di Filippo Polenchi
Tutto il mondo, adesso, è Seconda Unione Sovietica. Tutto il mondo è un verminaio di pile atomiche in discesa verticale – lenta ma inarrestabile – verso il nocciolo della Terra. Le «catastrofi del nucleare civile» (p. 58) hanno sterminato larga parte della popolazione mondiale, hanno reso il pianeta una landa ostile e pestilenziale, anche se così facendo «l’idea di reintrodurre il capitalismo e i possidenti non sfiorava nessuno» (p. 145). Si potrebbe dunque concludere che la presunta distopia è in realtà un compimento dell’utopia suprema del socialismo reale: la sua piena realizzazione, con la scomparsa del capitalismo.
È questo il mondo al grado zero del Terminus radioso di Antoine Volodine (2014, vincitore del Prix Medicis, che la casa editrice romana 66thand2nd porta alla luce dopo che un’altra impresa editoriale, L’Orma, sempre nel 2016 ha dato alle stampe Angeli minori – e di qualche anno fa sono le uscite per Clichy), nel quale si muovono personaggi sonnambolici, mai del tutto vivi e mai del tutto morti. Fra questi tre soldati, due uomini e una donna: Kronauer, Iliuchenko e Vassilissa Marachvili, che stanno attraversando le terre contaminate, dopo la fuoriuscita da un gruppo militare allo sbando. Ovunque solo erbe e paesaggi desolati. La waste land di Eliot si è drammaticamente storicizzata in una Chernobyl all’ennesima potenza. Efflorescenze mutanti elencate in vertiginosa crescita: «Lanacagne, doroglosse, lovushche del ciabattino, solivine del teppista, solivine odorose» (p. 37).
La ricerca di aiuti porterà il soldato Kronauer a Terminus radioso, un kolchoz di ubicazione incerta, nella regione del Leviadovo, «una regione posta sotto segreto militare» e senza alcuna menzione nelle pur inaffidabili carte della Seconda Unione Sovietica. Il kolchoz è una zona tarkovskijana: un luogo desiderante, di ristagno mitografico. Nel Terminus radioso vivono personaggi postremi: Nonna Ugdol, ultracentenaria che le radiazioni hanno reso praticamente immortale, sebbene non del tutto esente da una polverizzazione fisica; Soloviei, «personaggio di Tolstoj», ferino e mutaforme, sciamano e capace di muoversi e manipolare e forse creare i sogni delle persone; le sue tre figlie, Hannko Vogulian, Myriam Umarik, Samiya Schmidt, legate da matrimoni di facciata a personaggi-zombi. Al centro di Terminus radioso il sepolcro scoperchiato della pila atomica: da questo belvedere sullo scasso nucleare Nonna Ugdol si affaccia e parla proprio al cuore pulsante dell’abisso. Dolci versi di pace, per ammansire il mostro.
Se l’incipit di Terminus radioso è abbastanza classico, quasi rispettoso delle unità aristoteliche man mano che le pagine si susseguono la scrittura si fa quantica, procede per onde di probabilità, pacchetti di energia, eventualità di comparsa. I personaggi sono sottoposti a intermittenze cosmiche, sono in viaggio attraverso un buco nero, un warmhole, un tunnel spaziotemporale come quello che compare – supremo prodigio di fiamme nere e fluorescenze che neanche in uno choc teatrale di Artaud ci aspetteremmo – accanto alla pila atomica. È Soloviei la figura chiave che permette di fratturare il tessuto omogeneo delle consuetudini di rappresentazione gettando i personaggi in un pozzo di sogno, in un’ebbrezza spaziotemporale che continuamente muta. Soloviei, infatti, ha poteri misteriosi: può introdursi nei sogni degli altri – pratica che adotta spessissimo per visitare incestuosamente le fasi REM delle tre figlie – e può anche ridurre gli altri ad avatar in una sorta di realtà simulata che però diviene sempre più la sola realtà percorribile. Soloviei è un architetto di sogni.
Fin da questi brevi spunti di riflessione è chiaro che siamo in presenza di un’opera (e di uno scrittore) misterica, che fa forza soltanto sulla rappresentazione e domanda un tirocinio speciale, una conoscenza liturgica ma di liturgia nera, per così dire. Si legga questo brano eloquente:
[…] si finisce in un universo di mezzo, in un qualcosa dove tutto esiste in maniera potente, dove nulla è illusione, ma dove, allo stesso tempo, si ha l’inquietante sensazione di essere prigionieri dentro un’immagine e di spostarsi in un sogno alieno, dentro un Bardo in cui si è come alieni, intrusi assai poco simpatici, né vivi né morti, in un sogno senza via d’uscita e senza tempo (p. 86)
Allora è logico domandarsi: chi è questo scrittore che utilizza eteronimi alla Pessoa (il nume portoghese è stato ampiamente evocato dopo che la fulgida apparizione di Volodine non è più stata trascurabile), che si muove sulla linea d’impossibilità beckettiana dell’«immaginabile-costruibile»[1], che è francese ma parla – e traduce – di Russia, o almeno di una Russia, di un’ipotesi russa ecco, che scrive romanzi per un’era probabilistica – quantica appunto – come Burroughs scrisse romanzi per l’«era spaziale» e ha un uso così disinvolto di cifre sciamaniche, paranoiche, visionarie, psichedeliche che per molti aspetti la sua figura letteraria cade in verticale verso il magnete di Philip K. Dick?[2] Di Volodine è non verificata perfino la data di nascita – tra il 1949 e il 1950 – e per molto tempo la sua vicenda editoriale è stata sotterranea. Anonimato e clandestinità. Dopo le prime pubblicazioni, tuttavia, il suo nome si è sempre più affrancato da un contesto fantascientifico – cioè da quando è uscito il saggio del 1998 Le Post-exotisme en dix leçons, leçon onze (in uscita a gennaio 2017 sempre per 66thand2nd) – e, complice anche la sigla editoriale Édition de Minuit che ne ha seguito il percorso finora, Volodine è divenuto sempre più un oggetto sì misterioso, ma anche maggiormente letto, diffuso, adorato (quasi ovunque tranne che in Italia, dove soltanto il coraggio di alcune case editrici indipendenti ha reso possibile la lettura del suo lavoro).
L’inafferabilità del Volodine auctor è naturalmente comprensibile alla luce della strada letteraria che percorre di libro in libro, giacché l’eversione romanzesca – se è lecito usare un’espressione tale – di Volodine non passa attraverso un avanguardismo generico e sbiadito, ma attraverso uno smottamento tellurico delle strutture narrative consuete, utilizzando un linguaggio elegante e tutto sommato lineare – salvo irruzioni sciamaniche di delirio eppure abbastanza sorvegliato – entro uno sguardo narrativo che anzitutto si propone di trovare una via di uscita dalla prosa di quota maggioritaria. È questo un punto importante, a proposito del quale Andrea Inglese, nel suo intervento su «Alfabeta2», trova in Gianni Celati[3] un’eco per ribadire l’avvizzimento del romanzo attuale per soddisfare le «pretese immaginarie dell’io cosciente». Questo grappolo di convinzioni, che Celati definisce come «i miti dell’uomo che crede di capire come va il mondo», è una barriera che Volodine infrange. A questo proposito Inglese è chiarissimo:
Contro questo mito, che è anche il mito dell’autore in grado di architettare solide e perspicue trame, in cui i destini dei personaggi si sviluppano e si chiariscono, Volodine costruisce attraverso la formula del post-esotismo una strategia d’emancipazione della prosa, che si basa non sull’assottigliamento degli elementi immaginari del romanzo, ma sul loro accumulo sfrenato, affinché l’oscurità e l’incertezza travolgano qualsiasi progetto di comprensione dell’esistenza umana.
È il post-esotismo la magnifica illusione ottica che lo scrittore si è inventato per le sue esigenze. Il post-esotismo, xenogenere promosso da scrittori anch’essi eteronimi di Volodine: Lutz Bassmann, Elli Kronauer, Manuela Draeger – che è, nelle parole dello stesso autore, «una letteratura partita dall’altrove e diretta verso l’altrove, una letteratura straniera che accoglie molteplici tendenze e correnti, di cui la maggior parte rifiuta l’avanguardismo sterile». E ancora: «La distorsione delle voci e la confusione dei nomi reali di coloro che danno e di coloro che prendono la parola è così una caratteristica del romånce» oppure «La dinamica del romånce si articola in una maniera che non potrebbe iscriversi nell’universo romanzesco tradizionale, perché si fonda interamente su una concezione dei contrari dove i contrari si confondono»[4]. Thesaurus di tradizioni differenziali che nel post-esotismo convergono.
Come ogni diffrazione provocata dall’uso di eteronimi anche nel bacino del post-esotico il cortocircuito fra auctor e agens è totale. Infatti l’autore del romanzo post-esotico è anche un personaggio di un altro romanzo post-esotico e il testo è intessuto di riferimenti ad altri palinsesti post-esotici. Quando lo scrittore evoca in intervista i suoi doppi, tripli spettri parla di «creazione collettiva» per parlare di romanzi: un titolo a firma Bassmann non è mai totalmente di Bassmann. È una collettivizzazione schizoide, è la paranoia[5] che attinge dal bacino surriscaldato del mondo letterario. C’è spazio per tutto: dalle soste omeriche al fonografo (in luogo di un telaio) che punge Kronauer per proiettarlo in un mondo di rarefazioni oniriche, dove il solo padrone è l’orco Soloviei; dalle fluttuazioni del Bardo Thödol, a Kafka; da Tolstoj alle narrazioni altere, esotiche (in senso todoroviano). Tutti scrivono in Terminus radioso. Soloviei per primo, padre saturno, intrusore onirico e incestuoso, creatore di «aberranti costruzioni narrative»; ma anche i passeggeri del convoglio ferroviario diretto al campo di lavoro trascorrono le serate narrando «melopee tragicomiche», Hannko scrive dal mondo disabitato del futuro remoto e così via. Tutti danno il proprio contributo (come gli scrittori post-esotici appunto) a una scrittura tibetana dei morti.
Terminus radioso è un mondo sollecitato da forze soverchianti. Sono tensioni gravitazionali, accensioni nel buio; incidono sul tessuto romanzesco deformandolo, mettendo in comunicazione universi e livelli di realtà differenti. In qualche modo l’attitudine psichedelica che dal Bardo arriva fino a Volodine è la stessa di William S. Burroughs che rese prassi tangibile la piegatura dello spaziotempo attraverso i suoi cut-up e fold-in.
Si narra per cerchi concentrici, per urti, in qualche modo per derive percettive. I piani temporali collidono, i personaggi attraversano il tempo e la steppa da un secolo all’altro, in maniera incongrua, caleidoscopica, con un vertiginoso inception. In un certo senso anche la confusione di voci narranti, che passano da un ‘io’ a un ‘noi’ con sempre maggiore schizofrenia, s’iscrive all’interno di una completa indifferenziazione di persona, genere, mappatura euclidea della realtà; anche la voce narrante è situata in quell’orizzonte degli eventi dove ogni particella di materia è un grido disperato di luce in fuga, dove tutto si scompone per riconfigurarsi in un ibrido.
L’uso di una temporalità così estesa è sia cabalistico-alchemico (Soloviei ripete come un mantra le concatenazioni numeriche riferite alla durata delle maledizioni che scaglia contro Kronauer), ma è anche il tempo del decadimento degli isotopi radioattivi seminati in terra dalle catastrofi nucleari.
Tuttavia è importante notare che questa tendenza verso il limite poetico-fisico, verso l’indicibile, l’indessicale delle cosmologie aliene di Lovecraft, questa tendenza al macroscopico coincide con il microscopico del sogno: il solo altro luogo dove le estroflessioni irreali sembrano ‘logiche’, dove altre forze ci comandano.
Tuttavia l’opera di Volodine non è tanto una «letteratura del sogno», come scriveva Houllebecq parlando appunto del maestro horror di Providence, ma semmai una fuoriuscita dal sogno, una letteratura in uno stato interstiziale tra sonno e veglia. «Tutti gli abitanti, a eccezione di Soloviei, oscillavano costantemente tra il coma e un’indicibile stanchezza fisica e mentale» (p. 83).
È questa oscillazione che ci interessa. È la lettura del mondo attraverso la lente del sonnambulismo. Personaggi sempre più stanchi e azzerati, beckettianamente «esausti»[6]. Man mano che si procede nell’incantagione del kolchoz – una parentesi che è destinata a non chiudersi più – la sorveglianza cosciente cede il passo a una catatonia deambulante. Ciononostante, i personaggi sono condannati a un’erranza purgatoriale. Il sonnambulo è quell’intersezione fra il primo «l’altrove» e il secondo «altrove» della definizione d’autore del post-esotismo. L’umano, insomma, come osservatore, ospite semi-invisibile di una transizione che prosegue eterna. Siamo ben oltre il post-umano, questa è un’esclusione dell’uomo dal processo termodinamico del cosmo. Una specie di sinfonia in andante accelerato che Volodine orchestra recuperando stili di tradizioni desuete e inventando tradizioni laddove non esistono.
L’altro elemento che mi preme rilevare è quello propriamente ‘politico’, o meglio: storico. Non è un caso che Volodine abbia scelto proprio questa sezione distaccata del Novecento per ambientarvi il suo romanzo, seppur traslandola in un futuro imprecisato. Il regime sovietico è stato, a dispetto e proprio in virtù del materialismo consustanziale, un luogo di sonnambulismi e sospensioni. «È questione di magia, tanto quanto di scienza, anche se alla fine è soprattutto questione di scienza» (p. 181). La barriera irrazionale che si eresse in luogo della Cortina di ferro cancellò il mondo per chi viveva dall’altra parte. Non solo: fu proprio l’ossessivo materialismo della dottrina sovietica che, in qualche modo, trascese se stesso, dando luogo a gemmazioni dell’alterità. Esotismo (il lemma esoterismo è davvero così vicino) comunista, si dirà, anzi, post-esotismo comunista. Una fede assoluta nella dottrina leninista, della quale la corrente sotterranea del «cosmismo» fu una sorta di deriva magica, ma anche largamente corteggiata dagli stati generali del Partito.
La Russia comunista diviene così una terra-laboratorio, che si erge su principi dogmatici, al pari di un culto misterico. Il Soloviei-Rasputin ne è l’esempio. Quella del Levanidovo è una zona magica perché le radiazioni hanno mutato biologia, vegetazione, hanno allargato le facoltà percettive e intellettive della noosfera. L’Unione Sovietica è stata il paese dove nessun leader politico è mai veramente morto (come accade al capo carismatico del kolchoz in questo romanzo). Soltanto un gruppo di gnostici burocratici erano a conoscenza della realtà dei fatti, ma tutti gli altri, gli inconsapevoli fuochisti della Rivoluzione permanente ne erano esclusi. Il mito della povertà si era sostituito al mito dell’egalitarismo. Gli scenari acquitrinosi di Stalker, che ritornano con vettori climaterici diversi anche nelle nevi o negli autunni di Terminus radioso sono le stesse fanghiglie di Satantango, il romanzo capolavoro di László Krasznahorkai (al momento ancora inedito in Italia sebbene sia uscito in Ungheria nel 1985) e il film omonimo di Béla Tarr.
Se volessimo tentare di trovare un approdo provvisorio per decifrare questo scrittore inafferrabile potremmo cercarlo proprio nella congiunzione fra le due categorie di pensiero appena suggerite. Dal un lato c’è il sonnambulo: il solo esploratore di queste terre in transito; uno spettro e poco altro, che registra in uno stadio di spegnimento continuo una realtà che si è bruscamente emancipata dalla sua presenza. Dall’altra parte è centrale l’assurda esperienza sovietica, scaturigine e modello di un presente obliquo e invisibile, giacché tutto esposto alla visibilità. Chiudiamo con queste parole di Gabriele Frasca dedicate a Philip K. Dick, scrittore che sovente può essere accostato a Volodine:
[…] l’autore, fuoriuscito come un singolare storiografo dall’ultima fase dell’età della carta, quella che nel privilegio audiovisivo connette il grigio bisbiglio delle biblioteche al variopinto chiacchiericcio delle riviste pulp, si presenterà nelle vesti di un trafelato messaggero, giunto da una paradossale corrosione dei tempi […] per parlarci di ‘strane memorie di morte’, e far dunque trapelare, nella presunta eternità di ogni consumatore mediale, l’elemento dissolutore, e la conseguente necessità di imparare a sopravvivere a quanto (non) ci sopravvive. È necessario si guardi indietro, argomenta, e si guardi ‘obliquo’, per ritrovare il luogo e il tempo da cui si propagò il guasto, quello che sempre rimette comunque in funzione la macchina.[7]
[1] Andrea Inglese: https://www.alfabeta2.it/2016/10/12/interferences-2-volodine-italia-la-questione-dei-generi/
[2] Gabriele Frasca, La lettera che muore. La “Letteratura nel reticolo mediale”, Meltemi, Roma, 2005.
[3] Gianni Celati, Studi d’affezione per amici e altri, Macerata, Quodlibet, 2016
[4] http://www.theparisreview.org/blog/2015/07/08/from-nowhere-an-interview-with-antoine-volodine/
[5] Andrea Inglese, cit.
[6] Gilles Deleuze, L’esausto, trad. it. Ginevra Bompiani, Roma, Nottetempo, 2015.
[7] G. Frasca, cit.
[Immagine: Base radar sovietica abbandonata, Skrunda, Lettonia]
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