di Mirko Lino
Il sesso e la macchina
Nell’ultimo anno, l’interesse nei confronti del porno virtuale è notevolmente aumentato. Lo dimostra la quantità di articoli provenienti dai diversi canali dell’informazione (testate giornalistiche, riviste, blog e altri canali della Rete). Il virtual porn affascina perché permette di ragionare su diversi livelli del rapporto tra tecnologia, corpo e sesso: riscritture dei corpi dei performer e dei consumatori, apparati tecnologici e ibridazioni uomo-macchina, dinamiche del desiderio e ipermediazione tecnologica, ecc. Argomenti di cui mi sono occupato recentemente nello speciale di Contemporanea “Fictionalising the Posthuman” (in corso di pubblicazione) e a cui rimando. Proverò, invece, a utilizzare questo spazio per analizzare in chiave storica la correlazione tra cybersex, porno virtuale e forme tecnologiche. Infine, guarderò l’orizzonte delle pratiche e dei consumi emergenti, concentrandomi sugli usi di interfacce audio come l’ASMR in chiave porno. Il fine è quello di riuscire a offrire al lettore un percorso, sì breve, ma utile per orientarsi all’interno di una pornosfera tecnologica sempre più virale.
Il virtual porn riscrivere i codici corporei muovendosi sulla commistione tra reale e virtuale, offrendo agli utenti una vasta gamma di fantasmagorie sessuali. Pensiamo, ad esempio, ai corpi delle pornostar videomappati al millimetro e ricodificati digitalmente da alcune case di produzione che si stanno specializzando in video a 360° immersivi, popolati appunto da performer “renderizzate” con la computer graphic. Così alcune case di produzione interessate alle evoluzioni tecnologiche del porno, come RealVirtualPorn e VirtualGayPorn, Sugar DVD e Playgirls, trasformano le pornostar in figure simili a quelle dei videogiochi di ultima generazione al fine di offrire sessioni iperrealistiche di sesso, permettendo all’utente di interagire con la propria pornostar preferita. Così come muta il codice del corpo pornografico, muta anche la fisionomia di quello dell’utente. Questi ha la possibilità di ibridarsi con diversi wearable media (media indossabili) per il cybersex: visori come l’Oculus per garantirsi l’immersione nei porno-mondi virtuali in 3D a 180° o 360°; sex toys connessi ad Internet (teledildonic) da applicare ai propri genitali (vagine artificiali e dildo) per avere esperienze sessuali con i personaggi dei videogame porno, come le ragazze in stile Anime giapponesi di Custom Maid 3D, con gli avatar di persone conosciute su Second Life, ChatHouse o RedLight, o semplicemente in remoto con altre persone reali. Mentre l’orizzonte plurisensoriale del cybersex assiste alle sperimentazioni di tute sensibili (cybersex suit) corredate di sensori nelle zone erogene che trasformano i segnali in dati aptici, rendendo il corpo dell’utente il più possibile integrato all’immersione virtuale.
Il porno virtuale, allora, per la possibilità di esperienze sessuali interattive e personalizzabili che offre, diventa un oggetto di facile curiosità, con cui iniziare a immaginare le progressive sorti del cyber-orgasmo, o le derive di un’apocalisse tutta postumana dove anche il sesso perde la sua naturale organicità a favore di incognite tutte cyber e inorganiche. Pensiamo, appunto, alla configurazione del nuovo porno consumatore maschile, o femminile, con la sua gamma di teledildonic preferite: in entrambi i casi, l’orgasmo sarà dato da penetrazioni genitali delegate alla componente tecnologica, ovvero ai simulacri dei genitali del partner. Oppure pensiamo alle polimorfie delle identità sessuali che soprattutto nelle sex chat alla Second Life non assicurano la corrispondenza tra l’aspetto online dell’avatar e quello reale dell’utente, facendo sì che quest’ultimo possa arricchire il proprio ventaglio di esperienze sessuali disincarnandosi dal proprio genere.
Tuttavia, bisogna ricordare che alla base dell’emergente porno virtuale non vi è l’idea di una nuova pornografia: a ben guardare, il porno in Realtà Virtuale non fa altro che ribadire le modalità immersive garantite dall’uso della soggettiva, già istituzionalizzato nel genere gonzo, attraverso nuove tecniche rappresentative e corredi tecnologici avanzati (ad esempio, l’idea delle teledildonic era stata sviluppata già negli anni Settanta da Ted Nelson). Piuttosto, questa pornografia segnala alcune continuità formali che si sono evolute in conformità alle possibilità tecnologiche dell’ambiente: il tecno-porno si fa catalizzatore di fantasie sessuali interattive e totalizzanti che la tecnologia ora può cominciare a rendere accessibili. Sono quindi i concetti di accessibilità ai contenuti grazie al porno online, di immersività offerta dai visori VR, di interattività data da specifici software, a fare la differenza. Sotto l’aspetto estetico e linguistico, il porno immersivo si nutre della medesima plurisensorialità del “film-concerto” e del “bagno sonoro”, teorizzati da Laurent Jullier (Il cinema postmoderno, Kaplan 2006) per definire il sensazionalismo del cinema postmoderno, che “immergono” lo spettatore (RealVirtualPorn, ad esempio, usa un sistema binaurale per rendere immersivo anche l’audio). Il virtual porn, potremmo dire, usa i formati e i linguaggi del postcinema (il cinema che espande la propria dimensione cinematica sui new digital media) spesso in relazione alle caratteristiche formali (interattive, partecipative) della Rete. Del resto, come ci dimostrano film come Lei (Her, 2013) di Spike Jonze, abbiamo lasciato alle spalle le primissime paure sulle incognite tecnologiche della Rete e della Realtà Virtuale, ben evidenziate, ad esempio, nelle scene sessuali in mondi virtuali del Tagliarbe (The Lawnmover Man, 1992) di Brett Leonard, e dagli snuff movie in soggettiva, girati tramite “caschetti” da indossare, presenti in Strange Days (1995) di Kathrine Bigelow. Il nostro rapporto più intimistico che apocalittico con le nuove tecnologie permette di “espandere” le conoscenze sessuali, esattamente come afferma un personaggio in Brainstorm (1983) di Douglas Trumbull (film a cui Strange Days ha attinto a piene mani) dopo una sessione di sesso virtuale: «quello che mi è capitato è stato più di una semplice fantasia sessuale: è stata un’esperienza fantastica. Sono più di quello che ero».
All’origine del cyberorgasmo: Maxie Playmate e Virtual Valerie
Non è semplice intercettare un unico punto di partenza in questo breve percorso, poiché la pornografia tradizionale, quella cinematografica prima e quella video dopo, non ha fatto altro che mettere in scena la dimensione virtuale di fantasie sessuali in cui la donna, procace e ipergenitalizzata, deve essere compiutamente soddisfatta dall’instancabile e meccanica prestazione maschile. È utile, invece, riferirsi alla cultura cyber del secolo scorso, poiché è la prima che ha avuto a che fare con i primissimi prototipi di Realtà Virtuale, ha indagato e speculato su nuovi soggetti ibridi uomo-macchina, uomo-computer, immaginando nuove configurazioni, sia postumane sia transumane, tra carne, sesso e coscienza, concretizzandole nella narrativa cyberpunk, adeguata linguisticamente e tematicamente con la nuova dimensione info-tecnologica, che ha ispirato tanto cinema di fantascienza: da Johnny Mnemonic (1995) di Robert Longo – non a caso tratto da un racconto di William Gibson – alla trilogia di Matrix (1999-2003) delle sorelle Wachowski ed eXistenZ (1999) di David Cronenberg, sino a Lucy (2014) di Luc Besson.
Sebbene già negli anni ’80 diverse riviste, come Future Sex, Boing-Boing, ma anche Mondo 2000, Wired, Elle e altre, avessero cominciato a dedicare numeri e inserti al cybersex, a promuovere l’idea del virtual sex come la nuova frontiera del consumo pornografico, la tecnologia ancora muoveva i suoi primi passi, ed era pressoché incapace di offrire veri e propri mondi sintetici del sesso. Cyberorgasm, ad esempio, era il titolo di un CD audio creato da Lisa Palac, in origine una femminista anti-sex poi “convertitasi” al pro-sex, profeta di un’erotronica fatta di tute sensibili per immergere le persone in sogni erotici interattivi e modulati dal computer. Come rivela Mark Dery (Velocità di fuga. Cyberculture di fine millenio, Feltrinelli 1997) descrivendo lo scenario cybersessuale di quel periodo, l’operazione immersiva consisteva in una rudimentale multimedialità che metteva assieme più supporti: l’esperienza di Cyberorgasm era data da normalissimo CD audio che raccoglieva racconti sessuali con tanto di mugolii e altro, un poster, degli occhiali sensori (di cartone nero!) e un preservativo (non certo un prodotto futuristico!). È chiaro come il CD di Palac non aggiungesse nulla alle esperienze onaniste dei suoi acquirenti – «il CD di Palac funziona grazie al tipo più antico di realtà virtuale che sia noto agli esseri umani: la recitazione e il racconto di storie. Purtroppo, ascoltare del sesso simulato o una descrizione di fantasie sessuali non assomiglia per nulla al sesso vero» (Dery, 1997: 209) – tuttavia questa operazione esprimeva bene con mezzi rudimentali una sensibilità di sesso iperreale che si faceva sempre più solida, la cui modalità di realizzazione consisteva in una immersività plurisensoriale e interattiva tramite l’utilizzo di più supporti mediali integrabili e interoperativi.
Le origini del virtual sex così come lo conosciamo prendono forma a partire dalla diffusione di Internet: le prime chat room di sesso testuale della America Online hanno dato vita al fenomeno del “MorFismo” (da “MorF”, acronimo di Male or Female, usato in riferimento agli utenti che online si presentano con un genere diverso da quello reale); ai primi MUD (Multi-User-Dungeon) che basandosi su testi scritti ripiegavano rapidamente su argomenti e dialoghi sessuali (la femminista Anne Balsamo parlerà di “stupro-MUD” per indicare le molestie testuali subite dalle giocatrici femminili); allo scambio di foto digitali (tra cui le famose gif animate a sfondo sessuale, ancora usate come banner nei siti porno); ai videogiochi via via sempre più strutturati sul piano della grafica e dell’interattività. In questo clima di sperimentazione, di rilettura di formati vecchi e nuovi in chiave softporno, in cui diversi formati mediali (testuali, fotografici, sonori, ludici, ecc.) lavorano sullo stesso obiettivo interagendo e fondendosi in chiave intermediale, mancava il processo di attribuzione di un “corpo” a una fantasia sessuale che cominciava ad aleggiare sugli schermi e nei processori dei primi personal computer. Le prime eroine dell’erotronica si chiamavano Maxie Playmate (1986) e Virtual Valerie (1990), ed erano due cybermodelle, create da Mike Saenz, pronte a dominare gli schermi degli utenti di videogame a luci rosse, antenate delle future Lara Croft dell’immaginario erotico-videoludico di lì a venire, apripista di quell’interattività che oggi caratterizza il sesso virtuale e nei game online della Meet’n’Fuck e di altre case di produzione di flash game pornografici.
In pratica si trattava dei primi CD-ROM dedicati a eroine del sesso virtuale: videogame dove lo scopo era quello di superare delle prove per spogliare le modelle virtuali, e a cui in poco tempo sono seguite diverse versioni con i dovuti miglioramenti grafici (es. Virtual Valerie II) e una maggiore offerta erotica (es. Donna Matrix, la versione BDSM di Virtual Valerie).
Il miglioramento dei software dedicati al cybersex e l’espansione dei domini del sesso nella cultura del quotidiano si sono ottenuti grazie alla diffusione del porno online, che rapidamente ha fatto sì che l’oscenità pornografica divenisse una categoria culturale dismettendo gradualmente i panni di problema morale e generazionale per i cosiddetti nativi digitali o millennials (su questi argomenti si veda il libro di Renato Stella, Corpi virtuali: una ricerca sugli usi erotici del web, Mimesis 2016). Il porno online nasce ovviamente con i primi computer domestici collegati a Internet, e ben presto segna in maniera profonda il solido legame tra pornografia e tecnologia, aprendo a un consumo pornografico rivoluzionario, votato al piacere visivo mediante un nuovo supporto e interfacce che “ri-mediano” il cinema a luci rosse. La storia del porno online vede come protagonisti principalmente dei giovani studenti, alle prese con piattaforme per l’archivio di foto digitali (come gli studenti olandesi di Delft che videro trasformarsi il loro Digital Archive of Seventh Floor in una primissima piattaforma “open access” di foto porno uplodate dagli utenti), attivi presso le community su Usenet (dove con fatica e dopo tanto tempo era possibile decriptare delle immagini), o creatori dei primissimi siti web, i BBS, dove poter trovare e acquistare tramite un abbonamento foto ad alta risoluzione. Il resto è una storia abbastanza nota, che è stata anche assai demonizzata dal cinema mainstream che ha sempre visto nel porno un mondo particolare da cui attingere storie, biopics, spesso segnalandone le derive, le contraddizioni e i cortocircuiti: basti pensare a film come la commedia Don Jon (2013) di Joseph Gordon-Levitt e Shame (2011) di Steve McQueen in cui entrambi i protagonisti maschili sono fortemente dipendenti dal porno online e incarnano la figura dell’ashamed masturbator incapace di vivere serenamente i sentimenti e gli affettivi al di fuori di un’interfaccia pornografica.
…e ora? il braingasm!
Come in ogni discorso sulle tecnologie e i media emergenti, è la rapidità delle evoluzioni, dei miglioramenti e delle sperimentazioni – sempre con un occhio alle forme tradizionali – a farla da padrona. Il film Lei (2013) di Spike Jonze illustra le direttrici del cybesex nel momento in cui la tecnosfera attuale si rivolge sempre di più a interfacce vocali, Intelligenze Artificiali “user friendly” (vedi l’ultima versione di Siri per l’iPhone7) e a sistemi ipermediali di intrattenimento in cui gli schermi, intesi sia come soglia sia come protezione, scompaiono. Scompare tutto, e in certi casi anche la tradizionale pornografia dei genitali. Un film come Lei, in cui l’atto sessuale naturale non si realizza mai e il sesso avviene attraverso voice chat e accurate descrizioni di sensazioni ed emozioni condivise che stimolano il piacere e l’orgasmo trova una particolare corrispondenza vocale con l’attuale fenomeno del porno ASMR.
Per ASMR (Autonomous Sensory Meridian Response) si intende una stimolazione auditiva che incide sul meridiano sensoriale del cervello in una maniera tale da rilassare profondamente l’ascoltatore. Il fenomeno nasce più o meno nel 2010 grazie alla pagina Facebook Autonomous Sensory Meridian Response Group di Jennifer Allen, in cui le persone si interrogano sugli effetti rilassanti ed eccitanti ricevuti dalla visione di particolari video in cui è la dimensione auditiva a farla da protagonista: voci che parlano a una certa frequenza, bisbigliando con una dizione scandita, pulita, che stimolano diverse reazioni piacevoli agli utenti (brividi, formicolii, pelle d’oca, ecc). Lo scopo principale sarebbe quello di “curare” stati ansiogeni, problemi di sonno, paure, dolore, ma come è ovvio, il passo da un eccessivo rilassamento all’eccitazione può anche essere breve. Diversamente dai servizi erotici al telefono (quelli dei famigerati numeri di telefono con i prefissi 144 e 166 che promettevano, un po’ come Cyberorgasm di Palac, esperienze sessuali iperreali, ma che in pratica mangiavano i soldi dei malcapitati utenti per fare ascoltare loro delle gracchianti voci registrate), i video ASMR sono gratuiti e accessibili su YouTube. Questi video si concentrano sulle modulazioni della voce di chi parla (soft-speaking), abolendo le musiche di sottofondo e amplificando i rumori di alcune azioni, come dipingere, masticare, camminare, spazzolare i capelli, piegare gli asciugamani (!), mediante i cosiddetti “toni binaurali” – utilizzati, tra l’altro, nei video prodotti da RealVirtualPorn. L’effetto procurato è quello di un formicolio, un brivido lungo la schiena, definito da alcuni utenti braingasm (orgasmo mentale). Sebbene l’ASMR, attorno al quale crescono numerose community (es. qui), e pagine sui social (es. qui) non sia nato con una finalità erotico-sessuale, come ci ha insegnato il porno, qualsiasi contenuto e qualsiasi formato si presta facilmente a una repentina (auto)pornografizzazione: il brivido sulla schiena, quindi, diventa presto eccitazione sessuale. Diversi canali YouTube sono dedicati a una versione porno dell’ASMR, in cui, spesso in chiave ironica, si stuzzica il feticismo auditivo dell’utente. La youtuber Hungry Lips, ad esempio, si presenta davanti alla webcam in una costosa e vintage lingerie, usa il soft-speaking e il tono binaurale anche per masticare un abbondante pasto (sfidando la misofonia!). Su YouTube si pratica anche una silenziosa, o sussurrata, guerra tra i fan di video ASMR: da una parte i “puristi” che mal accettano una declinazione feticista-erotica, se non in chiave parodica (si veda la parodia Vegan Hungry Lips), e dall’altra, coloro che accettano la svolta erotica, affermando che il sesso è uno dei tanti possibili contenuti di questi video e che spetta al singolo utente cercare i contenuti (e i piaceri) che desidera. Tra ironia, serietà, mancanza di studi approfonditi, supposizioni neuroscientifiche, attacchi e parodie, il fenomeno dell’ASMR è ben presto passato da YouTube, dove mantiene una dimensione “feticistica-terapeutica”, a una dichiaratamente pornografica su PornHub e altre piattaforme simili. Qui, prestanti pornostar come Mia Gunn mostrano la lingerie, per poi successivamente spogliarsi, offrendo agli utenti oltre al proprio corpo da modella scandito da primi piani di natiche e seni, i fruscii dei vestiti tolti e una massiccia dose di bisbigli e sussurri.
È indubbio come la tecnologia affini i cataloghi del feticismo, essendo essa stessa un feticcio. Ma molto probabilmente, formati mediali come i video ASMR, sebbene ci possano strappare qualche sorriso, collocano un’insaziabile fame di piaceri sessuali e sessualizzanti all’interno di una dimensione quotidiana fatta di tecnologie immersive, schermi interattivi, social network, videoludismo e tanta ipermediazione. E lo sviluppo di una dimensione non solo visiva ma prevalentemente auditiva ci indica un’attitudine plurisensoriale inscritta nei corpi e nelle pornografie contemporanee, con cui possiamo provare ad approfondire la comprensione del nostro rapporto sempre più intimo e totalizzante con la tecnologia.
[Immagine: Maria Takeuchi, Federico Phillips, as.phyx.i.a]
I cosiddetti “toni binaurali” utilizzati da coloro i quali si propongono come ASMR artist, hanno prodotto un vero e proprio mercato di “microfoni binaurali”, con tanto di orecchie in lattice ed equalizzazioni preimpostate a seconda del “genere” di registrazione che si ha intenzione di fare (gibberish, mouth sounds, whispering, soft speaking, tapping, inaudible, tapping, etc).
Per un’ermeneutica para-pornografica dell’ASMR, suggerisco lo studio della pratica dei “roleplay”. Ne esistono di ogni tipo: “Medical roleplay”, “library roleplay”, fino al più epitomico “girlfriend roleplay” per il quale non esiste una preparazione dei trigger o uno stimolo consapevole di tingles da parte dell’ASMR artist, ma il paradigma internauta dell’estetica del posticcio, della proiezione iperrealistica delle rappresentazioni, propria del porno 3.0, coinvolge anche questa particolare forma di “ricerca” (per quanto banalizzata dall’appiattimento retorico di YouTube).
Scusate per la lunghezza del commento, ma ho portato avanti uno studio simile qualche mese fa.
Appare una grande abbuffata dove il sesso nasce dimenticandosi il sapore della carne. Allora un gusto ludico per la provocazione mi ha spinto a realizzare un film che vuole essere altresì una dichiarazione d’affetto nostalgico verso un cinema che non esiste più.
Quindi, THE MEN IN BLUE: https://www.youtube.com/watch?v=mUibpg63XL4&t=412s
L’investigazione nasce dalla materia organica animale – uomini in blu, che si mostrano in parallelo a quello che giunge alla loro vista come un linguaggio dove il sesso attraversa ogni forma del pensiero immaginifico consenziente, che ho ripreso, facendo ricorso alle mie intuizioni anche di natura estetica, in piano sequenza oltrechè a distanza immobile, consegnati ad uno spazio privo di cambiamenti e che scrivono un corpo di leggi non politicamente lineare – e dal mezzo meccanico – lo sguardo freddo di una telecamera che ingabbia quello che desidero vedere attraverso forme di calcolo particolarmente complesse – e dalla lotta di questo con l’apparato umano in evidenza.
Un gioco espressivo che si adagia sulla fantasmatica natura di certe forme d’arte? No, solo un liberissimo e vertiginoso omaggio visivamente sospeso tra finzione e autenticità.