha deciso di andare a votare e di dare una spinta a uno dei due fronti. Infatti, per il funzionamento stesso del voto referendario o del collegio elettorale statunitense, bastavano pochi voti di differenza: voti che sono giunti dalle Midlands inglesi e dal Midwest americano.
Se analizzato sotto il profilo geo-economico, il risultato nel Midwest e in Pennsylvania è estremamente significativo. Bisogna evitare di attribuire a Trump i consensi della working class e della middle class impoverita in maniera indifferenziata, ma solo perché gli indicatori degli exit poll non consentono questa operazione. È difficile infatti individuare questi gruppi nelle statistiche ordinate per reddito: se si cerca nella fascia più bassa, per esempio, vi si trova la maggior parte della popolazione nera e dunque un ampio consenso per Clinton. Eppure, considerando la distribuzione territoriale del voto e confrontandola con la diffusione dell’industria manifatturiera, in particolare tra Iowa, Wisconsin e Michigan, si vede Trump prevalere ovunque, eccetto che nelle grandi città.
Le grandi città sono attraversate da contraddizioni lancinanti ben più dell’America rurale, e sono maggiormente coinvolte da episodi di criminalità – occasionalmente da proteste e riots. Eppure in queste storicamente prevalgono i democratici. In questi luoghi dell’«economia della cultura e della conoscenza», essi godono dell’appoggio tanto delle élite urbane e della creative class, quanto delle minoranze più povere e meno tutelate. Subito al di fuori di queste, c’è un’America periferica che vive quotidianamente nella «grande paura», che si sente insieme minacciata da crogiuoli multiculturali ed esclusa dai centri del potere economico e politico. Di quest’America periferica, finora, facevano parte soprattutto le aree rurali, che infatti hanno sempre votato repubblicano; ora si aggiungono anche le zone di industrializzazione diffusa della Rust Belt.
Quest’America non si comporterebbe tutta da «campagna francese», se il suo tessuto produttivo non fosse stato distrutto dai trattati di libero scambio e dalla crisi economica. O almeno se avesse ricevuto una risposta politica alternativa: a cose fatte, molti si chiedono se Bernie Sanders avrebbe potuto fare meglio della Clinton. Forse, al di là delle ipotesi controfattuali, conviene assumere un dato: l’opzione populistica della sinistra americana è stata deliberatamente sabotata dall’establishment democratico. Grazie alle rivelazioni di Wikileaks sappiamo che lo staff elettorale di Hillary Clinton, i vertici del Democratic National Committee e un insieme di giornalisti di importanti network (tra cui l’NBC) hanno lavorato in maniera attiva per mettere fuori gioco il candidato socialdemocratico. Ma non serve immaginare particolari complotti, dato che la maggior parte del processo si è svolta alla luce del sole: tutti i grandi democratici, dagli intellettuali liberal come Paul Krugman ai giornalisti del Washington Post, hanno lodato l’«incrementalism» della Clinton, opposto al velleitarismo rivoluzionario dei sostenitori di Sanders; hanno riempito intere pagine di considerazioni sulla vacuità della sua proposta economica; l’hanno accusato di essere sessista e razzista. Chi ama richiamare la «post-factual era» a proposito di Trump, dovrebbe rileggere i numerosi articoli – assolutamente liberali – in cui Sanders, militante della prima ora del movimento per i diritti civili, veniva di fatto paragonato a Donald Trump. E la battaglia è stata ingaggiata dallo stesso fronte che poi si è scagliato su Trump, non dalla repubblicana Fox.
A destra invece il «dirottamento», ovvero l’ascesa del candidato anti-establishment, è riuscito. Forse era prevedibile, per due ordini di ragioni. La prima è che l’establishment, dal 2008 al 2016, si è identificato principalmente con il Partito democratico. È vero che i repubblicani detenevano l’amministrazione di numerosi stati e la maggioranza nelle camere, ma resta il fatto che il vertice della piramide di Washington era democratico. La seconda è che, anche grazie all’apporto del Tea Party negli ultimi anni, la destra repubblicana ha costruito una sua versione dell’identity politics, in negativo rispetto a quella democratica. Di qui la creazione culturale dell’americano «medio», che non si riconosce nello strepito dei movimenti per i diritti civili e sociali, che a «black lives matter» risponde «all lives matter», che non vede di buon occhio il ribaltamento dei ruoli di genere. Foraggiare questi modelli culturali, sfruttare e organizzare politicamente le derive xenofobe e sessiste, sdoganare del tutto il richiamo alle armi non sono idee originali di Donald Trump, bensì fanno parte di una strategia che il Partito repubblicano e i suoi organi, come Fox News, perseguono consapevolmente da anni.
Una simile strategia non era lungimirante, a differenza di quella democratica, prima che Trump comprendesse come declinarla. Innanzitutto si è fatto campione del nazionalismo, l’opzione politica per eccellenza dei leader della nuova destra, particolarmente efficace per opporsi ai centri del potere economico, lontani e invisibili. Ma la sfida non è rivolta all’Unione Europea, al Fondo monetario internazionale o a Wall Street, alla galassia policentrica degli interessi economici dominanti. Si guarda invece ai nuovi avversari – come la Cina, l’oggetto di amore e odio del trumpismo – e all’impetuosa crescita del loro potere economico e geopolitico. E di conseguenza il nazionalismo di Trump è produttivista e neomercantilista: caratteri, questi, che gli hanno consentito di intercettare chi vive in zone che hanno visto sparire la propria vocazione produttiva e, insieme ad essa, ogni segno tangibile del buon funzionamento e della potenza economica degli Stati Uniti d’America. Il paese promesso da Trump non si preoccupa dunque del problema posto dall’esaurimento delle risorse energetiche o dal riscaldamento globale: per produrre quanto la Cina, dovrà consumare quanto la Cina.
Abbattendo il muro del «politicamente corretto», ovvero tutte le regole basilari della politica come professione, Trump si è messo contro tutto e tutti. Ha così materializzato in un sol colpo tutte le chimere evocate dalla destra nel corso degli ultimi decenni: dai movimenti dei neri ai professori liberal, dai vecchi politici di Washington ai giornalisti «amici dei Clinton». Contro le inevitabili denunce della stampa e degli avversari, ha deciso di affidare la maggior parte del suo storytelling alle piattaforme social, dove il criterio di una verità è il suo potere effettivo – il numero delle condivisioni – più che la varietà delle fonti.
In questo modo, Trump è riuscito a creare una rappresentazione efficace che unisse le energie dei nazisti di professione, i soldi e il sostegno dei fautori del protezionismo a bassa pressione fiscale, dei nemici di Obamacare e degli strenui difensori del secondo emendamento (ovvero la National Rifle Association) e i voti di un 25 per cento di «forgotten Americans» – come li ha chiamati nel suo primo discorso. Ora è da aspettarsi che, per soddisfare le richieste di questa alleanza, proceda in primo luogo a ingraziarsi chi ne è stato il primo artefice: l’establishment repubblicano. Se così sarà, la destra statunitense potrà in parte riassorbire l’insorgenza populistica, usandola per cementare i cambiamenti della mappa elettorale. D’altronde qualcosa di simile è avvenuto nel Regno Unito, dove i conservatori hanno raccolto le spoglie dello Ukip e il mandato del referendum.
Questo però non significa che bisogna attendersi una stabilizzazione della situazione. Dopotutto, la carica di presidente degli Stati Uniti riserva al singolo uomo una certa capacità di intervento nella storia – anche quando quest’uomo è Donald Trump.
[Immagine: Donald Trump a un comizio]
Poiché l’argomento è lo stesso, riposto qui un mio articolo di mercoledì 9 mattina pubblicato in Facebook.
DONALD TRUMP 45° PRESIDENTE DEGLI USA
Trump ha vinto come era stato previsto da quei pochi che, a differenza dei troppi sondaggisti, dei maggiori giornali americani, dei gruppi di potere e di molti fra gli stessi uomini che più contano nelle file del partito Repubblicano; di quei pochi, dicevo, che anziché ascoltare il fumo dei desideri e scambiarlo per realtà, hanno ascoltato la testa e la pancia dell’America cosiddetta profonda: delle periferie, delle campagne, dei monti, dei deserti, delle fabbriche, delle attività economiche concrete e non dell’establishment finanziario, bancario, giornalistico ecc. Un paio di sondaggisti minori l’avevano capito, altri avevano capito che le cose non sarebbero andate come si credeva, ma non avevano previsto questo risultato. La campagna elettorale della Clinton e di Obama ha parlato alla superficie, non ha colto quei movimenti profondi che stanno cambiando l’America, come hanno cambiato la Gran Bretagna della Brexit e il clima sociale e politico di molti Paesi europei.
Come in altre occasioni (Brexit innanzitutto) si sono nettamente delineati due modi di pensare e di progettare il futuro che hanno diviso in due gli Usa, come dividono in due l’Europa. E la spaccatura non passa fra categorie vecchie, ormai inefficienti, cioè fra destra e sinistra, fra capitalisti e anticapitalisti, fra progressisti e conservatori, fra ricchi e poveri e così via. Ma piuttosto passa attraverso due modi diversi di concepire il Paese e i suoi rapporti con l’estero.
Da una parte ci sono i cosiddetti “mondialisti”, come ormai sono stati chiamati da diversi commentatori politici, che sono quello strato consistente della popolazione che guarda con più interesse ai legami internazionali che a quelli interni al paese. Non si tratta però di sola politica estera, ma di una visione complessiva, direi di una nuova ideologia. I mondialisti hanno interessi trasversali, senza confini, o almeno credono di averli. Sono coloro che operano nel mondo della finanza, delle banche, di un certo tipo di industria e di attività commerciali non legate al territorio; sono coloro che lavorano nelle università e si concepiscono come una élite intellettuale e delle competenze cosmopolita; sono gli emigrati di successo che si trovano bene nel nuovo paese in cui si sono trasferiti e non concepiscono le frontiere se non come un vincolo da abbattere; sono coloro che sono sempre in movimento e per i quali conta più vivere in un certo tipo di ambiente che ha rotto i ponti con i Paesi, le nazioni, gli Stati, se non per utilizzarne strumentalmente le opportunità. Insomma, i mondialisti proiettano se stessi in una concezione mondiale dei rapporti sociali, culturali, politici ecc.
I mondialisti hanno poi a loro favore, in genere, anche chi non ha gli stessi interessi, ma aderisce a questo orientamento o per ragioni pratiche (ad esempio i dipendenti degli organismi internazionali, della burocrazia degli Stati ecc.) o per ragioni culturali/ideologiche (i buonisti di tutti i tipi, gli assertori dei diritti universali).
I mondialisti sono per i diritti civili, per l’apertura delle porte e la costruzione dei ponti agli emigranti, per uno Stato più centralistico e assistenzialista che serva da ammortamento dei conflitti sociali, ecc. e non tengono conto dei legami “naturali”, da quelli familiari a quelli di comunità in cui si vive a quelli nazionali. Di conseguenza i mondialisti sono contro la tradizione, o almeno ne tengono poco conto; ritengono che una legge che stabilisca qualcosa valga più di secoli di storia del costume e della mentalità.
Contro i mondialisti è gradualmente cresciuta un’opposizione, che in qualche caso si è trasformata in movimento (la campagna elettorale di Trump ha costituito un movimento, quella di Hillary Clinton solo un aggregato di fan di diversa provenienza, che spesso hanno scelto la Clinton considerandola il male minore, senza entusiasmo). Questa opposizione si può chiamare “opposizione dei residenti”, direi quasi “dei nativi”. Cioè di quelle componenti della popolazione più legate al territorio, alle comunità di base, al loro lavoro concreto, ai legami di solidarietà che non si appoggiano su principi generali ma sulla vicinanza geografica e di costume.
Ma non è uno scontro fra pancia e testa, come molti commentatori ripetono, ma piuttosto fra la maggiore concretezza di pancia e testa dei “residenti” contro la maggiore astrazione dei diritti, e interessi, generali delle pance e teste mondialiste. Anche i mondialisti, spesso, ragionano di pancia, ma si tratta di pance diverse.
Fra i mille esempi che si potrebbero fare, basti seguire l’andamento degli umori religiosi dei cattolici americano sempre più stanchi del mondialismo di papa Bergoglio. Certo, per i residenti cattolici la solidarietà è un valore, ma non va espressa allo stesso modo per tutti, bensì va data la preferenza ai più vicini: ai familiari, ai parenti, agli abitanti della proprio comunità e così via. La psicologia dei pretesi diritti universali e quella diversa della vicinanza (tradizione, costume, conoscenza diretta ecc.) sono diverse e suggeriscono strade diverse.
Hillary e Obama hanno cercato di conquistare, riuscendoci solo parzialmente, il voto degli afroamericani, degli ispanici e di altri componenti in linea con la loro concezione, molto europea e poco in linea con la tradizione americana, di welfare e di solidarietà; ma non hanno saputo parlare agli americani bianchi, agli operai disoccupati vittima della chiusura delle fabbriche in diversi Stati, ai ceti medi che hanno visto ridurre ai minimi termini la propria condizione, agli imprenditori che si vedono ostacolati da leggi imposte dall’ideologia dei diritti universali, come ad esempio i minimi di salario, che pongono ostacoli e costi insormontabili ad artigiani e piccola industria. Ai tanti che credono nella libertà, come valore di fondo dello spirito americano, e nell’iniziativa privata, e che si sono sentiti umiliati dalla politica di Obama che avrebbe voluto trasformare gli americani in “mangia rane”, cioè in europei, abituati a vivere con minore libertà e sotto l’ombrello protettivo di mamma Stato che pensa a tutto.
Infine, ma qui sto ricordando solo pochissimi aspetti, in un rapido schizzo, e ci vorrebbe ben altro spazio per esaminare la situazione nel dettaglio; Obama e la Clinton sono i responsabili di migliaia di morti, delle guerre intraprese in nome della diffusione della democrazia e che hanno invece creato il caos in Libia come in Iraq, in Siria e altrove, hanno foraggiato il terrorismo islamico, hanno contribuito a diffonderlo in Europa e negli Usa. I residenti sono invece più propensi a una politica cauta, prudente, isolazionista, dove gli americani difendono i loro interessi soprattutto a casa loro. Ciò comporta anche la volontà di ridurre i flussi di emigrazione nei confronti degli ispanici (Messicani soprattutto) e degli islamici visti come potenziali nemici.
L’ideologia dei residenti è di fatto la loro terra, il legame con la patria, non tanto intesa in senso statale e nazionalistico, ma nel senso classico di terra in cui si è nati, dove sono sepolti gli avi, dove vivono gli amici, dove si svolge la propria vita. E dei legami che questa concezione crea, legami naturali, spontanei e pre-statali.
L’ideologia dei mondialisti, con molta ipocrisia e molto strumentalismo, è quella dei diritti universali, della globalizzazione, del mondo intero da ridurre tutto uguale, soppresse le differenze delle tradizioni e della storia. Fra cui anche le pratiche democratiche, che si riducono sempre più a mere formalità ininfluenti sull’effettivo cammino della globalizzazione.
Da un lato, si potrebbe dire che l’eroe dei residenti è il cittadino libero, che si fa da sé, che difende la terra e la famiglia, che combatte contro le intrusioni dello Stato sempre più invasivo e prepotente. Dall’altro, l’eroe del mondialista è lo Stato protettore ed erogatore di diritti universali, lo Stato che limita la libertà e non riconosce le autonomie delle organizzazioni naturali dei cittadini, lo Stato che si assume compiti che non gli spetterebbero e che aumenta continuamente il peso fiscale per accrescere il potere e tenere sotto controllo i cittadini. Lo Stato, infine, che non si identifica con la “Patria” in senso tradizionale e retorico, ma con uno strumento di intervento in mano ai mondialisti, i quali lo trasformano in fonte di potere, di privilegi, di guadagni parassitari e di differenziazione rispetto agli altri.
Entrambe le posizioni – mondialisti e residenti – hanno una parte di ragione e una parte di torto. Lo scontro si acuisce quando gli uni non tengono conto delle ragioni degli altri, si irrigidiscono in posizioni ideologiche, non pragmatiche e non realiste, e soprattutto quando il mondialismo cammina troppo veloce e travolge i residenti, senza dare a nessuno il tempo di trovare un punto di reciproca integrazione e di rivitalizzazione dei valori della tradizione in forme aggiornate. Ma nella fretta del mondialismo c’è l’ansia del potere, del guadagno e della speculazione che gli suggerisce di non rispettare le ragioni e i diritti degli altri.
Per questo, a mio parere, in questa fase storica, il mondialismo è più pericoloso del “residenzialismo”, anche se a breve e lungo termine risulterà vincitore. E avremo allora una spaccatura sempre più evidente con una classe politica ed economica che se ne va per conto suo e una popolazione subalterna sempre più scontenta, magari alle prese con quelle “guerre tra poveri” promosse dalle dissennate politiche mondialiste e che servono per sviare la rabbia dei popoli e renderlo sempre più subalterno al potere statale.
[Luciano Aguzzi]
Mi chiedo se una valutazione più diretta sia più aderente. Se si considera il dato dell’affluenza al voto che in USA chiamano turnout (percentuale di chi ha votato):
consultando la voce inglese sulle presidenziali USA si nota che il dato è del: 57,6 %
Chi vince quindi è il partito dell’astensione.
Guardando da lontano il teatrino a due del prima elezioni mi sembra ovvio che in crisi ci sia prima di tutto la credibilità dei politici.
Il dato sull’astensione lo confermerebbe.
Sembra che a cambiare sia solo la facciata soave l’una diretta l’altra.
Mi chiedo mìcoma mai al centro dell’attenzione non sia il recupero degli elettori che non votano più?
Lo stesso accade in Italia.
Finchè non si capovolge la piramide non cambierà gran chè.
Lo psicologo sociale Johnathan Haidt:
“…But rather than focusing on the nationalists as the people who need to be explained by experts, I’ll begin the story with the globalists. I’ll show how globalization and rising prosperity have changed the values and behavior of the urban elite, leading them to talk and act in ways that unwittingly activate authoritarian tendencies in a subset of the nationalists. ”
http://www.the-american-interest.com/2016/07/10/when-and-why-nationalism-beats-globalism/
Sulla CNN, la notte dell’elezione di Trump, ho sentito Van Jones dire che se i bianchi votano per il loro interesse si tratta di razzismo e “nativist bigotry”, bigotteria di autoctoni; se i neri votano per il loro interesse si tratta di liberazione e giustizia.
Occhio che la identity politics non è monopolio dei buoni.
Segnalo un dato MOLTO significativo. Di recente, due economisti di Princeton (uno dei quali è poi stato insignito del Nobel alla memoria) hanno pubblicato uno studio sull’aumento vertiginoso della mortalità tra i bianchi USA di mezza età non laureati. I due dimostrano con il metodo scientifico che l’impennata delle mortalità non consegue alle malattie che sono le principali cause di morte in USA (cardiopatie, diabete, etc.) ma è causata da suicidio e da patologie correlate all’abuso di alcol e droghe. Sintesi: i maschi bianchi middle age non laureati si lasciano morire perchè, sradicati, umiliati, privi di prospettive, non hanno più nessuna voglia di vivere. E’ quello che capita ai popoli che subiscono un genocidio culturale: si lasciano morire. Qui una analisi del rapporto:
http://www.pnas.org/content/112/49/15078
Le riflessioni di Simone Weil sulla correlazione dei titoli di studio dei vertici e la loro comprensione di chi si suppone dovrebbero rappresentare mi sembrano di una modernità inaudita.
In pratica se chi dirige è laureato finisce per esprimere le esigenze dei laureati perchè molto prosaicamente: “il sazio non può comprendere l’affamato.”.
Ecco perchè il dato sull’astensione è quello che dovrebbe essere valutato come prioritario.
A votare è probabile che non si rechino i disoccupati che forse sono in maggior numero tra coloro che non sono laureati.
E diminuendo col passare del tempo la possibilità che il numero dei laureati aumenti… (perchè il ceto politico è costituito da laureati che mirano a non soddisfare le esigenze di chi laureato non è) il problema finisce per aumentare; aumentando quindi la mancanza di rappresentatività della politica e quindi della sua credibilità.
Lo Stato-Mafia dialogante.
@ Buffagni
Roberto, ti chiedo (non per polemica…) se esistono ricerche simili per altre fasce della popolazione statunitense: neri non laureati, donne non laureate, ecc.
@ Abate
Esisteranno senz’altro, magari basta guardare Pew research e si trovano, ma non le conosco. La ricerca che ho indicato, comunque, non è stata fatta ad hoc per Trump (non si era candidato, non si pensava si candidasse), e Princeton è un bulwark democratico.
Qui però la questione non è la gara a chi sta peggio (c’è sempre qualcuno che sta peggio), è che il giochino della identity politics è scoppiato in mano ai democratici USA.
Senza che lo preparassero i loro tradizionali avversari, i repubblicani.
Trump ha attirato tipo magnete una identity che sinora non si era percepita come tale, perchè si sentiva maggioranza (maggioranza culturale ancor prima che maggioranza numerica). Per la prima volta, queste persone si sono sentite minoranza, minoranza anzitutto culturale (perchè tali le ha fatte sentire il politically correct, il discorso dominante); e hanno reagito.
E’ la stessa cosa che sta avvenendo in Francia e in generale in Europa a seguito dell’immigrazione di massa, del peggioramento grave delle condizioni materiali e morali di vita, etc. E’ una dinamica inevitabile e anche pericolosa, naturalmente. Ma chi di spada ferisce, etc.
Oramai non c’e’ nemmeno piu’ il pudore. Rileggere l’Ur-fascismo di Eco del 1995 per vedere a cosa stiamo tornando: http://www.nybooks.com/articles/1995/06/22/ur-fascism/
Mi sembra che sia opportuno qui ora ricordare con questo documentario: 740 Park Avenue ask why poverty? https://www.youtube.com/watch?v=FOPLLhLbcjM la griglia di riferimento cui la politica Italian ed USA sta facendo riferimento.
Qualcuno che osa dare dignità filosofica al quadro di pseudo valori che c’è dietro l’ha chiamato Oggettivismo.
Siamo proprio de coccio, eh? Va be’.
@ Buffagni
Coloro che hanno votato Trump sono una minoranza. Se non ho letto male la Clinton ha preso più voti in termini assoluti, quindi perché sono giorni che si discute come se Trump avesse preso una valanga di voti, quando pare che ne abbia presi meno del candidato precedente Repubblicano? La Clinton ha perso perché non tutti quelli che la potevano votare hanno votato, ma non ha senso pensare che la sinistra, o i Democratici, o chicchessia nel futuro debbano intercettare i voti di una minoranza per vincere. Deve pensare a loro, a questi maschi bianchi, in termini solidali per quanto riguarda la loro condizione, ma di certo non per quanto riguarda le loro idee su certi temi. Su certi temi se la pensi come Trump sei una testa di cazzo, e ben ti sta se stai male. Non è colpa del politically correct, è colpa tua se pensi certe cose. Non è che siccome siamo di sinistra dobbiamo capire tutti, non siamo ecumenici.
Come non ricordare Ennio Flaiano con uno dei suoi aforismi: “In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti.”
http://aforismi.meglio.it/aforisma.htm?id=413c
Tutti gli esseri umani sono un po’ fascisti. Gli aforismi di Flaiano hanno anche un po’ rotto il cazzo
pure la moderazione di LPLC è diventata Trumpiana?
@ FF vs PPP
Sì, però non è che essendo di sinistra siete tenuti a non capire un cazzo, per esprimersi come te. E per non cambiare registro, a me di Trump non me ne può fregare di meno, non sono americano, non la penso come lui e non mi faccio il riportino/one, non ne ho bisogno e non me lo farei neanche se ne avessi bisogno.
Io ti segnalo sommessamente che Trump ha vinto le elezioni prendendo tanti voti (in assoluto, un centocinquantamila meno della Clinton), e che li ha presi in condizioni di enorme svantaggio rispetto alla sua avversaria, tanto è vero che ha dovuto anzitutto battere tutta la dirigenza del suo partito per farsi eleggere.
Se ha fatto questo miracolo, vuole dire che laggù, come quaggiù, c’è tanta gente che non ne può più, anzi che si è decisamente rotta il cazzo di una classe dirigente non si limita a sbatterti in mezzo a una strada e rovinarti la vita, ma si prende anche il lusso di farti la morale col ditino alzato e di trattarti dall’alto in basso come fai, nel tuo piccolo, anche tu.
Questa roba qua è la sinistra, volenti o nolenti, immagino che la preferiresti diversa ma il convento passa questa roba qua.
Finchè questa gente o gentaglia si limita a votare, qua e là, va tutto bene, non si fa veramente male nessuno. Se invece la sinistra, qua e là, insiste su questa strada, approfitta di Trump per dire che sta arrivando il nazismo e inventare l’ennesimo uomo nero, fa carte false per vanificare i risultati di elezioni, referendum eccetera (specialità europea, questa) la suddetta gente o gentaglia si potrebbe rompere veramente e potrebbe passare dai ballots ai bullets, e allora sì che ci si fa male veramente.
Poi fate, sempre per restare il tema, quel cazzo che vi pare, ognuno ha diritto alla sua nemesi a questo mondo, e voi ne avete scelto una marca prelibata.
“Diario del saccheggio” documentario di Pino SOlanas sul defualt argentino riesce ad esprimere in maniera diretta quello che in maniera “dorata” sta accadendno in Italia; con le sstesse motivazioni estere e nazionali: https://translate.google.it/translate?hl=en&sl=it&u=https://unpodimondo.wordpress.com/2012/07/17/un-film-diario-del-saccheggio-2004/&prev=search
Speriamo che anche inLe Parole e le cose non comincino ad apparire quei “cerchi magici” che qualcuno chiama anche operazioni di marketing aggressivo tesi a prendere il controllo o a bloccarne l’attività.
@ Buffagni
Le cose non stanno proprio come dici tu. La parte in cui hai ragione è quella della sinistra impresentabile. Ma, da una parte se a sinistra ha preso piede una certa classe dirigente, e la Clinton con essa, non è così scontato scalzarla. Io non so se Sanders sia stato affossato più dalla dirigenza o più dagli elettori, visto che alle primarie non ha vinto. E non è detto che Sanders avrebbe vinto. E inoltre se molti democratici si sono astenuti non possono prendersela con altri che con se stessi, comunità afro in primis. Altro punto in cui hai ragione è quello del dibattito. Da troppo tempo a sinistra si evita il dibattito punto per punto e si preferisce parlare solo tra chi già la pensa in un modo (la follia di studenti che si offendono se sui libri del passato c’è la parola negro e cazzate varie del genere), e si liquidano le idee altrui attraverso varie etichette. Le persone di sinistra hanno l’ovvio atteggiamento di superiorità. Su questo però è bene dire subito che sui temi morali io ho ragione e sono pronto a smontare qualsiasi tesi morale di destra. Sui temi economici non so, ma su quelli morali le idee di Trump e della sua cricca fanno schifo e basta. Se ne discute, ma lo sostanza è questa. Io a differenza di molti marxisti e persone di sinistra sto imparando com’è fatta la natura umana, e non ne penso bene. La sinistra si è illusa per secoli ormai che la colpa sia del capitale, e non capisce che le persone si odiano a prescindere e che non si sentiranno mai una classe in base alla propria condizione sociale. Detto questo le analisi del voto, almeno quelle che abbiamo, dicono una cosa diversa da quella che dici tu. Trump si è diviso con Clinton sia i voti dei poveri sia quelli dei borghesi e sia quelli dei ricchi. Clinton ha prevalso sui non bianchi, donnne, e un po’ di giovani, Trump sui bianchi di mezza età. Trump ha fatto il miracolo perché ha saputo far credere a queste persone di essere una comunità in pericolo. Fra queste persone c’è una parte di gente che sta male, ma la maggior parte non sta male affatto, solo che gli prende bene credersi minoranza in pericolo, vittima. La stessa gente che in Italia dice di essere esasperata non si sa bene da che cosa, quella che sbuffa se vede un lavavetri o un povero che ti chiede l’elemosina al supermercato. Non ne possono più di che cosa esattamente? A me pare solo che il benessere ti fa schifare la povertà e i poveri, vedi i vari istinti a bruciare gli zingari che hanno un po’ tutti, persino mia madre che è la persona più buona del mondo. Il nazismo ce lo abbiamo dentro, altroché. Quindi , fino a che il voto è espressione del malcontento per le condizioni economiche è accettabile, nessuno ha la sfera di cristallo. Ma quando il voto diventa la retorica dei dimenticati alla riscossa non ci siamo. Molti elettori di Trump non sono di sinistra e mai lo saranno, quindi non è roba della sinistra. I dimenticati fra le file degli elettori di Trump sono ancora un’altra volta una minoranza, e inoltre non la cosa non giustifica affatto le idee di Trump. Se si fosse limitato a parlare della crisi la cosa avrebbe senso, ma non mi pare che abbia parlato solo di come ridare lavoro a tanta gente, né che la maggior parte dei suoi elettori stia in mezzo a una strada, anzi. Certo gli intellettuali di sinistra hanno sbagliato tutti questi anni a perculare questa comunità di bianchi della zona rurale, così come in Europa, e certo la sinistra non ha voluto affrontare la parte dell’immigrazione che riguarda la criminalità e la competizione sui salari. Però non cadiamo nell’errore di pensare che i poveri e i proletari stanno con Trump, con Le pen, con Salvini eccetera. Ce ne stanno alcuni, e forse possono essere persuasi, ma la maggior parte dell’elettorato di questi vari leader è di destra e fieramente. In Usa poi, non mi pare che i bullets stiano a prendere la polvere, anzi, si ammazzano allegramente, e molti americani non aspettano altro che qualcuno gli entri in casa per sparargli, così finalmente possono avere quel fremito che tanto gli manca, da repressi sessuali quali spesso sono. Molta di questa gente è agli sgoccioli come rilevanza in tutti i sensi, tanto elettorale quanto demografica, tanto culturalmente. Le comunità chiuse e tutte le cose della vita finiscono. Questa volta hanno vinto per incapacità altrui, in futuro saranno semplicemente ancora di meno a pensarla come la pensano loro. Non che quelli che verranno dopo saranno tanto meglio, probabilmente.
Mi riferisco all’intervento di FF vs PPP.
Ma secondo voi, è possibile sovrapporre il momento dell’analisi politica a quella del tifo politico, pretendere di descrivere obiettivamente una realtà fattuale e nello stesso tempo esprimere giudizi di valore?
A me pare che facendo così, si faccia solo confusione.
Ad esempio, a me Trump fa abbondantemente schifo, ma questo non dovrebbe esentarmi se mi vesto dei panni dell’analista politico di riconoscere le novità che la sua presidenza potrà avere sulla situazione geopolitica.
Che i maschi bianchi USA siano solo dei repressi sessuali, sarà anche vero, non confermo e non smentisco per mancanza di dati sperimentali a riguardo, ma che si sentino attaccati da un fronte concentrico che passa per il nuovo ruolo femminile e l’importanza e il peso demografico di afro- e ispano-americani, mi pare un dato importante in sè, sia che mi senta solidale a loro, sia che invece stia alla testa del corteo di coloro che vogliono distruggere questo ruolo privilegiato del maschio bianco.
Faccio infine due distinte ed ulteriori brevi riflessioni.
L’una è che dire di avere scoperto ombre sulla natura umana non è cosa da poco, significa sposare un modello antropologico del tutto differente ed in questo caso del tutto incompatibile con la vulgata di ispirazione illuministica, poi trasmessa al liberalismo ed anche al marxismo. Magari uno ripensa anche le proprie idee politiche generali. Gli potrebbe venire in mente che i ricchi, i capitalisti ci fregano proprio con questa pretesa che siamo esseri liberi e razionali, ad esempio approfittando della libertà di comprarsi l’intero mondo dell’informazione, tanto ognuno pensa con la propria testa e sceglie tra alternative nella realtà inesistenti. Usa la logica della mafia, prevale perchè ha questo legame di ferro e di sangue interno ed ha i mezzi per imporre il proprio ordine, ma al contrario della mafia mentre che lo fa, ti convince che vivi nel migliore dei mondi possibili e godi delle libertà fondamentali.
La seconda riguarda gli USA in quanto tali. Se il maschio bianco è un povero frustrato con idee retrive, ma proprio questa figura è quella che ha determinato come gruppo egemone le scelte fondamentali di questo grande paese, magari uno si potrebbe porre il problema dei rapporti che ad esempio l’Italia dovrebbe intrattenere con loro, magari scegliendo di sfilarsi da alleanze in cui giochiamo un ruolo subalterno e che oggi appaiono penalizzanti per la nostra società.
@ FF vs PPP
“Io a differenza di molti marxisti e persone di sinistra sto imparando com’è fatta la natura umana, e non ne penso bene.”
Ecco, a partire da questa tua affermazione si può cominciare a discutere sul serio. Io sulla natura umana penso anche altre cose nient’affatto deprimenti, ma la cosa principale è la premessa metodologica ‘nessuno è buono’, copyright Gesù Cristo (Matteo 19,17- Marco 10,18-Luca 18,19: “Gesù gli rispose: «Perché mi dici buono? Nessuno è buono, se non uno solo, Dio.”).
Fatta la premessa, cominciamo a discutere. Cito i punti principali del tuo intervento, e commento.
1) “Io non so se Sanders sia stato affossato più dalla dirigenza o più dagli elettori, visto che alle primarie non ha vinto.”
Sanders ha perso le primarie perchè la dirigenza del suo partito lo ha fregato (proprio fregato, con manovre sottobanco molto poco simpatiche). Non credo che avrebbe avuto possibilità di vincere, come candidato dei democrats, perchè in America presentarsi da socialista è come presentarsi da fascista in Italia. Proprio per questo, il semplice fatto che sia riuscito a emergere e a combattere seriamente per la candidatura è segno che in USA il sistema politico e culturale è in grave crisi (infatti ha vinto Trump, altro candidato extrasistema). Poi il problema di Sanders è il problema di Tsipras. Sanders dice roba da fuoco sui democrat e sulla classe dirigente rappresentata dalla Clinton, ne viene fregato, dopo di che, invece di presentarsi come indipendente e proseguire sulla sua strada, si zerbina vigliaccamente e appoggia la Clinton di cui ha detto cose che neanche Trump (a ragione, la Clinton è un mostro) perchè altrimenti “fa il gioco del nemico” fascista Trump. Risultato: Sanders-Tsipras fa invece il gioco del nemico Clinton = si rivela per quel che di fatto è, una candidatura civetta che fa come in Italia SEL: tante belle chiacchiere per acchiappare gli elettori di ultrasinistra e poi ricondurli nell’ovile del PD. (Non metto in dubbio la buona fede personale di Sanders di cui non so, registro i fatti). Morale della favola: in politica, la cosa più importante è individuare il nemico principale. Il resto viene di conseguenza. Vuoi battere la classe dirigente globalista rappresentata dalla Clinton? E’ quello il tuo nemico principale? E allora non ti schieri con la Clinton. Ti presenti come indipendente, e fare il gioco di Trump è un effetto collaterale, spiacevole se vuoi ma inevitabile. Se invece il tuo nemico principale è Trump perchè Trump è di destra e dice cosacce, ti schieri con la Clinton e diventi corresponsabile di tutto quel che ha fatto e che farà, macelli in Siria, Libia e Ucraina compresi. In piccolo, se fai un riepilogo della dinamica di SEL e analoghi in Italia, vedi che è andata esattamente così.
2) “Su questo però è bene dire subito che sui temi morali io ho ragione e sono pronto a smontare qualsiasi tesi morale di destra.”
Ti ricordo la premessa. Penso di aver capito che cosa intendi: che il razzismo fa schifo, l’egoismo calloso non è un bel vedere, etc. Sì, in generale sono d’accordo. Ti invito a considerare però che a) non tutte le “tesi morali di destra” sono uguali, nè sono tutte così facili da smontare, qui fai il passo più lungo della gamba (ti leggi per esempio Roger Scruton, o magari Platone o Pareto, e ti accorgi che non sono proprio una casetta di Lego). Aggiungo che avere ragione sul piano morale NON è la stessa cosa che avere ragione sul piano politico. Sul piano politico, cioè nel mondo della necessità e della forza, NON vincono sempre i buoni (non vincono sempre neanche i cattivi, bisogna vedere caso per caso). Se vincessero sempre i buoni, potremmo togliere di mezzo l’ingombro del sistema giudiziario e ritornare alla più semplice e sbrigativa ordalia.
3) “Il nazismo ce lo abbiamo dentro, altroché.”
No. Dentro abbiamo cose anche peggio del nazismo (più altre molto meglio del meglio che riesci a immaginare) ma il nazismo è un fenomeno storico, tra l’altro concluso, non un avatar del Male assoluto che ogni tanto ci fa visita tipo Sauron. Lo sottolineo perchè questa tesi del fascismo che avremmo dentro e ogni tanto torna è una spessa fetta di salame che occlude lo sguardo sulla realtà. Trump, la Le Pen, Orban, scegli tu quelli che ti sembrano i peggio in circolazione, potrebbero fare anche disastri peggiori di quelli nazisti; per esempio, nel caso di Trump, scatenare una guerra termonucleare. Però NON sono fascisti, nazisti, etc. Dove le vedi le SA, in America? Dove vedi le squadre d’azione fasciste, in Francia? Non diciamo sciocchezze.
3) “fino a che il voto è espressione del malcontento per le condizioni economiche è accettabile”
E qui ti invito ad accogliere un’altra premessa metodologica, stesso copyright: “Non di solo pane vivrà l’uomo” (Matteo 4,3-6: “Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: «Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto:
Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».”)
E’ poi vero che per ascoltare la parola di Dio bisogna tendere le orecchie, perchè come dice la meravigliosa versione di Re Giacomo della Bibbia (Kings 19:11-13) la voce di Dio è una “still small voice”, una piccola voce silenziosa. Quindi più facilmente ne ascoltiamo dei surrogati, a volte tossici.
4) “Però non cadiamo nell’errore di pensare che i poveri e i proletari stanno con Trump, con Le pen, con Salvini eccetera. Ce ne stanno alcuni, e forse possono essere persuasi, ma la maggior parte dell’elettorato di questi vari leader è di destra e fieramente”
Le due cose non sono necessariamente in contraddizione, vedi seconda premessa al punto precedente. I poveri e i proletari bianchi stanno (in generale) con Trump, Le Pen, Salvini, perchè alla protesta per il peggioramento delle condizioni materiali uniscono la protesta identitaria (che può essere declinata in uno spettro di posizioni che vanno dal semplice e sano patriottismo al suprematismo bianco e al razzismo). I poveri e i proletari immigrati stanno (in generale) con le sinistre, per ragioni materiali (le sinistre sono favorevoli all’immigrazione e finanziano il welfare ad essa destinato) e ragioni morali (le sinistre cantano le loro lodi). Qui il punto politico decisivo non è chi è buono e chi è cattivo (v. premessa uno), il punto decisivo è che il clivage destra/sinistra si sta disegnando su basi etniche e religiose. Dire che è pericoloso è un eufemismo. E’ PER QUESTO che va fermata l’immigrazione di massa e va invertita la tendenza (so che non è facile, ma bisogna almeno provarci). Perchè una contrapposizione politica su base etnica e religiosa è la condizione necessaria (non sufficiente, ma basta poco) per la guerra civile, quella vera con la gente che si ammazza.
5) “In Usa poi, non mi pare che i bullets stiano a prendere la polvere, anzi, si ammazzano allegramente, e molti americani non aspettano altro che qualcuno gli entri in casa per sparargli, così finalmente possono avere quel fremito che tanto gli manca, da repressi sessuali quali spesso sono”
No. Quando si dice ballots or bullets non ci si riferisce al tipo che spara al ladro, ci si riferisce alla guerra civile (v. punto precedente). Gli USA sono una società molto violenta. Non lo sono perchè è facile comprare le armi. In Svizzera, quasi in ogni casa c’è un fucile d’assalto Sig Sauer cal. 5,56 con centinaia di cartucce (c’è un esercito territoriale con richiami periodici fino alla quarantina, i riservisti tengono in casa il corredo, armi personali comprese). Vedi le stragi, in Svizzera? Gli USA sono una società molto violenta perchè sono una società molto composita (tante etnie), molto individualista, e molto anomica.
Già che ci siamo ti invito a considerare una cosa. Negli USA, come d’altronde in Europa, i media e la polizia hanno l’ordine di minimizzare e nascondere le violenze dei neri (in USA) o degli immigrati (in UE), per evidenti ragioni. Però in USA il 60% dei carcerati sono neri, mentre i neri sono il 12% della popolazione. In Italia, i detenuti stranieri , extra e intracomunitari, sono il 35%, mentre la percentuale di stranieri residenti è l’8%. Facendo la tara degli errori giudiziari etc., questo significa una cosa sola, e molto semplice: che i neri in USA, gli stranieri in Italia, delinquono percentualmente MOLTO di più degli autoctoni. Anche qui, non dipende dalla genetica o dalla metafisica (“nessuno è buono”) ma è così. Dai e dai questo nodo arriva al pettine. E se ci arriva dopo essere stato sfacciatamente negato dai powers that be, sono dolori. Un esempio recente. Sai delle aggressioni organizzate alle donne in diverse città tedesche, al principio di quest’anno. La reazione delle autorità è stata, anzitutto minimizzare, poi tenere corsi per le donne (“come reagire a una violenza carnale”) e per gli immigrati (“come scopare con le locali senza violentarle”). Questa è FOLLIA, pura follia politico-ideologica. Chi ha organizzato e ha partecipato a queste aggressioni lo ha fatto per tastare il polso alle popolazioni europee, e vedere come reagiscono. Violare le donne è l’estrema offesa che si può compiere su una popolazione: nei paesi da cui provengono queste persone, a un’azione di questo genere sarebbe seguita immediatamente e spontaneamente una strage di rappresaglia, in proporzione 1:20 come minimo, con torture, smembramenti, etc. Non reagire con durezza a una provocazione come quella = comunicare che siamo pecore.
6) E qui ti invito ad accettare la terza premessa (copyright proverbi saggezza dei popoli) che consegue logicamente dalle prime due: “Chi pecora si fa, il lupo se lo mangia”.
Ciao.
Poi spero d’intervenire nella discussione che sta decollando su punti di sostanza. Per ora vorrei invitare FF vs PPP a non scoprire l’acqua calda e a ricordare che buone menti, anche marxiste, hanno già saggiamente criticato “l’ovvio atteggiamento di superiorità” delle “persone di sinistra” e riflettuto sulla natura umana che non è così buonista come *alcuni* la dipingono.
Ad esempio, F.F. proprio contrastando un certo russovismo di P.P.P. e un certo illuminismo pacioccone, ci ha lavorato parecchio:
Della “sinistra comunista” aveva imparato a conoscere i limiti. «Sinistra» per lui non equivaleva a «bene» sempre e ovunque». Volentieri notava che «la maggior parte delle premesse che si è soliti considerare «di sinistra», [erano], in Urss, una menzogna inculcata fin dai banchi della scuola, “marxismo” falsificato peggio di qualsiasi catechismo»(69). Non liquidava per questo la prospettiva e il nome del comunismo, ma per lui esso era questione da «ridefinire»; e negli anni di collaborazione a «il manifesto» pensava che fosse possibile rinnovare una dottrina divenuta dogma pietrificato. Da qui la sua attenzione vigile alla Cina di Mao, ai samizdat, alle dissidenze sovietiche. E, dunque, a Solgenitsin. Considerava la sua opera una «testimonianza parziale ma irrespingibile» di un passato, che però era anche presente. (Essendo per Fortini «passato e presente […] un’unica cosa», 66). Parlare dell’Urss (nel ’74) significava parlare di casa nostra, del PCI, di noi, di «che cosa siamo e che cosa possiamo» (67). Sosteneva perciò che bisognasse «giovarci di Solgenitsin, costringerlo a fare più luce sul nostro cammino, usarlo politicamente» (70), non disprezzarlo. Oppure, in «Ancora su Pljusc e l’Urss» (1979), ribadiva cose analoghe: il suo libro, Nel carnevale della storia, aiutava a «fissare alcuni punti della realtà sovietica che, seppure trasposti e tradotti, valgono anche per noi (206). Accentuava «le somiglianze, invece delle diversità fra il «là» e il «qua» (208). E identico, «là» come «qua», gli sembrava il «compito politico» da assolvere: «costruire forme di associazione (che non v[oleva] dire partiti) capaci di farsi luogo delle forze volte a mutare coscientemente «lo stato di cose presente» (208). E questo pur sapendo che certe testimonianze minoritarie avevano «in comune l’odore della galera» (159); o regredivano facilmente a una sorta di «socialismo morale»; o riducevano la storia a «buffonata», cioè a «non-storia e impossibilità di senso» (205), allineandosi a quanti, in Occidente o nei paesi dell’Est, spalleggiati dalla grande editoria, propagandavano «l’idea che tutto il mondo è una fogna» (205).
Da decenni (il suo «Dieci inverni», riepilogo della sua militanza nel PSI al momento di uscirne, era del 1957) Fortini aveva visto la storia del comunismo pietrificarsi. Il Rapporto Kruscev (11), che aveva accolto assieme ad altri con ingenuo entusiasmo, era stato presto neutralizzato nei suoi effetti in apparenza innovativi. Lo stesso accadrà con l’evoluzione della Cina. Egli, che pur aveva criticato la nuova sinistra per la rimozione della «tematica cinese» (110), alla morte di Mao poté solo sottolineare di quel maestro più il «volto interrogativo» che «assertivo» (113), più le sue capacità per così dire antropologiche che i risultati politici. Il nucleo della sua critica al marxismo ortodosso e al socialismo “reale” perciò consistette soprattutto nella denuncia della «separazione fra l’esistenziale e il discorsivo (o razionale)» (209), «una separazione non-dialettica» che cancellava – ecco la sua prospettiva hegelo-marxiana – «qualunque ipotesi di integrale ricomposizione in unità della estraneazione» umana (209). Temeva il legame tra il marxismo e il «radicalismo borghese». Diffidava cioè, sulla scorta della Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer, dei limiti della «tradizione laica e illuministica» (117). E, prendendo sul serio il filosofo cattolico Del Noce (115), vedeva nella storia del pensiero e della politica marxista «una contraddizione profondissima e vitale». Dalla quale poteva discendere «lo schiavismo tecnologico-burocratico» o «la rivoluzione anticapitalistica su scala mondiale». (116). E perciò, amico di Panzieri, aveva giudicato l’operaismo post-Quaderni Rossi «occultamente aristocratico» e subalterno alla «cultura del capitalismo tecnocratico». Gli rimproverava di rifiutare un dato reale per lui fondamentale: che non solo il mondo industrializzato ma «tutto il mondo è nostro contemporaneo» (111). Ecco il lato del suo pensiero politico che a quei tempi veniva definito con sufficienza “terzomondista”. Della sinistra (anche nuova) non sopportava un’idea di civiltà intesa pragmaticamente come «progresso scientifico-tecnologico e di consumi crescenti, di amministrazione funzionale, di lavoro e di eros per tutti, di protezione sociale dalla culla alla tomba, e di partecipazione democratica di tipo, in fin dei conti, americano o sovietico». Una «democrazia repressiva» (Marcuse), insomma. Che comportava a suo avviso «il genocidio di tutta una parte dell’umanità e la mortificazione di tutta una parte capitale delle possibilità umane»(116-117). Questa suo tipo di polemica contro un comunismo che si rifacesse esclusivamente all’illuminismo borghese è presente in molti articoli. Ad esempio nel commento al risultato vittorioso del referendum sul divorzio (per il quale egli non si era battuto,73). Ai fautori di una realtà «moderna», «civile», «borghese», «illuministica, razionalistica, positivistica e insomma progressista», di cui considerava Moravia «il miglior critico e il miglior apologeta», preferiva le minoranze, che ostili alla «presunzione sociotecnologica e [al]l’ottimismo neosocialista e neoborghese», guardavano «al di là del progresso»(72). E in uno sforzo antielitario (85) rifiutava quella sorta di divisione per cui si era finito per affidare a qualche chiesa la «gestione degli Assoluti» e allo Stato «l’amministrazione della Valle di Lacrime» (76).
( E. A. , Le disobbedienze dimenticate di Franco Fortini, in “Come ci siamo allontanati. Ragionamenti su Franco Fortini”, Arcipelago Edizioni, Novara 2o16)
Non capisco perché citare l’ur-fascismo irriti. Fate il test di Eco sui 14 punti: Eco è stato un italiano illustre, una gloria accademica ed uno che ha vissuto alcune situazioni sulla sua pelle, quindi non un webete de coccio. Non è che mi preoccupi cosa faranno i maschi italici, peraltro, ha già detto la Storia che sarà grossomodo una pagliacciata (ducesca) o un suo surrogato (emittenzesco); preoccupano gli ur-fascismi declinati localmente in tradizioni meno chiacchierone: un mondo di erettori di muri, di suprematisti bianchi, di ustascia ecc. ecc. va storicamente verso situazioni di conflitto che infine sfuggono di mano ed oggi i bullets si chiamano Little Boy.
Ringrazio Alessandro Brizzi per questo contributo. E’ fondamentale l’analisi condotta sul doppio piano “culturalista” e “socio-economico”, perché mi sembra che nelle ultime vicende politiche stiano confluendo (e esplodendo, in mancanza di una soluzione) i problemi che da alcuni decenni si sono presentati alla politica, anche se troppo spesso separati: i problemi delle identità culturali e quelli della redistribuzione della ricchezza.
L’elezione di Trump conferma una tendenza che vediamo almeno dalle elezioni europee del 2014, passando per le elezioni amministrative intermedie francesi e tedesche, per le elezioni spagnole fino ad arrivare alla Brexit: l’establishment perde sempre, la caccia alle streghe contro il “populismo” lo rafforza, e quello che vince (e che appunto viene etichettato, sbrigativamente, come “populismo”) è il nazionalismo democratico. “We, the People” significa sempre di più “noi che apparteniamo a un popolo con una forte identità storica, e che ci sentiamo minacciati in questa identità e nella sua esistenza sociale, e cerchiamo nello stato nazionale lo strumento per proteggerla, salvarla”. E’ un’idea di democrazia, si sbaglia a etichettarla come “fascismo, autoritarismo ecc.”, anche se non è un’idea universalistica e inclusiva. Lo stato nazionale forte viene percepito come l’unico argine a gravi lacerazioni culturali e sociali, e alle derive della globalizzazione. Nessun’altra istanza è stata capace di ricostruire il senso di appartenenza alla comunità politica. Le forze che si richiamano troppo esplicitamente a ciò che distrugge questo senso di appartenenza sono destinate a perdere; a ciò si aggiunge la forte componente “anti-politica”, il rifiuto delle classi politiche che dominano da troppo tempo.
Le sinistre non hanno niente di forte da opporre, perché non possono assumere quel discorso in toto (io non credo che Sanders avrebbe avuto più chances di vincere, perché non avrebbe potuto assumere fino in fondo le componenti “antiegualitarie” e “antiuniversalistiche”, anche per ragioni elettorali), e non hanno ancora trovato altre strutture della politica oltre lo stato nazionale; allo stesso tempo, queste alleanze tra democrazia nazionale e protesta anti-establishmente rischiano di mancare le loro promesse, perché è vero che i margini di azione dello stato nazionale sono ridotti. Le sinistre devono però almeno capire queste paure.
Brevemente @ Cucinotta e Abate
Anche senza esprimere giudizi di valore, e il riferimento alla sessualità repressa può essere preso come una battuta con un fondo di verità, mi riferivo al fatto che se comunque questa comunità è già una minoranza adesso, e in futuro pare lo diventerà ulteriormente, non sarà elettoralmente decisiva. Già in queste elezioni il dato decisivo pare sia stato l’astensione, i voti democratici che mancano all’appello. Questo per dire che circola l’idea a sinistra che se i proletari votano Trump allora ispiriamoci a lui. Per questo è bene mostrare che fra i voti di Trump quelli dei poveri e dei lavoratori sono una minoranza. Oltre al fatto che in ogni caso quella società sta andando verso un equilibrio etnico in senso di numeri.
Abate, io mi riferivo all’idea che è comune fra le persone di sinistra che il razzismo sia l’arma che usano i padroni per assoggettare il mondo e dividere la classe dei proletari. Mentre penso che il razzismo sia una forma più raffinata e culturalmente plasmata di quello che è l’egoismo umano, per cui il capitale non c’entra niente, si è inserito dopo alla peggio. Non so né se sia corretto né se sia già stato detto, però mi pare un po’ diverso da quello che mi dici tu, che pure mi interessa, visto che Fortini lo sto conoscendo a poco a poco. Per quanto in ogni caso Il tuo libro mi interessa. Non la parte sul comunismo, ma quella successiva che riassumi. Mi interessa proprio perché a naso mi pare che dica cose opposte a quelle che penso. Anche perché mi pare che citando Marcuse si ritorni al Marx che immagina l’uomo ancora da venire, liberato dalle catene. E così mi pare che non ci si discosti neanche da Pasolini. Io non sono per consumi crescenti, ma non vedo alcun problema nel consumare, e il resto dell’elenco che fai mi pare un ottimo modo di vivere. Perché invece per Pasolini, Fortini, Marcuse eccetera non va bene? Si può essere d’accordo sulla parte di benessere che è sfruttamento del mondo (anche qua però mi pare errata l’idea di sinistra per cui i poveri del mondo sono poveri a causa della nostra ricchezza), ma a me pare che sia il benessere borghese in sé che non gli va bene, e non lo capisco. Pasolini e Marcuse su questo hanno definitivamente sbroccato, e le loro opere sono ormai polvere intellettuale. Fortini cosa diceva?
https://hbr.org/2016/11/what-so-many-people-dont-get-about-the-u-s-working-class?utm_content=buffer50227&utm_medium=social&utm_source=facebook.com&utm_campaign=buffer
@ FF vs PPP
Buon articolo. Raccomando caldamente “Hillbilly Elegy” di J.D. Vance, un gran bel libro che spiega tante cose dell’America, e anche di questa elezione presidenziale.
@ M. Piras
Grazie per il suo commento, molto a proposito.
Condivido la sua affermazione che quanto viene sbrigativamente battezzato populismo è invece, nelle sue tendenza fondamentali, nazionalismo democratico. “E’ un’idea di democrazia, si sbaglia a etichettarla come “fascismo, autoritarismo ecc.”, anche se non è un’idea universalistica e inclusiva.”
Il fatto è che l’universalismo è una cosa sul piano delle idee e dei valori, tutt’altra cosa sul piano politico.
Sul piano politico, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perchè esistono solo quelle, nella realtà effettuale. Volendo, chi se ne sente all’altezza può parlare a nome dell’umanità; ma non può agire politicamente a nome dell’umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perchè l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico/avversario.
Senza nemico/avversario e senza conflitto non c’è alcun bisogno di politica, basta l’amministrazione: “la casalinga” può dirigere lo Stato, come Lenin diceva sarebbe accaduto nell’utopia comunista (in attesa del passaggio dalla preistoria, in cui c’è conflitto, alla storia in cui fiorisce l’accordo universale, via con la polizia segreta, le condanne degli oppositori per via amministrativa, il terrore di Stato).
A questa contraddizione insolubile si può sfuggire solo postulando come certo e autoevidente l’accordo universale, se non presente almeno futuro, di tutta l’umanità; il problemino è che l’accordo di tutta l’umanità non si dà effettualmente MAI. E’ da questo paradosso che vengono la superbia e l’accecamento ideologico della sinistra mondialista, che si sente in diritto e in dovere di parlare ed agire a nome dell’umanità (presente e/o futura), e si sbalordisce e scandalizza se gli altri (gli arretrati, i razzisti, i populisti, nazionalisti, etc.) avanzano obiezioni e non vedono quel che a loro sembra lampante e certo come che 2+2=4.
Chi agisce politicamente a nome dell’umanità agisce sempre, nella realtà effettuale, nel proprio parziale interesse, e lo erige a metro campione dell’appartenenza all’umanità. Colui che egli designa come avversario o nemico sarà dunque avversario o nemico dell’umanità. Si proclama così, in nome dell’umanità, una guerra di religione nella quale il nemico è un criminale o un eretico che deve convertirsi o perire, e al termine vittorioso della quale si darà, finalmente, l’accordo universale di tutti i superstiti.
L’universalismo come sistema di valori si può tradurre politicamente solo in uno Stato culturalmente omogeneo, nel quale esso sia effettivamente condiviso dalla quasi totalità dei cittadini. Nelle relazioni internazionali, l’unico criterio praticabile è il relativismo: ciascuna comunità organizzata sceglie i valori che le sono propri, ed entra in rapporto con le altre sulla base degli interessi, non dei valori. Se c’è comunanza di valori meglio, ma il criterio ordinatore è l’interesse, che dichiara apertamente la sua parzialità.
“Le sinistre non hanno niente di forte da opporre, perché non possono assumere quel discorso in toto”.
Le sinistre non hanno più niente di forte da opporre da quando (almeno nella loro componente maggioritaria e “sistemica”) hanno rinunciato ad una (forte) critica del capitalismo, oltreché alla conseguente lotta politica per contrapporvisi e costruire un’alternativa. Ecco perché ci troviamo nella situazione attuale, dove tutti i gatti sono bigi nella notte del generico riformismo.
Nazionalismo democratico? Pare la barzelletta del tutti ladri quindi nessun ladro ed in galera ci finiscono gli sparuti onesti, che agli occhi della ladra maggioranza sono i soli disonesti. O peggio pare la Russia di Putin. La saldatura fasci – trinariciuti e’ un’altra costante italiana, i trinariciuti italiani si sono sempre distinti in padroni (pochi veri e molti wannabe) e ladri / delatori (tantissimi), fino a Berlinguer avevano un popolo che infine ha capito l’andazzo e s’e’ svegliato, passando prima alla Lega di Bossi ed oggi astenuto, disperso e abbandonato. Ok che c’e’ tanta voglia di passare alle vie di fatto, ma le parole sono ancora importanti e l’ultimo residuo se non di concordia almeno di concordati.
https://www.thenation.com/article/hillary-clintons-popular-vote-victory-is-unprecedented-and-still-growing/
Se i democratici hanno in mente di contestare sul serio il risultato elettorale, gli USA vedranno “tempi interessanti”.
@ Buffagni
sì, quel libro sembra allettante, grazie.
Aggiungo quest’altro
http://www.ilpost.it/2016/11/16/rabbia-elettori-trump/
@ FF vs PPP
Prego. Qui un ampio riassunto di “Hillbilly Elegy”:
http://www.theamericanconservative.com/dreher/in-hillbilly-america-white-lives-matter/
E qui una lunga intervista all’autore:
http://www.theamericanconservative.com/dreher/trump-us-politics-poor-whites/
“Why am I harping on this?
I work in mental health. So far I have had two patients express Trump-related suicidal ideation. One of them ended up in the emergency room, although luckily both of them are now safe and well. I have heard secondhand of several more. ”
L’autore, qui pseudonimo, si chiama Scott Alexander, e non è un sostenitore di Trump.
http://slatestarcodex.com/2016/11/16/you-are-still-crying-wolf/
@FF vs. PPP
Scusami, ma è come se ti mancasse un dato, Trump ha vinto e quindi chi l’ha votato, tu dici il maschio bianco frustrato, è maggioranza e non credo che tra quattro anni sarà minoranza, non così velocemente.
La tua tesi sarebbe che se è così stronzo, non importa, aspetteremo che diventi minoranza?
Intanto, le cose non sono così meccaniche perchè il fattore demografico non è tutto, c’è la capacità di un gruppo comunque connotato di esprimere un’egemonia, e del resto gli ebrei in questo sono maestri, non hanno bisogno di essere così numerosi per influenzare profondamente i paesi in cui vivono. Non sarebbe più saggio se invece di lasciarli estinguere, ci si occupasse delle loro preoccupazioni?
In ogni caso, il fattore temporale è essenziale in politica.
Vedo poi che hai trascurato, come del resto anche gli altri, le altre due osservazioni, che mi sembravano pertinenti e mi pare molto importanti. Forse si potrebbero riprendere.
@ Cucinotta
ti faccio un esempio magari ingenuo: a me non piace lavorare, mi accontento di poco e la cosa per cui spendo di più sono i libri. Ci sono altri che sono intraprendenti, hanno un sacco di idee, fanno impresa, usano le scoperte tecnologiche eccetera. per me non c’è nessun problema se questi guadagnano di più. Se lo meritano e ci guadagno io in termini di condizioni di vita. il problema è a quali condizioni lavorano i loro dipendenti. Prendiamo Amazon. La risposta marxista è occupazione della fabbrica, rivoluzione proletaria eccetera. Buona fortuna… Io più ingenuamente penso che a) i cittadini consumatori responsabili devono cominciare a porsi il problema dei loro consumi b) i lavoratori non devono accettare di lavorare in certe condizioni e con certi salari. Io se apre Amazon dalle mie parti non mi presento e su Amazon ci ho comprato tre volte in dieci anni. Se tutti facessero come me non ci sarebbe nessun problema, le persone devono re-imparare ad agire di comune accordo, ma non come un tempo con l’idea di espropriare e imporre una volontà per tutti. Non ci piace Amazon, facciamole noi le imprese. Invece che pensare al conflitto di classe, pensiamo al conflitto tra consumatori e lavoratori, dato che sono le stesse persone. Tutti si lamentano dei negozietti cinesi e poi ci vanno a fare acquisti. Se i lavoratori in Bangladesh stanno male la colpa è dei capitalisti cattivi o di noi che compriamo le magliette da H&M a 10 euro? E qui non ci stanno neanche i nazisti che ti obbligano, qui non c’è nessuno che ci costringe. Quando c’è stato il passaggio all’agricoltura stanziale nessuno ha deciso la cosa. Poco a poco tutti hanno seguito il corso, e da quello che si sa non c’era nessuna ragione per farlo, il cibo era sufficiente per il numero di umani del tempo, e più vario e disponibile con minor ricerca. Ogni tanto si produce uno strappo, le cose cambiano e quelli che hanno una posizione migliore e la caparbietà di tenerla, si fanno strada.
Ma una cosa è ciò che ciascuno di noi pensa, ed un’altra è ciò che realmente avviene. Se sei d’accordo con me che gli uomini non sono liberi e razionali, non dovresti poi meravigliare che essi comprino ciò che costa di meno ed addirittura comprino merce di cui non hanno neanche bisogno. L’uomo è fatto così, e se vogliamo agire come esseri politici, dobbiamo confrontarci con gli uomini così come effettivamente sono e non come vorremmo che fossero. Che le persone si facciano condizionare senza bisogno di avere puntata un’arma alle spalle, lo dovresti trovare anche tu un fatto straordinariamente importante, non vedo alcun vantaggio a nasconderlo sotto il tappeto.
SEGNALAZIONE
Per un populismo democratico
http://www.senso-comune.it/
*« Tramontata l’idea di classe come dato di natura» (!) arrivano i “populisti democratici” che vogliono costruire una «società decente». Non mi convincono, ma discutiamone.
Stralci:
1.
il disagio sociale si esprime perlopiù attraverso forme, simboli ed organizzazioni estranee alla sinistra, e che qualsiasi insistenza su quel repertorio non farebbe altro che permettere alle classi dirigenti di collocarci in un luogo a loro congeniale, in quanto di facile neutralizzazione. In altre parole, la creazione di una nuova volontà popolare che tenga insieme una maggioranza sociale maltrattata dalle classi dirigenti deve essere capace di parlare delle diverse situazioni e dei diversi contesti dell’oppressione, cercando di amalgamare settori che al momento differiscono in maniera sostanziale sotto il profilo ideologico, sociologico e antropologico. La costruzione di un nuovo soggetto potrà procedere solo negativamente, cioè attraverso la costituzione di frontiere politiche che strutturino in maniera inequivocabile le relazioni tra diversi agenti sociali e semplifichino lo spazio politico. Il dispiegamento dell’antagonismo, la proiezione cioè di un avversario comune a questa maggioranza maltrattata, è quindi momento fondante che dota un progetto politico di senso e significato. Chiamiamo questo tipo di creazione politica populismo. Al contrario dell’uso convenzionale quindi, per noi il populismo non è sinonimo di demagogia o autoritarismo. Siamo infatti fermamente convinti che il populismo non delinei né una patologia politica né un’ideologia, ma consista piuttosto in una logica costitutiva della politica attraverso la quale diversi progetti competono per egemonizzare il campo sociale.
2.
In altri contesti tuttavia, il ruolo aggregatore può essere svolto da una persona, il leader, nel quale si cristallizzano le domande democratiche frustrate. Va qui rotto un tabù caro ai razionalisti di sinistra: le identità collettive non sono il frutto immediato del discernimento oggettivo dei propri interessi, bensì processi mediati e contingenti, dettati in larga misura dalla capacità di mobilitazione degli investimenti passionali. Che sia un leader o una domanda che promette pienezza sociale, è importante riconoscere i limiti del sapere e afferrare la produttività sociale di cui i simboli e i miti sono dotati. Il leader può essere in questo senso uno strumento importante per generare degli affetti politici tali da scardinare inerzie altrimenti inamovibili e che il semplice ragionamento non è capace di intaccare. La nascita di un leader non deve quindi essere vista come un fenomeno necessariamente narcisistico o dispotico: nella misura in cui condivide tratti con coloro che lo seguono, l’incontro avverrà a metà strada, rendendolo un primo fra pari capace di tenere insieme domande eterogenee. Un Cesare democratico, in altri termini, che sappia ripoliticizzare tutti i diversi tipi di oppressione di cui soffrono i subalterni e che le oligarchie vogliono spacciare per naturali.
3.
In tal senso crediamo infatti che il mantra secondo cui gli Stati sono stati interamente fagocitati dai mercati non sia accurato. La riprova è data proprio dal fallimento del capitalismo finanziario informatizzato che, nell’autunno del 2008, è stato costretto a ricorrere al massiccio intervento dello Stato per salvarsi dalla catastrofe. Lo Stato si è quindi dimostrato decisivo quando il capitalismo finanziario ne ha avuto bisogno. L’apparato statale rappresenta in tale contesto una forma di assicurazione di ultima istanza alle conseguenze più nefaste del libero gioco dei mercati. È proprio per questo che la finanza ha sempre maggior bisogno di controllare la politica e assicurarsi che gli inquilini dei palazzi presidenziali non mettano i bastoni tra le ruote. In realtà quindi, lo Stato detiene ancora una serie di strumenti fondamentali che, se attivati intelligentemente, possono incidere in maniera sostanziale sulla realtà socio-economica. Questo non vuol dire che gli sviluppi politici ed economici degli ultimi 40 anni non abbiano prodotto un’importante riduzione delle capacità statali di regolamentazione, controllo e assegnazione delle risorse. Lo Stato-nazione non è morto, ma è certamente molto diverso rispetto a quello di una volta. Tant’è vero che gli Stati sono oggigiorno costretti ad agire in rete, ovvero sia a creare una serie di rapporti tra Stati e con una pluralità di attori sovra- e sub-nazionali, tanto pubblici come privati. L’analisi dello Stato pertanto non può prescindere dall’analisi dell’insieme dei nodi e dal groviglio di interazioni in cui le istituzioni statali sono coinvolte.
Questo ragionamento ci porta a pensare che le trasformazioni più profonde possano avvenire solo quando determinate reti sono opposte ad altre reti. La creazione di una nuova rete va intesa in tutti i sensi possibili. Da una parte, si tratta di forgiare alleanze internazionali tra attori statali sulla stessa lunghezza d’onda per creare spazi di alternativa più ampi e per accrescere l’incisività delle politiche anti-austerity. Questa possibilità è però resa difficile dalle diverse velocità a cui viaggiano i diversi dibattiti nazionali e dalle tempistiche con cui prendono luogo (se lo fanno) i processi di cambiamento. L’isolamento della Grecia nell’estate del 2015 è stato emblematico. Tuttavia, quello della Grecia è un caso limite, dato dall’esiguità della sua economia e dall’indisponibilità di liquidità per far fronte nel breve periodo a scelte più radicali. Crediamo invece che l’Italia, per quanto non immune da condizionamenti esterni, sia in una posizione migliore per poter implementare delle politiche ispirate dal senso comune. Il grado di audacia di queste politiche è dato dall’altro senso in cui la parola rete è qui inteso. Si tratta infatti della capacità di stabilire una profonda connessione con una pluralità di attori sociali a cui abbiamo già fatto riferimento. Nella misura in cui la proposta di cambiamento è accompagnata dal consolidamento di un nuovo blocco storico, questa potrà essere di maggiore portata. In altre parole, il potere statale deve essere alimentato dal combustibile di un radicamento popolare profondo e da una mobilitazione il più larga possibile.
Questa mobilitazione non potrà però avvenire sulla base di un generico richiamo all’europeismo o un’ acritica difesa dei processi di integrazione europea. Non è una questione di cedere a tentazioni sciovinistiche o rossobrune. Siamo semplicemente persuasi che l’Unione Europea sia un progetto oligarchico troppo sedimentato per poter essere “democratizzato” attraverso un movimento di opinione che manca di un vero e proprio luogo politico in cui poter farsi valere. L’Europa rimane un riferimento privilegiato, ma è un piano che va ricostruito su linee diverse da quelle attuali. L’Europa dei mercati va infatti sostituita da un’ Europa dei popoli e della solidarietà che rimetta al centro la questione sociale. Con questa prospettiva internazionalista in mente, è bene partire dal livello minimo in cui l’aggregazione è più naturale e il suo impatto acquista efficacia. Nessun vero internazionalismo può infatti ignorare o appianare la questione nazionale. D’altro canto, il processo di costituzione delle identità politiche segue perlopiù binari nazionali, dettato com’è da differenze culturali e linguistiche ancora molto profonde. In questo contesto, la rivendicazione di nozioni come sovranità e patria vuol dire disputare nozioni egemoniche al proprio avversario e declinarle in termini di maggior democrazia. D’altronde, sarebbe miope non capire che questi significanti traggono linfa da esperienze di umiliazione e sofferenza sociale reali, che comportano per la gente comune una perdita di controllo sui propri destini e i propri territori. L’importante è far capire che i migliori modi per recuperare la sovranità e per incarnare l’amor patrio non passano per l’esclusione degli stranieri o un ritorno a una concezione chiusa e ingenua dello Stato-nazione, bensì sviluppando una politica volta a restituire senso alle istituzioni democratiche e sottrarre le decisioni che contano a banche d’investimento e società per azioni.
P.s.
Appena possibile rispondo a FF vs PPP
“Manifesto per un populismo democratico”
E’ un primo passo molto interessante, ma rilevo la mancanza di due temi fondamentali: 1) designazione del nemico principale: le destre populiste sono avversari all’interno del medesimo campo del “populismo democratico”, o nemici? 2) il problema immigrazione di massa brilla per la sua totale assenza.
Coraggio, encore un effort.
SEGNALAZIONE
Il rischio del “frontismo” e una svolta nella comunicazione politica: intervista a Carlo Formenti sul voto Usa
(dalla bacheca di Carlo Formenti:
http://radionew.infoaut.org/index.php/blog/approfondimenti/item/17875-il-rischio-del-frontismo-e-una-svolta-nella-comunicazione-politica-intervista-a-carlo-formenti-sul-voto-usa
Stralci:
1.
Inoltre bisogna prendere atto che i giornali non li legge più nessuno, o comunque sempre meno gente si informa attraverso la carta stampata..ci sono anche le testate online, è vero, ma queste a loro volta sono lette poco e usate più come materia prima per rafforzare la propria opinione in un dibattito che come elemento di formazione originario. Anche la tv in fondo ha un impatto decrescente, poiché con il passaggio al digitale non ci sono più pochi emittenti ma c’è una pletora di canali e di trasmissioni, con la concorrenza che ne deriva..ciò ha cambiato anche lo stile di comunicazione, dei tg, dei talk show rispetto a quanto avevamo visto fino ad ora..
E’ cambiata profondamente la dieta mediatica e ciò ha portato ad enormi difficoltà di misurazione. La gente si serve dei vari media in modo idiosincratico, prendendo un po qua e un po là, e cìò a mio modo di vedere riapre – per chi fa politica dal basso – spazi notevoli di comunicazione soprattutto fisici, di faccia a faccia. Chi riesce in qualche modo a prendersi la piazza, a tenerla, a essere presente nei quartieri nei luoghi di lavoro, nei bar, chi riesce a comunicare in modo trasversale scambi di idee e emozioni ha un potenziale molto importante.
Questo ad esempio è stato alla base del successo di Cinque Stelle e Podemos. Se guardiamo nel concreto delle cose, internet ha pesato molto meno di quanto sembra rispetto a quanto hanno spostato i comizi di Grillo, la loro capacità di mobilitazione, nell’esplosione del fenomeno grillino. Insomma sta cambiando un po’ tutto, c’è un paradossale ritorno a forme di comunicazione e mobilitazione classiche, tradizionali, che si ripropongono mutate ma sono comunque capaci di sfidare l’establishment della comunicazione.
2.
Si riapre però dall’altra parte tutto uno spazio di rapporti di forza, di margini di trattativa, di un ruolo, a mio modo soprattutto nell’ambito del lavoro per quel movimento sindacale che sarà ancora capace di avere un atteggiamento conflittuale e di arrivare alla trattativa attraverso la lotta. Un altro aspetto da sottolineare per me è che laddove la variante populista, come l’ho chiamata nel titolo del mio ultimo libro, assume connotati e esiti di destra, la capacità delle elites finanziarie globali di riassorbirla è molto alta. Faranno letteralmente di tutto per riuscire in questo passaggio. Già la prime dichiarazioni di Trump – che su alcuni temi soprattutto economici in campagna elettorale sembrava quasi indistinguibile da Sanders – sembrano nella direzione di voler attenuare quanto promesso in campagna elettorale: si occhieggia ai primi esperti di Goldman Sachs ad esempio..insomma, chi vince nella dimensione populista di destra poi si vede presentare il conto, non è in grado di fare ciò che vuole come gli pare.
La cosa su cui bisogna stare molto attenti, secondo me è come si ci si muove a sinistra nel nuovo scenario cosi magmatico e contraddittorio. La cosa che va evitata come la peste, e che ho già visto emergere da giornali come Manifesto e in alcuni commenti circolati in rete, è rispondere con un riflesso frontista, che grida “Aiuto aiuto arriva il fascismo”. Se la minaccia principale è quella fascista, ne è conseguenza che ci si può alleare con i “democratici” per impedire che questo succeda..cioè passare ulteriormente dalla parte sbagliata della barricata.
C’è quindi un doppio rischio di rivoluzione passiva, per dirla con Gramsci: da un lato l’integrazione del populismo di destra nella logica sistemica, dall’altro l’assorbimento della “sinistra radicale” all’interno di una coalizione a difesa delle istituzioni a fronte di un presunto pericolo fascista, che all’oggi è davvero immaginario per quello che possiamo vedere. La storia non si ripete uguale a sé stessa, per dirla con Mao oggi il nemico principale non è certo il ritorno del fascismo, per modo di produzione e rapporti di forza interni anche alle stesse elites un passaggio di questo tipo non è pensabile. Bisogna stare attenti invece a questo passaggio di fase, sfruttare le contraddizioni del nemico per fare i nostri interessi di classe; non certo mobilitarci a difesa di un interesse generale, a una difesa di una “democrazia”, la quale non mi sembra sia stata in grado di assicurarci molto negli ultimi decenni.
Non so, leggerò con più attenzione questo testo che però ha uno stile arzigogolato, provenienza certa da una sinistra d’antan.
Molto più banalmente, io osservavo le reazioni di quell’ammasso politico che finge di essere articolato in socialdemocrazia e partiti popolari, ma che in realtà è compattissimo al proprio interno, di contestazione aperta delle votazioni per il BREXIT e nel caso dell’elezione di Trump,
Pensavo quindi che se costoro hanno questo atteggiamento così critico verso il voto del popolo, con discorsi mirati perfino alla non accettazione delle votazioni ed alla invocazione di un meccansimo di selezione degli elettori, oggi l’atteggiamento veramente eversivo sta nel rivendicare il suffragio universale, nel farne anzi il centro della propria azione politica. Ricordo che Scalfari si è spinto fino al punto di definire la democrazia come una forma di oligarchia.
Se l’estasblishment che ha sfruttato per decenni a proprio vantaggio l’ordinamento democratico, manipolandolo in modo da vanificarlo appropriandosi del potere reale, oggi si trova costretto perfino a contestare il meccanismo democratico basilare, allora è questo oggi il punto di resistenza da cui ripartire.
E visto poi che il termine “populista” è stato da costoro scelto per designare spregiativamente chi si oppone a questo sistema che ha parassitato la democrazia, allora diciamoci tutti populisti, definendo così il movimento che lotta per il suffragio universale, e di conseguenza per l’attuazione effettiva della democrazia.
Verifico con piacere che contemporaneamente ed autonomamente da me, altri rivendicano questo termine così tanto bistrattato dai media.
Sarà possibile e necessario presto ridefinire con contenuti ben più robusti questo populismo o populismo democratico, espressione probabilmente preferibile, ma oggi la comune opposizione alle oligarchie venute ormai per disperazione allo scoperto, costituisce a mio parere il passo giusto, seppure ancora solo il primo.
Una delle sfaccettature, forse quella che le raccoglie ed include tutte o quasi, èquella che viene fuori dal non detto del caso Moro che viene affrontato qui: https://twitter.com/cypherinfo/status/800101746097819648
Scrive Formenti: “oggi il nemico principale non è certo il ritorno del fascismo”
Gli do più che ragione.
Però Formenti omette di designarlo, il nemico principale, e se non designi il nemico principale non puoi agire politicamente.
Formenti invece si rifugia in una supercazzola: “Bisogna stare attenti invece a questo passaggio di fase, sfruttare le contraddizioni del nemico per fare i nostri interessi di classe; non certo mobilitarci a difesa di un interesse generale, a una difesa di una “democrazia”, la quale non mi sembra sia stata in grado di assicurarci molto negli ultimi decenni.”
Insomma, chi è ‘sto nemico principale? Faccio notare che di nemico principale ce ne può essere uno solo.
Se sei in USA, il tuo nemico principale può essere o Trump (il populismo/nazionalismo) o la Clinton (il mondialismo).
Se sei in Europa, il tuo nemico principale possono essere le forze nazionaliste/populiste antiUE, oppure le forze mondialiste proUE. All’interno dei due campi ci possono essere infinite sfumature di intenzioni politiche, ma i campi possono essere solo due.
Il problema di Formenti e delle sinistre critiche in generale è che vorrebbero designare (correttamente, a mio avviso) come nemico principale le forze mondialiste; solo che temono di essere accusati (a ragione) “di fare il gioco delle destre”, perchè le forze antimondialiste sono quasi tutte a destra.
Così si condannano a marciare sul posto e a non combinare niente di serio. Comprensibile, ma disastroso.
Ok sul dividere i campi d’Occidente in nazionalismi/populismi vs mondialismo, con i primi riemersi a causa della forte compressione dei nativi bianchi locali appartenenti ai ceti medi e medio-bassi agita dalla globalizzazione neoliberale. Il discorso si riaggancia qui su LPLC anche alle difese del Liceo Classico e della letteratura/poesia in lingua indigena, ma non vedo in Italia referenti diversi dalle destre estreme od occulte, per chi volesse passare dal pensiero ad una pressione lobbystica effettiva. Auguri.
Il punto della questione mi pare questo: che il conflitto principale oggi in corso nel mondo NON è lo scontro tra Capitale e Lavoro, per la semplice ragione che questo scontro è già avvenuto, il Lavoro ha rovinosamente perduto (si è suicidata la sua base di potenza, l’URSS) e il Capitale ha trionfalmente vinto. La contraddizione resta perchè è permanente, ma oggi è politicamente inattiva. Tra Capitale e Lavoro, fino a data da destinarsi, c’è pace, una pace cartaginese o tacitiana (“fanno un deserto e lo chiamano pace”, nel ‘De Germania’).
Oggi lo scontro principale nel mondo è tra globalismo e nazionalismo, che è uno scontro fra campi interclassisti, perchè in entrambi gli schieramenti sono compresenti settori di Capitale e settori di Lavoro. La posta in gioco dello scontro sono gli Stati (chi li controlla, e a quale fine li usa).
Se il Lavoro non si schiera con il nazionalismo, non ha speranza alcuna di riaprire la partita con il Capitale, perchè l’unica potenza in grado di opporsi validamente al Capitale sono proprio gli Stati nazionali, democratici o cesaristici che siano.
Roberto Buffagni10:39
Del massimo interesse questa intervista a Steve Bannon, ora “consigliere strategico” di Trump, prima direttore della sua campagna elettorale (è subentrato nel momento più difficile), proprietario del sito Breitbart News.
“”I’m not a white nationalist, I’m a nationalist. I’m an economic nationalist,” he tells me. “The globalists gutted the American working class and created a middle class in Asia. The issue now is about Americans looking to not get f—ed over. If we deliver” — by “we” he means the Trump White House — “we’ll get 60 percent of the white vote, and 40 percent of the black and Hispanic vote and we’ll govern for 50 years. That’s what the Democrats missed. They were talking to these people with companies with a $9 billion market cap employing nine people. It’s not reality. They lost sight of what the world is about.” Il titolo dell’intervista è tratto da una frase di Bannon, che evidentemente sa bene in che gioco si è messo: Thomas Cromwell, primo ministro figlio di nessuno, odiatissimo dai Pari d’Inghilterra, è stato arrestato in piena riunione del Consiglio della Corona dai suoi colleghi ministri e fatto fuori. In bocca al lupo a lui.
http://www.dedefensa.org/article/un-neo-jacksonien-a-la-cour-des-tudors
@ FF vs PPP 15 novembre 2016 a 13:45
1.
Preciso che ho copiato nel commento un brano di un mio saggio, presente assieme a quelli di vari autori (Partesana, Zinato, Grendene, Carosso, Gambaro, La Monica, Daino) nel libro «Come ci siamo allontanati. Ragionamenti su Franco Fortini». Sì, la pensiamo diversamente ma non tanto da rendere vano, spero, il confronto.
2.
Razzismo. Non so quanta raffinatezza culturale ci sia nel razzismo e farlo risalire, come tu fai, ad un generico, individuale (mi pare di capire da quel che scrivi) e naturale sentimento (l’«egoismo umano») cancella o mette troppo in ombra il suo aspetto sociale, storico e attuale, che è la vera questione che divide. Scrivi infatti: «Il capitale non c’entra niente, si è inserito dopo alla peggio». No, non sono d’accordo. Se vuoi approfondire la discussione su questo tema anche in altra sede (potresti scrivermi a poliscritture@gmail.com), ti rimanderei alla lettura di questo saggio: “La razza al lavoro. Rileggere il razzismo, ripensare l’antirazzismo in Italia” di Anna Curcio e Miguel Mellino http://www.commonware.org/index.php/gallery/221-rileggere-il-razzismo, dal quale stralcio tre passi significativi:
a.
razzializzazione sta a significare gli effetti materiali dell’intersecazione del capitale con i discorsi occidentali della razza, sia sugli spazi e le strutture sociali che sui corpi e le soggettività di genere. Più precisamente, per razzializzazione intendiamo l’effetto sul tessuto sociale di una molteplicità di discorsi e di pratiche, istituzionali e non, orientati a una costruzione, a una rappresentazione, gerarchicamente connotata delle differenze (“fisiche” e “culturali”, “reali” ed “immaginarie”) tra i diversi gruppi e soggetti e quindi al disciplinamento dei loro effettivi rapporti materiali e intersoggettivi. Detto in parole semplici, il concetto di “razzializzazione”, in quanto saturo dell’eredità coloniale e imperiale della nozione di “razza”, sembra più adatto di altri con connotati più neutri (per esempio “etnicizzazione”) a descrivere in modo efficace i processi di essenzializzazione, discriminazione, inferiorizzazione e segregazione economica e culturale, ovvero di violenza materiale e simbolica, a cui vengono sottoposti attualmente nello spazio sociale italiano ed europeo i soggetti appartenenti a determinati gruppi. Tuttavia, occorre precisare, la razzializzazione non riguarda soltanto i soggetti inferiorizzati: ma attraversa l’intero corpo sociale e quindi ogni soggettività.»
b.
Per essere assolutamente chiari, attraverso l’uso del termine razzializzazione non intendiamo affatto legittimare l’esistenza di razze e tanto meno promuovere l’idea di razza come concetto identitario. A partire da quanto sostiene Frantz Fanon sui processi di razzializzazione in “Pelle nera. Maschere bianche” ciò che si vuole sottolineare è proprio il contrario: anche se le razze non esistono, ovvero non si tratta che di mere rappresentazioni o costruzioni ideologiche-culturali finalizzate al dominio dei gruppi inferiorizzati, e nonostante la definitiva sconfitta e delegittimazione scientifica dell’idea biologicista di razza avvenuta con la fine della Seconda Guerra Mondiale, siamo ancora alle prese con gli effetti simbolici, psicologici e materiali della sua secolare e tragica storia sul tessuto sociale. Tra questi effetti vi è sicuramente l’istituzione discorsiva dell’immigrazione come “problema”, così come la produzione “giuridica” e “culturale” – da parte dei diversi dispositivi del regime di controllo delle migrazioni – di certi gruppi e soggetti come più (in)desiderabili o (culturalmente) pericolosi di altri, nonché di certi lavori come più adatti a certi gruppi che non ad altri. La violenza materiale del vecchio discorso della razza riverbera dunque anche nel tentativo di ridurre legalmente e socialmente certi soggetti a mere “braccia da lavoro” o a potenziali “nemici pubblici”, vale a dire nella costruzione-istituzione di “tipi” socioculturali determinati la cui semplice presenza, se non controllata, viene percepita come una potenziale minaccia (degenerativa) alla presunta organicità della società e alla stessa produttività del corpo sociale. È così che razza e razzismi vengono a costituirsi come supplementi necessari degli altri comuni nocivi: famiglia, impresa, nazione. Ma il vecchio discorso della razza riverbera anche in luoghi forse meno “sospetti”: nella governamentalizzazione di un’economia di gestione degli effetti delle migrazioni sul tessuto sociale. Questa governance delle migrazioni, affidata ad associazioni, ONG, cooperative, imprese “no-profit”, mediatori culturali e altre emanazioni di quello che l’economista Kalyan Sanyal ha chiamato «economia del bisogno», oltreché costituirsi come il semplice “rovescio” o “volto umano” del razzismo istituzionale (e come un potente serbatoio di clientele e prebende politiche ed economiche), appare fondata su una concezione “paternalistica” dei migranti, sulla loro perpetua “vittimizzazione” od “oggettivazione” in quanto meri “corpi” (da reprimere, tutelare, aiutare, ecc.).
c.
Come sottolineato da diversi autori, il discorso della razza si è costituito all’interno di rapporti sociali storici specifici e ha avuto nelle colonie e nelle piantagioni il suo principale campo di sperimentazione. Si tratta dunque di un discorso di supremazia esclusivamente moderno e occidentale e non dell’esternazione di un semplice istinto naturale presente in ogni società e in ogni epoca. Come si vedrà, non è un caso se il capitalismo e il concetto di razza sono nati quasi contemporaneamente: diverse genealogie, infatti, concordano nell’attribuire l’ingresso di questo vocabolo nelle lingue europee nel XVI secolo. Da quel momento in poi, sono divenuti due fenomeni talmente intrecciati e interdipendenti che appare difficile pensare l’uno senza l’altro: il loro destino (morte o sopravvivenza) sembra essere comune. Da queste premesse, si può desumere che il discorso della razza deve essere visto come un processo: come un campo di tensione instabile, mutevole e sempre aperto capace di produrre al contempo sia forme di asservimento di un gruppo sociale da parte di un altro che spazi politici di resistenza. La razza, dunque, emerge sempre all’interno di questo doppio spazio: di dominio e al contempo di antagonismo e mobilitazione politica.
Credo che si possa riscontrare, almeno in Italia, una sorta di filo rosso che vede svilupparsi, anche con il raccordo con tendenze simili in Paesi esteri, un egemonia (intesa come la intendeva Gramsci) che ruota intorno al neopatrimonialismo. Almeno da Dante ai giorni nostri.
Prospettive di uscita secondo il mio modesto avviso sono nell’attuazione in ogni ambito dirigenziale sia pubblico che privato della trasparenza e del controllo del suo operato dal basso con metodi che università come Stanford stanno intelligentemente divulgando con corsi anche online come questo: Technology for Accountability Lab, English: https://lagunita.stanford.edu/courses/course-v1:FSI+TFALab16+Summer2016/courseware/3f99b1a36d394153b3895ba213a0bbba/
@ Buffagni
Diffido al contempo del mondialismo (brutta copia dell’universalismo) e del nazionalismo ( che nella sua storia ha mostrato la stessa propensione all’imperialismo del primo). E pure delle forme culturali a cui di solito si associano: buonismo, cattivismo. « Se non designi il nemico principale non puoi agire politicamente». Può darsi. Ma non sempre è possibile l’azione politica. E non è che designando un nemico (magari in fretta o visceralmente), l’azione politica risulti produttiva. Vi sono situazioni, come questa post-novecentesca, molto ingarbugliate e la tentazione di semplificare può essere dannosa. Se poi « il Capitale ha trionfalmente vinto» (e su questo concordo, anche se il vincitore non mi pare stia tanto bene) e la sua contraddizione con il Lavoro «oggi è politicamente inattiva» (meglio: non è più rappresentata politicamente dalla “ sinistra” o da movimenti “antagonisti”) sopratttuto nel cosiddetto mondo della “post-verità”, riorganizzarsi è ancora più difficile. Specie per un certo tipo di forze anticapitalistiche che sono costrette a muoversi più nelle condizioni di Madre Courage che in quelle di un Lenin con alle spalle una teoria e un’”avanguardia rivoluzionaria”.
Secondo me, la vittoria di Trump incoraggerà in Europa spinte nazionaliste e isolazioniste che si rivestiranno di un *anticapitalismo di facciata*. Già si vedono scomparire gli impeccabili e volenterosi discorsi elaborati ultimi anni sulla necessità che miravano a “oltrepassare” Destra e Sinistra per cercare (supponevo ingenuamente io…) qualche via “nuova”. E si sta ritornando al “richiamo della foresta” ( Ur-fascismo da una parte; “Grande illusione” da demonizzare ora dall’altra) e, dunque, alla rigida contrapposizione consueta. (Come fai tu pure, ad esempio, accusando Formenti e le sinistre critiche di non decidersi a indicare «come nemico principale le forze mondialiste » per il solo timore di «“di fare il gioco delle destre”» e ti dici convinto che in sostanza « le forze antimondialiste sono quasi tutte a destra»).
Ho molti dubbi sul fatto che lo scontro (decisivo? inevitabile? ) sia tra «nazionalismi/populismi vs mondialismo» e che esso abbia del tutto sostituito «lo scontro tra Capitale e Lavoro». E se covasse sotto le ceneri? La caduta dell’URSS o la fine (palese) del “socialismo reale” hanno dimostrato soltanto che l’URSS fu quasi da subito (dopo Lenin, secondo me) la “tomba del socialismo” non la sua culla o la sua «base di potenza». E il disastro avvenne proprio dal fatto che il Lavoro si schierò con il nazionalismo (stalinista ad est, nazista e fascista in Europa). Che è quello che tu riproponi: «Se il Lavoro non si schiera con il nazionalismo, non ha speranza alcuna di riaprire la partita con il Capitale». E in una situazione ancora più pesante per il Lavoro, che appunto oggi non ha più rappresentanza politica. Di come poi sia andato lo «scontro fra campi interclassisti» qualcosa sappiamo dalla storia del Novecento. E non mi pare si sia mai visto che il Lavoro, quando si è schierato con il nazionalismo (socialdemocratico o cesarista), sia stato in grado di «riaprire la partita con il Capitale» . Il Lavoro, oggi sconfitto e subordinato secondo me non deve cercare tutele nazionali o neonazionali specie in un momento in cui le forze *ambiguamente* anticapitaliste (Le Pen, Salvini) non fanno che erigere muri e usare l’esercito contro i movimenti che a volte ancora attraversano l’Europa. Non fanno cioè che riaffermare la differenza e spesso l’esclusione per tutti coloro che, sotto l’aspetto del suolo o sotto l’aspetto del sangue, non fanno parte della nazione sacralizzata.
Non so se si possa ricostruire un * nuovo internazionalismo* o un *alteromindismo*, come auspicano Negri e Assennato in uno scritto da cui stralcio questo passo:
« Si è detto che siamo in una fase caratterizzata da una stagnazione secolare e, con tutta probabilità, dalla fine degli equilibri imperiali affermatisi dopo la caduta del Muro. Non sappiamo se lo scontro tra Occidente e Oriente possa ricostruirsi in uno schema che, per i più reazionari (repubblicani americani, nazionalisti russi ecc.), vorrebbe ripetere quello di una guerra fredda. Il mondo è ormai globalizzato e lo schema “guerra fredda” ci pare irripetibile. Solo una guerra “calda” riuscirebbe a spezzare il legame che stringe gli attori dell’ordine globale
Se non è una “grande guerra” che distruggerebbe il mondo, saranno molte “piccole guerre diffuse” che produrranno un assetto internazionale basato su aree relativamente omogenee (Cina, Europa, America Latina, USA, Russia). È questo il quadro verso il quale stiamo probabilmente andando. Nessuno di questi esiti è desiderabile. Contro questi orizzonti dobbiamo costruire un nuovo internazionalismo – meglio: ricostruire un alter-mondialismo – che unisca le lotte contro la nazione sovrana, quella per la pace e i conflitti contro il capitale finanziario» (http://www.euronomade.info/?p=5910)
Resta però il fatto che proteggere le verità della propria storia a me pare meglio che rileggerla con occhiali altrui.
Caro Abate,
grazie della replica. Rispondo per punti.
1) L’azione politica non è obbligatoria. Ci sono tante cose da fare nella vita, oltre la politica. E’ vero che a volte l’azione politica DEGLI ALTRI ti costringe a reagire facendo politica anche tu: per esempio quando qualcun altro designa te, come nemico. Ma tranne questi casi, si può evitare e si vive anche meglio.
2) Dunque non è affatto indispensabile designare il nemico principale, e si può tranquillamente diffidare di entrambi i campi in conflitto, criticarli con durezza, etc. Anzi di solito ci si imbrocca, perchè in entrambi i campi in conflitto c’è il meglio e c’è il peggio, e più spesso il peggio, come quasi sempre nella vita, purtroppo.
3) Se invece uno decide di farla, l’azione politica, o se è obbligato a farla, la designazione del nemico principale è il primo, primissimo passo da compiere. Gli amici, piacciano o meno, sono quelli che hanno designato lo stesso nemico che hai designato tu (non si scelgono). Certo bisogna prenderci, quando si designa il nemico. Se non vado errato anche Lenin era d’accordo.
4) Io la mia lettura della situazione e dei due campi l’ho data. Insomma, ci ho provato. Spero di averci preso, non posso esserne sicuro (si è sicuri solo DOPO, quando è troppo tardi).
5) Non sono marxista, non sono comunista (sono anticomunista, o meglio lo sarei se ci fosse il comunismo, che NON c’è più). Sempre secondo me, il comunismo è un’impresa e un’idea radicalmente sbagliata, che non solo non si realizzerà mai, ma che quando ci si prova, realizza soprattutto disastri epocali.
Rilevo però che il movimento comunista ha funzionato (ha ottenuto risultati concreti, ha combinato qualcosa di solido, insomma ha vinto) quando si è alleato, apertis verbis o no, con il nazionalismo: “socialismo in un solo Paese” (Stalin) e lotte antimperialistiche. Per il resto, ha fatto discorsi (a volte molto belli) e danni (a volte molto brutti). Forse, da questo fatto qualche insegnamento si può trarre.
6) Preciso che a me lo stalinismo non è che piacesse tanto, se non altro perchè Stalin mi avrebbe fatto fare una gran brutta fine. Però lo stalinismo cattivo è rimasto in piedi e ha vinto la IIGM, il comunismo buono e le varie eresie comuniste, no.
7) Aggiungo che una volta sparita l’URSS stalinista cattiva, è sparito il movimento comunista mondiale, tutto, cattivo e buono. Tra questi due eventi un rapporto direi che c’è. Secondo me il rapporto è questo: che quando sparisce il centro, spariscono anche le periferie; quando sparisce l’istituzione ortodossa, anche le eresie se ne vanno all’altro mondo. Sparito il “comunismo realmente esistente” cattivo è sparito anche il comunismo sperato, immaginato, poetico, eretico, buono, eccetera, da Benjamin a Fortini etc. E’ come quelli che dicono che “il vero cristianesimo” buono è quello fino alla Croce, dopo c’è solo Costantino cattivo, la politica brutta, la distorsione mondana, etc. Magari è così, ma se spariscono le Chiese istituzionali realmente esistenti, compromesse con il potere, corrotte, cattive, etc,. etc., sparisce dal mondo anche il cristianesimo buono, compreso “il vero cristianesimo dei primissimi tempi” (salvo interventi diretti dei Piani Superiori che almeno nel caso del comunismo non è logico preventivare).
8) Per riassumere, secondo me lei confonde i suoi desideri e le sue speranze con la realtà. Il comunismo quello, è (stato). E non è una religione trascendente, è una dottrina politica: non c’è la scappatoia di appellarsi alla “Chiesa trionfante” quando la “Chiesa militante” delude. O meglio, la scappatoia c’è: ma è proprio una scappatoia e basta.
9) Le forze antimondialiste SONO quasi tutte a destra. Preferirei che non fosse così, perchè sarebbe meno difficile vincere, ma E’ così. Sono quasi tutte a destra nel senso che provengono dalle culture politiche di destra, perchè solo nelle culture politiche di destra si trovavano due elementi chiave: il patriottismo/nazionalismo, e la persuasione che è legittimo e doveroso difendere l’interesse delle comunità a cui si appartiene, per il solo fatto elementare che ci si appartiene e che si vuole sopravvivere e magari vivere (l’identitarismo).
Poi magari le forze antimondialiste provenienti da destra hanno programmi sociali molto più “di sinistra” delle forze politiche che alla sinistra DOC appartengono a pieno titolo; perchè al contrario delle sinistre eretiche, le suddette forze evidentemente hanno avuto il buonsenso di capire che se vogliono vincere, devono rappresentare gli interessi dei ceti popolari, asfaltati e beffati dalle sinistre istituzionali cattive. In Francia, per esempio, il FN ha un programma sociale praticamente socialista, leggere per credere. Però gli elettori di sinistra, sinistre eretiche e buone guidate da Mélenchon comprese, al secondo turno voteranno per Fillon, che ha un programma sociale liberista da lacrime e sangue, (licenziamenti a mitraglia), e probabilmente lo faranno vincere su M. Le Pen; perchè così “non passa il fascismo”.
10) Certo, così gli elettori di sinistra buona non incoraggiano l’ “anticapitalismo di facciata”, come lei dice, dei populisti. Incoraggiano e appoggiano, invece, il procapitalismo autentico, puro e duro di Fillon, di Renzi, della Clinton…Sono furbi, gli elettori di sinistra? Fanno bene ad aspettare ” *il nuovo internazionalismo* o *altermondismo*, con l’anticapitalismo finalmente non di facciata che lei auspica? Secondo me si suicidano e ci trascinano tutti nella loro corsa dei lemming, nel burron dell’Avvenire; ma certo può darsi che mi sbagli.
11) Per concludere, io penso che dal punto di vista culturale e umano, la sua scelta di non scegliere sia più che ragionevole e legittima, mentre dal punto di vista politico “è peggio di un crimine: è un errore”. Sempre secondo me, lei “protegge la verità della sua storia” nel senso che la ripete tale e quale, con lo stesso risultato: equivoco e sconfitta. Equivoco: come Fortini che diceva “sono nostri nemici tanto l’URSS quanto gli USA”, senza perciò trasferirsi su Marte, e prendendo – peraltro in ottima e numerosa compagnia – terrificanti cantonate sulla Cina, la rivoluzione culturale, e ogni altra occasione in cui gli sembrasse di veder spuntare “il comunismo autentico”, che poi non spuntava mai. Sconfitta: non c’è bisogno di spiegare.
@ Abate
Ho detto raffinato nel senso in cui è andato il sapere umano, dal pensiero magico a quello scientifico. Non c’è una frattura, c’è una raffinazione, per scartare l’errore, l’imponderabile. In Occidente il razzismo è diventato scientifico, poiché ogni campo del sapere viene filtrato dal sapere istituzionale.
Non ho parlato di piano individuale. Se il razzismo riguarda l’uomo lo riguarda nel suo insieme di specie. Ma, a proposito, parlare di specie è equivalente che parlare di razza. È una categorizzazione arbitraria dell’uomo. Forse non possiamo che pensare per categorie? Inoltre l’affermazione le razze non esistono non coglie il punto. Il razzismo descrittivo è corretto o sbagliato, come aspetto conoscitivo. Ma il problema è quando diventa prescrittivo, discriminatorio nelle conseguenze. Ma c’è qualcuno così ingenuo da pensare che il secondo caso derivi dal primo? Gli esseri umani, come tutti gli altri animali lottano perché le risorse sono finite. In ogni caso la dimensione è tutta sociale e storica. Solo che non coincide con la società capitalista. Chi ha studiato sul campo altri primati ha visto le stesse dinamiche politiche umane. Divisioni in bande, lotta per il territorio, lotta per la supremazia nel clan, lotta per la supremazia sulle femmine, lotta tra femmine in specie più matriarcali, rappresaglie nel clan avverso con uccisioni sistematiche e conquista delle donne. Andiamo agli uomini. Gli aztechi dominavano su altre culture amerinde. I Maori hanno compiuto genocidi. Davvero possiamo pensare che il capitalismo c’entri qualcosa? Il capitalismo ha solo fatto meglio quello che si faceva prima. Curiosamente coloro che essendo anti-capitalisti devono vedere nel capitalismo tutti i mali del mondo (i vegani anti-capitalisti pensano che è colpa del capitalismo se l’uomo mangia la carne, perché il consumismo ha trasformato gli animali in merce, e quindi li ha resi invisibili ai nostri occhi; a nulla servirebbe parlargli di come i nostri nonni li trattavano nelle fattorie; le femministe anti-capitaliste, ma in genere tutti gli anti-capitalisti vedono nel capitalismo l’origine della divisione sessuale del lavoro: a nulla vale dirgli che in tutte le società pre-capitaliste il lavoro era diviso per genere, e che anzi è nelle società capitaliste che le donne possono fare mille lavori diversi, compresi tutti quelli che fanno gli uomini) compiono lo stesso errore essenzializzante che hanno compiuto i razzisti. Mi riferisco al passaggio in cui si parla di esclusiva caratteristica moderna e occidentale. E il fatto che il concetto di razza si sia sviluppato nel periodo in cui si è sviluppato il capitalismo non significa nulla. Sotto il capitalismo, e dunque durante lo sviluppo scientifico, il razzismo è stato raffinato ed è diventato concetto. Ma per smontare tutta l’architettura che vuole legare razzismo e capitalismo basta un semplice esempio. Se il mondo fosse stato solo l’Europa; se tutta l’umanità fosse stata bianca; il capitalismo non si sarebbe sviluppato? Questo esempio basta anche a smontare l’idea della divisione del lavoro su base razziale. I lavori più umili li fanno gli stranieri per il semplice motivo che esistono lavori di merda che nessuno farebbe. Se si trovano persone disposte a farli li si fanno fare a loro. La divisione del lavoro esiste anche fra italiani bianchi, dunque il discorso di Curcio e Mellino è sbagliato. Basti pensare alle donne vittime di tratta, che vengono dalla Nigeria e dall’est Europa (che vengono schiavizzate dai e dalle loro connazionali), che hanno sostituito le donne italiane che oggi non sono più così povere da essere schiavizzate e possono far soldi con la prostituzione volontaria e ben retribuita.
“In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Viviamo in una rete d’arabeschi.”
http://aforismi.meglio.it/aforisma.htm?id=4136
Posso dire che non sono per niente contento dell’andamento della discussione?
Partirei da FF vs PPP. Gli vorrei chiedere se non ritenga strano che di fronte a qualcosa che non va, egli dica che non c’è nulla da fare e che è sempre stato così.
Oggi, il capitalismo fa danni, mi pare che anch’egli concordi. Che importa ora se anche nel medioevo o nella preistoria eravamo brutti e cattivi? A me sfugge la logica sottesa. L’egoismo, la monelleria, questi argomenti prepolitici mi chiedo perchè invadono la scena politica. Chi la pensa così, secondo me dovrebbe solo tacere, perchè esclude ogni possibilità di influenzare la storia sulla base di quella pregressa.
Per il resto, io avevo modestamente avanzato una proposta minimale che mi sembrava potesse raccogliere grandi consensi, quella della difesa del suffragio universale come caratteristica fondamentale della democrazia, come il discrimine rispetto ad ogni forma di oligarchia.
La cosa sembrerà troppo terra terra, senza formule complesse, senza elaborazioni dotte, senza richiami a tradizioni politiche. In verità invece è per me il luogo di resistenza fondamentale rispetto ad una elite finaziaria che ormai, malgrado il ferreo controllo del settore mediatico, non nasconde di guardare con fastidio e preoccupazione a questa necessità di raccogliere il consenso popolare e già vuole distruggere le costituzioni democratiche a partire da quella italiana, e magari introdurre forme di controllo non si capisce se preventive o ex-post sul voto. Ormai non mi sorprendo di nulla, forse vogliono introdurre un esame per definire chi ha diritto a votare o magari dare al voto il carattere di un suggerimento ad un’istanza superiore.
Io non escludo piani di questo tipo, ma in ogni caso le recenti occasioni di votazioni finite con la sconfitta clamorosa delle elite, hanno fatto emergere questi distinguo sui risultati del voto popolare che comunque aprono un’autostrada a iniziative a favore del suffragio universale.
Che oggi le elite siano globaliste, non credo si possa dubitare, e mi pare che sia da sè un’ottima motivazione ad essere sovranisti. A volte anche io ho il sospetto che in taluni appaia un voglia di rimanere fedeli alla propria memoria ed alla memoria della propria parte a prescindere.
A Buffagni direi che sia più corretto essere contro non i mondialisti, ma le elite globaliste. Non vedo in verità quale possa essere il vantaggio a considerare la gente comune come proprio nemico, anzi credo che sia un errore formidabile non tentare di unire il più possibile. Il discrimine è chi sta a favore e chi contro le elite finanziarie globaliste che governano il mondo, e naturalmente tutti i loro alleati espliciti, la contraddizione va scaricata sull’avversario non sulla propria parte.
@ V. Cucinotta
“A Buffagni direi che sia più corretto essere contro non i mondialisti, ma le elite globaliste. Non vedo in verità quale possa essere il vantaggio a considerare la gente comune come proprio nemico, anzi credo che sia un errore formidabile non tentare di unire il più possibile.”
Certo. Se si è inteso così, mi sono fatto capire male. Naturalmente, è fondamentale allargare le proprie alleanze. . A parer mio, “la gente comune” ha, nella sua grande maggioranza, interesse a NON stare nel campo mondialista, e dunque si deve fare ogni sforzo di persuasione per allearla al campo avverso al mondialismo. Resta il fatto elementare che finchè qualcuno sta nel campo a te avverso, è un nemico politico (il che non significa che sia cattivo o che vada eliminato).
Antonio Ingroia – Assemblea Nazionale di Cambiaresipuò, Roma 1 dicembre 2012
Le Masse contro le Elitè…
Gran Bretagna: Masse 52% Elite 48% – probabilmente l’elite più vasta dell’intera storia dell’Umanità…
Stati Uniti: Clinton +2.000.000 di voti rispetto a Trump – insomma, le elite più numerose delle masse…
Insomma, la realtà dei luoghi comuni sovranisti è sempre un po’ confusa, o fuzzy…
Sembra di capire che indubbiamente il suffragio universale va difeso, come no, purché il risultato sia quello voluto dalle Masse o dai loro portavoce, sia prezzolati che gratuiti… Nel caso americano per esempio i voti delle ‘Masse’ anche se di meno ‘pesano’ di più, in quanto bianche e moralmente superiori, sembra di capire…
@ Stefano Trucco
Guardi che le élites non sono tali se non hanno largo seguito tra le masse. Sennò sono solo la junta di una dittatura militare (che poi di solito un notevole seguito popolare ce l’ha pure lei).
Non è una novità, se si legge Etienne de La Boétie, “De la servitude volontaire”, ci trova tutto questo e ben di più.
Lo so bene. E’ che questo implicherebbe, come suggerivo, che i voti ‘a favore’ delle elite siano in qualche modo più leggeri di quelli delle ‘masse’, voti che valgono meno, anche moralmente.
Altrimenti sarebbe il caso di evitare una contrapposizione fra i ‘pochi’ e i ‘molti’ in cui esce fuori che i ‘pochi’ sono tantissimi, e che i ‘molti’, oltre a essere meno del previsto, non siano necessariamente dalla parte degli angeli.
@Stefano Trucco
A me risulta che non siano stati i sovranisti a mettere in dubbio la legittimità dei risultati elettorali.
Io ho sentito affermazioni che definire ignobili è ancora usare un eufemismo, che il “leave” era stato votato da vecchi rimbambiti e da villani ignoranti che a causa del loro vivere in campagna sarebbero arretrati. Ho letto un altrettanto ignobile articolo dell’ex-fascista Eugenio Scalfari che pretende che democrazia ed oligarchia coincidano, ho letto di esami da fare a chi vota perchè non si può più sopportare che l’ignoranza vinca.
Ammiro, caro Trucco, le sue acrobazie verbali per cui rovescia platealmente la frittata, attribuendo alla parte opposta quanto espresso senza possibilità di smentita e di equivoci dai globalisti che ormai sono entrati in un loop che temo li porterà in breve tempo a tentare di eliminare il suffragio universale.
in ogni caso, se nessuno attenta al suffragio universale, ben venga una campagna che richiami la sua storia, le lotte e le motivazioni che hanno portato alla sua adozione, a me parrebbe una sana lezione di ripasso di democrazia.
Beh, i ‘sovranisti’ non mettono mai in dubbio la legittimità dei risultati elettorali – quando vincono.
Comunque, prendo atto della superiorità morale di chi vota per le ‘masse’ e della corrispondente bassezza degli altri, specie quando, come in America, ‘perdono’.
Soprattutto prendo atto dell’estrema flessibilità dei concetti messi al servizio di un’ideologia – sia esso il ‘sovranismo’ o la ‘meritocrazia’ (altro termine di moda). Io me ne ritorno nel mio buco silenzioso a leggere Tocqueville. Buona rivoluzione, e buona fortuna.
Stefano Trucco, non è necessario che lei si rintani per evitare di entrare nel merito, lei è contrario a prescindere per dirla come Totò: padronissimo, è inutile a questo modesto scopo scomodare Tocqueville.
Ma che ci fa ancora lì, Cucinotta? Guardi che le Masse la stanno aspettando per cominciare la Rivoluzione. Si affretti, o qualcuno le ruberà il posto e addio sogni di gloria!
A lu suono de grancasciaviva viva lu popolo bascio;
a lu suono d”o tammurriello
sò risurte li puverielli;
a lu suono de campana
viva viva li pupulane;
a lu suono da viuline
morte alli giacubine!
http://www.dailymotion.com/video/x18uyto_conspiracy-theory-with-jesse-ventura-brain-invaders_shortfilms