di Andrea Cortellessa
[Una versione breve di questo articolo è uscita su «Tuttolibri»]
«Ho sempre vissuto in un posto dicendomi che quello non era il mio posto». Così comincia Parigi è un desiderio di Andrea Inglese, esordio in prosa narrativa di uno dei poeti più apprezzati della sua generazione. Uno spaesamento, questo dichiarato in apertura, che non è tanto geografico quanto – per fortuna – retorico, letterario. Ancora una volta, il virus autobiografico circolante nelle vene del sistema narrativo lo strania, lo rimescola, lo rimette al mondo.
I tempi sono cambiati, e piuttosto in fretta. Dieci anni fa un libro notevole come La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda veniva sabotato, allo Strega, dall’allora onnipotente Anna Maria Rimoaldi in quanto “non un romanzo” ma un’autobiografia. Nell’edizione di quest’anno, invece, ha trionfato un altro libro notevole, La scuola cattolica di Edoardo Albinati, che risponde più o meno allo stesso identikit. Anche Javier Cercas, nel suo importante saggio sul non-fiction novel, Il punto cieco (Guanda 2016), segnala una simile trasformazione. La differenza è che libri simili – quello di Inglese come quello di Albinati – non si peritano di scrivere in copertina, oggi, la qualifica editorialmente (a quanto pare) tuttora decisiva: quella di «romanzo», appunto. Se nel 2009 lo stesso Cercas racconta come avesse invece evitato di chiamare «romanzo» Anatomia di un istante, per la sua assenza di finzione, già cinque anni dopo sostiene che nessuno ha mostrato problemi a considerare un “romanzo”, invece, il suo ultimo (e per questo aspetto identico) L’impostore: sicché, conclude, «negli ultimi anni si sta acclimatando un po’ ovunque un modello più libero, più plurale, più aperto e più flessibile di romanzo». Se l’è cavata con una formazione di compromesso, nella breve quanto decisiva nota Al lettore premessa al suo libro, Carlo Bordini: definendo il suo libro Memorie di un rivoluzionario timido – uscito da Sossella poche settimane prima quello di Inglese – un «romanzo totalmente legato all’autobiografia».
Una differenza c’è, per la verità, rispetto all’autobiografia “classica”: testi come le Memorie di Bordini, o gli a loro volta notevolissimi Works di Vitaliano Trevisan (che però “romanzo” non viene definito in alcun modo) e appunto Parigi è un desiderio, selezionano un periodo circoscritto dell’esistenza dell’estensore, e insieme vi isolano un tema (l’esperienza da infiltrato trotzkista nel PCI nel testo di Bordini, i lavori più o meno atipici nel caso di Trevisan, l’amoroso esilio in terra di Francia per Inglese): del gomitolo di concause che ci fa ciò che siamo tirano un filo, cioè, e nei suoi zigzag più o meno labirintici lo seguono sino alla fine. Gli anglosassoni hanno un termine efficace per questo genere, memoir – e se in italiano non ha in equivalente è perché questo tipo di “taglio”, dell’autobiografia, alle nostre latitudini ha avuto meno fortuna. L’anglofilo Trevisan, nel suo testo, invece se lo attribuisce esplicitamente; mentre il credo non molto anglofilo Bordini lo traduce alla meglio, nel titolo del suo, coll’ambiguo «memorie» (che nella nostra tradizione si applica piuttosto, invece, alle autobiografie “classiche”, vere o simulate).
Non sarebbe mentalmente più economico, mi chiedo, rispolverare questo termine non così trendy, “autobiografia” appunto, riguardo a un testo come Parigi è un desiderio? Per chi Inglese lo segue con una certa continuità, fra l’altro, l’autobiografia non è solo quella dell’Inglese uomo, ma anche – e, dal mio punto di vista, più istruttivamente – quella dell’Inglese scrittore. Il suo libro viene da lontano, infatti: sottoponendo a un trattamento “romanzesco” un precedente relativamente remoto come Commiato da Andromeda, cinque anni fa pubblicato da Paolo Maccari per la sigla «Valigie rosse»: colpendo per l’alta temperatura emotiva e l’architettura calibratissima (un prosimetro nel quale i toni riflessivi si alternavano a quelli della prosa d’arte: descrivendo un celebre quadro, La liberazione di Andromeda di Piero di Cosimo conservato agli Uffizi, che al narratore pare emblematizzare i termini di una storia d’amore durata nove anni, e contemplata dalla sponda della sua fine). Il testo del Commiato, riutilizzato e interpolato nelle altre sezioni del libro, si ritrova in quella centrale: che se ne conferma il baricentro e l’innesco emotivo. E resta, seppur dimidiato dei versi (fra i più belli mai scritti da Inglese), uno dei pezzi forti della nostra letteratura recente.
Ricordo come qualche anno fa, a una festa di Nazione indiana che quella volta si tenne a Milano, Inglese confessasse un suo disturbo che, per quel che vale, condivido a mia volta: un’assoluta incapacità di orientarsi nello spazio, un senso dell’orientamento atrofizzato a livelli direi patologici. Ipotizzavamo che ciò fosse dovuto alla circostanza che nessuno dei due in vita sua, neppure per un mese, avesse mai abitato fuori da una grande città. Lo spaesamento confessato all’incipit di Parigi è un desiderio, la distrazione che intitola il libro di poesia più riuscito di Inglese (Luca Sossella 2008), è quella che qui viene definita «dislessia», «un ritardo psico-stilistico» tipico dei poeti – questa razza di inferiori-superiori, questi detective selvaggi per dirla col «nuovo fratello» Bolaño, magari etilicamente assistita, che a un certo punto diventa astensione intenzionale, ostinata e ostentata, dal focalizzarsi sulle cose del mondo e gli obiettivi della vita (a differenza da chi “ce la fa”, il contro-tipo dell’«intelligentone accademico» che non smette di «cantare un inno alla nitidezza del mondo»; laddove invece l’io narrante dichiara impossibile «il controllo, non dico del mondo ma del rubinetto di casa, dell’ampolla elettrica nel soggiorno, dei nostri familiari organi interni, dei movimenti del cuore delle persone che amiamo o temiamo, non possiamo controllare niente […], il mondo non è mai di fronte a noi in posa né raccolto ai nostri piedi, ma è laggiù, in via di disfacimento ed ebollizione»).
E tuttavia un centro, se non di controllo almeno d’orientamento, nel libro c’è. Al suo baricentro strutturale, ònfalos e big bang sprigionante, è infatti come dicevo la prolungata ekphrasis dalla Liberazione di Andromeda di Pietro di Cosimo: immagine araldica che ci s’illude possa «avanzare pretese chiarificatrici», «offrirsi quale chiave di lettura, lanterna provvidenziale per uscire dalla caligine amorosa». La precisione virtuosistica dell’atto retorico dell’ekphrasis sarebbe di per sé in controtendenza colla distrazione, parrebbe in qualche modo vocarsi al controllo, se non del mondo, della propria storia. Come è il caso, in fondo, di chi la propria vita decide di trasporre in un romanzo. Ma quella del quadro, significativamente, viene après coup definita «un’esegesi fallita». Come quella di un altro autore citato nel libro, il Georges Perec di Storia di un quadro, che fallisce nell’intento perché l’opera descritta, si scopre alla fine con un vero e proprio colpo di scena, altro non è che un falso.
L’autobiografia, dunque, non è che una falsificazione. Del resto, è così da sempre. Diceva Kafka (in un aforisma brillantemente commentato da Mario Lavagetto nella Cicatrice di Montaigne), « Confessione e bugia sono la stessa cosa. Per poter confessare, si mente. Ciò che si è non lo si può esprimere, appunto perché lo si è; non si può comunicare se non ciò che non siamo, la menzogna». Quando si affrontano questi temi, in contesto francese, il primo nome che viene alle labbra è ovviamente quello di Proust. Un’ascendenza che però viene subito denegata da Inglese, in favore di Céline («non proprio la Recherche e i salamelecchi di Swann nel salotto dei Guermantes, ma Bardamu sì»), il quale magari ispira l’epopea del risentimento – con quell’autodenigrazione autoincensatoria, ormai marchio di fabbrica di ogni autofiction – nei confronti degli «intelligentoni» che «elargiscono di preferenza musi da sfinge, sguardi astratti, sorrisini ipocriti, pacche sulle spalle con la mano contratta, ad artiglio» (ma tornerà più avanti, Proust, con significativo penchant per La prigioniera). A parte questo, però, non direi che Céline – a sua volta gran maestro di autofiction – sia un modello qui così attivo. Mentre è invece proprio il dispositivo della Recherche uno dei suoi ascendenti decisivi: tutto il libro, che pure evita accuratamente l’estasi memoriale e il ron-ron degli imperfetti a catena, è iscritto nella cornice di un ricordo, «una rammemorazione proustiana meticolosa» – Parigi contemplata dalla distanza non solo geografica di Procida, dove l’io narrante si ritira, un’estate, una volta sconfitto nei ludi amorosi – quanto ossessivamente astrologata: quello dei nove anni della storia con Andromeda.
Il Desiderio è quello che il soggetto maschile nutre per l’eterno femminino, si capisce. Ma in verità è proprio l’altro termine citato nel titolo, la città nella quale Inglese inscena il suo romanzo di formazione, a configurarsi sin dall’inizio come fantasma, oggetto di desiderio che, per il fatto di essere conseguito – di trasferirvisi, voglio dire, e risiedervi per diversi anni di seguito –, ovviamente non viene affatto esaudito. Parigi resta un “ideale”, «una piccola Gerusalemme celeste»: «un dogma proficuo» fuori dalla «tortura cinese» del disastro-Italia – quintessenza, quest’ultima, del «grande progetto smerdante del mondo».
Città-tòpos, letterario e figurale. Parigi «credenza» e, dunque, mito: «più si crede di stringerla in qualche modo, di tenerla per qualche bandolo, soprattutto una città come Parigi, più si sprofonda nel dogmatismo, nell’allucinazione, nella bolla di sapone». In sintesi – con sintagma caro a Manganelli – «una città non esiste»: se non, appunto, in quanto proiezione, fantasma, mito.
Il saggista che aveva dedicato un celebre libro appunto al Mito di Parigi (Einaudi 1965), Giovanni Macchia, in una sua opera successiva intitolata Le rovine di Parigi (Mondadori 1971) definiva la Recherche un’«allegoria del diluvio». Mostrando come quella che è la città dello splendore, la ville lumière, nella coscienza dei moderni – almeno da Benjamin in avanti – appare sempre, in realtà, la rovina di uno splendore più luminoso che immaginiamo rifulgesse nel passato. E del quale restano solamente, nel presente, le ceneri lievi del vissuto o, magari, una pozza acquitrinosa al fondo della quale, incerti, barbagliano frantumi e carabattole del tempo che fu. La pozza dalla quale emerge il Mostro raffigurato nel quadro agli Uffizi, appunto. Città di tutte le Cadute, Parigi: dopo quella raccontata da Baudelaire – che tutte le sussume – dell’Aura e della sua Corona sulla fronte del Poeta. Gli sventramenti modernisti di Haussmann, o addirittura quelli fantascientifici del tardo Novecento, alla Défense e altrove, non sono altro che una progettazione delle rovine del futuro.
In questo senso, e malgrado le apparenze contrarie, anche la Parigi di Inglese si inserisce nella costellazione di longue durée di quello che proprio Macchia, come dicevo, chiamava «il mito di Parigi» (definendola, a sua volta, la «Gerusalemme di un mondo laico»). Se la Parigi della tradizione è uno scenario accogliente di misteri e quêtes – sino, se si vuole, all’eponima ricerca proustiana e alla psicogeografia avanti lettera di Breton –, dopo Baudelaire la Città è sempre il modello di se stessa e il suo contrario, la propria stessa antitesi: insieme fiero slancio verticale della civilisation e compiaciuto inabissarsi catabatico nel sottosuolo, nel ventre inconfessabile di tutto ciò che alla coscienza, e alla buona coscienza, si contrappone. Una “città invisibile”, davvero, strutturalmente simile a quelle che canterà un parigino d’adozione come Calvino. Una post-Parigi, periferica e delocalizzata, anonima, “straniera”.
Così come è invisibile, qui, Parigi – coll’io narrante, sempre più bisbetico e strologante, barricato in anonimi intérieurs (sintomatico che quelli che fotografa siano «asfalti»: visioni rasoterra in cui la Città è uguale a tutte le altre città) –, allo stesso modo restano incomprensibili la sua storia con Andromeda – e il suo catastrofico concludersi. È questo, per dirla con Cercas, il punto cieco del testo. Quello che, a dispetto delle apparenze contrarie, lo rende un romanzo (almeno nell’accezione che, del genere, ha lo scrittore spagnolo). Come dice l’io narrante di Parigi è un desiderio che cerca di darsi ragione di quanto gli è capitato, «ogni tentativo di analisi, racconto, medicamento concettuale, ogni sforzo di rendere i fatti circostanziati, ogni perizia storica, tendeva all’onirico, ad ombre e allucinazioni, a voci interne, sibilanti, e non a frasi registrabili e sonore». In questo senso la sua situazione non è così distante da quella inscenata dal film di Godard, À bout de souffle, un cui fotogramma figura in copertina (e fa capolino pure nel testo). È anche la sottoconversazione di quel film («uno strano parlare distratto, per sussurri, senza davvero costruirlo mai un discorso, non avendo poi nulla da dire, ma con un tempo smisurato a disposizione»), forse, a fare da modello per i frammenti di discorso amoroso qui inscenati. Si tratta in ogni caso di un infinito intrattenimento: un libro come quelli di Blanchot, per l’appunto, dei quali si dice che sono «libri di cui è difficile dire qualsiasi cosa, perché finiscono nelle mani del lettore solo per sfuggirgli meglio». Così vuol essere questa scrittura, come quella dei Quaderni da cui proviene: un accatastamento «da rapsodo, da radiolina fuori frequenza, i documenti sono scarsi, disordinati, e mancano le date, la topografia è vaga, le cifre sono discordanti».
Solo che, del parlare distratto del film di Godard, manca la voce dei personaggi femminili, del tutto privi di interlocuzione nel testo. C’è solo l’onniloquente protagonista, affetto da «autarchia affettiva». E quella a cui assistiamo è dunque una sottoconversazione per voce sola: le donne, che pure punteggiano la narrazione e che in teoria al narratore avrebbero insegnato le cose più importanti (come la gentilezza, palestra sentimentale per il già punk milanese che alla gentilezza pensava «come a una cosa ipocrita, vescovile, di mente docile e schiava»: «mi hanno fatto capire che il vero comunismo comincia con la gentilezza»), sono ridotte a immagini – come il quadro oggetto dell’ekphrasis – ancorché venerate, come Andromeda a sua volta oggetto di una virtuosistica descrizione («congiungeva due bellezze, quella francese di madre e quella africana di padre», con quel che segue). Restano immagini mute, passive, puro oggetto di contemplazione – e strologamento, anche in forma di riproduzione digitale sulla quale infinitamente intrattenersi, un po’ à la Walter Siti. Infatti la psicomachia descritta nel capitolo ecfrastico è tutta fra San Giorgio e il Mostro, l’uno reversibile nell’altro e l’uno dall’altro generato: ad Andromeda resta solo la scelta di identificarsi, di volta in volta, con l’uno o l’altro dei principi maschili.
La Città, intanto, diviene allegoria insieme della Letteratura, e della Vita. Un’esistenza – quella del Mostro che è l’io – un mostro «d’insensibilità ed egoismo, arido come il Sinai, fredda e scostante faina, l’ego-centro immerso in un suo fanatico rimuginare, indifferente al cerchio degli umani, tutto preso da miraggi interni, di penombre, chino al suolo, come lo stupefatto bambino sul formicaio» –, il Mostro che «ama non sapendo amare», il Mostro che è una deriva, senza meta e senza effetto, senza scopo e (paradossalmente) senza desiderio, preso in «una mancanza di densità biografica». Unica possibile salvezza, la «medaglia Bianciardi»: ispirandosi a quella Vita agra che insegna che «occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha», in «un’aspirazione al nullafacimento radicale» improntata solo al caso delle mésalliances e alla psicogeografica “scienza degli incontri”.
Come la Città si scopre coincidere col proprio Mito, però, anche la Vita si riduce a lungo a quello che è uno dei propri Miti più persistenti, quello dell’Amore – e, anzi, della Fine dell’Amore: una «voragine», un «buco nero» che non permette di aggiungere, a sé, nient’altro.
Verso la fine, dice il narratore: «mi lamentavo dell’assenza di memoria, d’orientamento nello spazio e nel tempo, ma sapevo bene che il ricordo va costruito». Sicché la pagina finale, che segna il rifiuto dell’escrime fantasque colla Città e il ritiro nella Periferia della Vita (nella banlieue chic di Saint-Maur), è davvero il sugo di tutta la storia: «andare fino in fondo con una donna» (non la mitica Andromeda ma la reale Hélène), e farci addirittura una figlia, è la stessa cosa che «andare fino in fondo con la scrittura». È qui che si costruisce il ricordo: nel momento in cui lo si elabora, gli si dà forma, e in quel momento si scopre di essersi liberati dalla sua prigione. L’ultimissima pagina del libro dichiara l’intento di proseguire su questa strada, trasferendosi dalla banlieue chic, popolata di benestanti «sociopatici», alla banlieue rouge di Champigny dove, a «piazza Lenin», «le scarpe cosano dieci euro». È la conquista definitiva di quella che Hegel chiamava la prosa della vita.
Il vero sugo di tutta la storia, per paradosso, si trova alle spalle di Parigi è un desiderio: nella breve quanto intensa premessa al prosimetro-innesco, Commiato da Andromeda: «Alcuni anni fa, tre per l’esattezza, ho messo in moto qualcosa, un progetto di scrittura, per cercare di sormontare una voragine amorosa. Non si tratta semplicemente di una privata terapia. Mi sono trovato di fronte a un’occasione, non cercata ma fatalmente imposta, per verificare se la letteratura, o qualcosa di somigliante all’idea che me ne sono fatto, esista. Se la letteratura, o un suo sembiante, esiste, scendere in quel caos, in quel prodigio, significa passare dall’altra parte dello specchio: vedere strazi e peripezie personali come un dramma, da fuori scena, con i personaggi che vanno e vengono nella zona luminosa. Tutta l’agitazione, l’angoscia, l’appannamento che hanno foggiato l’intimità, dando all’io giorno per giorno il suo colore emotivo, sono sperimentati, ad un tratto, come i segni ambientali di una zona remota, d’un periferico universo da decifrare ed erigere, pezzo dopo pezzo, nuovamente, con assoluto arbitrio, con fedeltà disarmante, con audacia di baro».
Ed ecco, alla fine di Parigi un desiderio, l’io narrante sostenere – barando con se stesso – che «le uniche cose che mi hanno persuaso nella vita sono il desiderio amoroso e la dislessia poetica», e che «è venuto il tempo di coniugare le due cose». Ma «accondiscendere poi alla più cieca pressione della specie sul povero individuo coglione che sono, e quindi riprodurmi», non equivale affatto all’assecondare desiderio e dislessia. Come si vede appunto nella pagina finale, dove proustianamente tempo dell’esistenza e tempo della scrittura si ricongiungono, e dove lo splendore del passato è incendiato dall’assolutamente presente dell’urgenza biologica di un altro essere umano che nasce («nessuna cosa vale, esiste, che non sia il presente, questo qui, che ho addosso, in particole, frammenti, ombre, polvere»), al contrario vuol dire, né più né meno, rinunciare al mito del desiderio – quello che spinge sempre nel futuro, o nel passato, la propria soddisfazione – in favore della vita “reale”. Insomma, è giunto il tempo di «fare l’uomo» e, addirittura, di «fare il padre». E, con esso, quello di costruire il periferico universo di una forma letteraria conseguente, e sufficientemente ordinata. Di quelle che, in copertina, si possono persino definire «romanzi».
Andrea Inglese, Parigi è un desiderio, Ponte alle Grazie, 2016, pp. 319, € 16
[Immagine: Olivo Barbieri, Louvre (gm)]
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