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di Guido Mazzoni

 

1. Parole e metafore

 

Quello che è successo l’8 novembre era in larga misura inevitabile. È accaduto nel centro politico, economico e simbolico della Western way of life, e proprio per questo ci colpisce particolarmente; ma se non fosse accaduto negli Stati Uniti, sarebbe prima o poi successo in un altro grande paese occidentale. È un segno dei tempi e una frattura: occorre capire quanto sia profonda. Se ne possono isolare i tratti specifici e riflettere sull’ascesa delle nuove destre o la si può considerare nel quadro di una metamorfosi più larga che ha cambiato negli ultimi cinque anni l’assetto politico dell’Occidente. La Lega e il Movimento 5 Stelle in Italia, il Front National in Francia, Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, la destra in Olanda, Austria e Germania, il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, l’elezione di Trump negli Stati Uniti sono fenomeni politici molto diversi fra loro e forme di uno stesso evento.

 

Da quando la crisi ha cominciato ad avere effetti sulla vita quotidiana, una parte crescente delle classi popolari e delle classi medie ha cominciato a votare contro la logica politica ed economica che ha governato l’Europa occidentale e gli Stati Uniti negli ultimi decenni con un consenso largamente maggioritario. Di questa logica circolavano una versione liberalconservatrice e una versione liberaldemocratica, diverse nelle politiche ma unite da un presupposto di base: entrambe accettavano un sistema di valori, un principio di realtà che distingueva fra le cose che si potevano fare o dire e le cose che non si potevano fare o dire. In altri termini accettavano l’architettura di fondo della globalizzazione nella forma che ha assunto a partire dalla svolta neoliberale emersa in Gran Bretagna e negli Stati Uniti fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, e poi in Europa continentale fra la fine degli anni Ottanta, il Trattato di Maastricht e la sequenza di accordi che definiscono l’architettura attuale dell’Unione Europea. A partire dagli anni Dieci questo sistema ha cominciato in vari modi a perdere consenso.

La categoria più usata per interpretare questo fenomeno, la più controversa, è quella di populismo. Chi la usa ha in mente, in forma implicita o esplicita, un’idea precisa della democrazia rappresentativa e del suo funzionamento sano. In senso stretto, ogni democrazia contiene un elemento populistico, demagogico e alla lettera volgare, per la buona ragione che si vota a suffragio universale, i voti sono tutti eguali e non si governa senza la maggioranza relativa. E tuttavia la democrazia liberale nella sua forma classica addomestica questo elemento e affida alle classi dirigenti il compito di rielaborare i desideri delle masse alla luce di istanze che le masse, lasciate a se stesse, non sempre rispettano o comprendono. Si potrebbe illustrare questa posizione partendo dalla teoria politica, ma è più interessante partire da quella che Gramsci chiamava la filosofia dei non filosofi – in questo caso della filosofia delle classi dirigenti. In una delle sue ultime interviste Shimon Peres rifletteva sulla crisi della politica contemporanea in questo modo: «la politica è in crisi perché fatica ad adeguarsi al cambiamento della nostra epoca: Trump e Sanders ne sono il simbolo. Le aziende globali, invece, non cercano di governare ma di servire: sono elette ogni giorno dalle scelte dei consumatori»[1]. Mentre le aziende servono i desideri, e mentre Trump e Sanders si comportano più o meno come le aziende, la politica autentica, secondo Peres, non asseconda ma governa. La democrazia rappresentativa non-populista si sforza di tenere insieme due elementi diversi e potenzialmente contraddittori: intercetta i desideri delle masse e li governa, rispecchia gli elettori e li trascende, sia tecnicamente (chi governa deve conoscere la logica dei processi e dei sistemi) sia eticamente (chi governa deve garantire il rispetto di valori che le masse potrebbero non rispettare). Per chi si riconosce in questa idea, accettare la mediazione significa essere qualified per governare, (qualified è un termine ricorrente nel dibattito politico americano: Hillary Clinton era qualified, Trump era unqualified), non accettarla significa essere populista. Una variante di qualified è l’unfit di due celebri titoli dell’«Economist» su Berlusconi: unfit to lead Italy (2001) e unfit to lead Europe (2003). Nel 2013 sempre l’«Economist» avrebbe appaiato Berlusconi e Grillo sotto un unico titolo riassuntivo: Send in the clowns, fate entrare i pagliacci. Da qualche tempo una parte dell’opinione pubblica preferisce i pagliacci alle mediazioni.

 

Un altro modo di nominare il conflitto è l’antitesi fra forze sistemiche e forze antisistemiche. Mutuata dalla riflessione sui movimenti antagonisti di sinistra, entra nella discussione politica dopo il libro di Arrighi, Hopkins e Wallerstein Antisystemic Movements (1989). A partire dal secondo dopoguerra, e in modo sempre più evidente da quando il neoliberismo è egemone, l’economia-mondo è diventata un sistema sovranazionale interconnesso, una macchina economico-giuridica che sovrasta e controlla le politiche nazionali. Il più celebre degli slogan di Margaret Thatcher, there is no alternative, trasmetteva un’ideologia e al tempo stesso descriveva la realtà: negli ultimi tre decenni del Novecento l’economia, le istituzioni globali, i trattati hanno a poco a poco creato una gabbia d’acciaio neoliberale. Dentro uno spazio simile gli Stati sono attori di una scena che li oltrepassa, la politica economica fa crescere la ricchezza nazionale solo se sta dentro i parametri del sistema, le trasgressioni si pagano. Attraverso decisioni politiche gli Stati hanno ceduto quote sempre più larghe di sovranità politica a organismi sovranazionali, la quantità di denaro in mano a singoli soggetti privati supera il bilancio di nazioni medio-grandi, gli Stati scrivono le proprie leggi finanziarie per attrarre capitali, la sopravvivenza delle istituzioni dipende dalla vendita dei titoli pubblici sul mercato. I partiti che hanno governato gli Stati Uniti e l’Europa occidentale negli ultimi decenni hanno accettato questa architettura: alcuni predicano un’applicazione pura dei principi neoliberali; alcuni cercano di conservare un nucleo di garanzie socialdemocratiche smantellandone delle altre (Blair, Schröder, Prodi, Renzi), magari facendo parte di un’istituzione come l’Unione Europea che limita per legge l’intervento dello Stato nell’economia, difende la moneta e dichiara illegale la politica economica keynesiana imponendo il pareggio di bilancio. Uno slogan come there is no alternative vuole garantire fedeltà all’ordine neoliberale e descriverne la forza: quando nel 2015 Syriza ha vinto le elezioni in Grecia e provato a cercare un’alternativa, il sistema ha riportato l’anomalia all’ordine.

 

Un terzo modo per definire quello che sta accadendo è affidarsi alle metafore morte del lessico politico. Due delle formule che ricorrono più spesso in questi mesi sono quella del Salotto Buono e del Salto nel Buio: i partiti sistemici occupano il primo, una vittoria dei partiti populisti antisistemici comporterebbe il secondo. La natura del salto cambia a seconda della natura delle forze politiche: Podemos, Syriza e il Movimento 5 Stelle comporterebbero un salto nel buio economico; una loro vittoria, incompatibile con i parametri del sistema, porterebbe i loro paesi alla bancarotta; Trump, il Front National, l’UKIP, la Lega, la destra austriaca, olandese e tedesca getterebbero tenebra sulle garanzie democratiche, sui diritti civili e sulla politica dell’accoglienza. A lungo le classi popolari dei paesi occidentali si sono affidate ai partiti che appartenevano al salotto buono; oggi saltano nel buio. Lo fanno perché pensano di non aver più nulla da perdere e, di fronte a chi continua a dire there is no alternative, cercano un’alternativa. Perché è accaduto? Le risposte sono molteplici e stanno su scale storiche diverse, alcune di breve durata, altre di durata più lunga.

 

2. Un decennio storico

 

Nell’ultimo decennio l’Europa e gli Stati Uniti hanno conosciuto un’accelerazione che ha pochi precedenti in tempi di pace: hanno attraversato una crisi economica, hanno subito o percepito le migrazioni, hanno visto crescere un nemico planetario, hanno approvato leggi che ridefiniscono l’idea di normalità e promuovono l’autonomia individuale, hanno visto cambiare la struttura dell’opinione pubblica.

La crisi cominciata nel 2007-2008 ha avuto in molti paesi l’effetto economico di una guerra. Nata come crisi finanziaria e del debito si è rivelata una crisi da stagnazione: l’Europa e gli Stati Uniti non crescono più come prima. Non crescono abbastanza per compensare la distribuzione sempre più ineguale del reddito; non crescono abbastanza per creare lavoro, per ridurre la disoccupazione e la precarietà, per sostenere il debito, per mantenere il posto che occupano da secoli nella gerarchia politica ed economica mondiale. Se a metà degli anni Novanta i paesi del G7 producevano oltre la metà della ricchezza planetaria, oggi ne producono poco più di un quarto. Lo slogan principale di Trump, quello scritto sul suo cappellino, make America great again, allude a questo processo, che è oggettivo.

 

Nello stesso decennio, la migrazione di poveri da paesi non-occidentali, che esiste da decenni, ha raggiunto un’intensità nuova in Europa ed è stata percepita in modo nuovo negli Stati Uniti, dove pure il fenomeno risale al quindicennio precedente[2]. Ciò accadeva negli stessi anni in cui l’Isis rilanciava il progetto di Al Qaeda e consolidava l’idea che la Western way of life, come succedeva durante la Guerra Fredda, avesse un nuovo nemico planetario, il fondamentalismo islamico, e un nuovo nemico interno, una parte della popolazione musulmana. Le proporzioni sono molto diverse – il conflitto della Guerra Fredda era simmetrico, il nuovo conflitto è asimmetrico – ma produce un effetto simile: nei suoi discorsi elettorali Trump ha parlato dei musulmani americani come McCarthy o Reagan parlavano dei comunisti; nel 2010 Marine Le Pen ha paragonato le preghiere musulmane nelle strade francesi all’occupazione nazista del 1940. Negli anni successivi si è moderata, ma una parte del suo elettorato continua a ricordare quella frase perché in sostanza la condivide.

 

L’ascesa di un nemico planetario ha avuto luogo negli stessi in cui la legislazioni dell’Unione Europa e degli Stati Uniti ampliavano lo spazio dell’autonomia soggettiva, tutelando la parità fra donne e uomini, garantendo diritti alle persone omosessuali e ridefinendo l’idea di normalità. La cultura dei diritti ha una storia che dura da secoli e che subisce un’accelerazione dopo il Sessantotto. Indipendente dal neoliberismo (che, da parte sua, ha dimostrato di trovarsi bene con Obama come con Pinochet o col Partito Comunista Cinese), si sente comunque a casa nell’assetto neoliberale classico, di cui rappresenta il volto buono e progressista.

 

Questi eventi hanno avuto luogo nell’epoca in cui la Rete cambiava la struttura dell’opinione pubblica. Con la banda larga, Youtube, i surrogati di Youtube, gli smartphone, Wikileaks e i social network, internet è entrata nella fase propriamente politica della sua storia. L’influenza della Rete su Podemos e sui populismi che sfuggono all’antitesi fra destra e sinistra, come il Movimento 5 Stelle, è decisiva. L’Isis sarebbe impensabile senza internet. Al Qaeda sta alla televisione come l’Isis sta alla Rete: le azioni dei due gruppi sono pensate in relazione alla logica dei due media se è vero che «il terrorismo è un modo di comunicare e che senza comunicazione non ci sarebbe terrorismo»[3]. Se l’ascesa di Trump è legata alla televisione (per molti americani Trump è una celebrity fin dagli anni Ottanta, è il protagonista di The Apprentice e un personaggio di WrestleMania), e se una parte consistente del suo elettorato è più televisiva che digitale (in questo Trump assomiglia più a Berlusconi che a Grillo), il suo uso di Twitter, di Facebook e la collaborazione di Wikileaks hanno avuto un ruolo decisivo nella vittoria. Ma prima ancora che i singoli media, è stato decisivo il modo in cui la Rete ha trasformato la struttura dell’opinione pubblica. Internet distrugge le mediazioni, favorisce il rapporto diretto fra leader e una massa fusionale e instabile di eguali svuotando quello che sta in mezzo, trasforma i partiti in comitati elettorali personalistici, accorcia i tempi per la costruzione del consenso, crea un habitat sfavorevole alla democrazia rappresentativa nella sua forma novecentesca, fondata sugli apparati, i corpi intermedi e la politica come professione. Inoltre accentua parossisticamente la tendenza delle società moderne a dividersi in cerchie separate, in quartieri privi di un’agora comune, in mondi. Trump aveva contro quasi tutta la stampa, anche una parte di quella conservatrice, ha perso i tre confronti pubblici con Clinton, è stato attaccato da tutti dopo il video sulle donne, i suoi programmi venivano distrutti dal fact checking dei giornali e delle televisioni generaliste, ma questo non ha avuto effetto sui suoi seguaci, che non attribuiscono autorevolezza ai media ufficiali perché vivono in una sfera pubblica diversa, attraversata da altri discorsi, abitata da altri miti, gestita da altri media. È la stessa cosa che accadeva a Berlusconi, che non aveva internet, ma controllava la televisione privata. Questa segmentazione incide peraltro al contrario, nell’incapacità che i media di sistema hanno avuto nel capire quello che stava accadendo, come succede da anni a quasi tutti i sondaggi. Infine la Rete, garantendo a tutti la presa di parola nella sfera pubblica, moltiplica la doxa senza fondamento, distrugge i pareri degli esperti, svuota il principio di realtà, sparge cazzate. Le cazzate sono una componente fondamentale dei discorsi di Trump, e ancora di più del Movimento 5 Stelle, e in generale la cazzata è una categoria fondamentale per capire come funziona la discussione pubblica contemporanea: il pamphlet di Harry Frankfurt, On Bullshit, ha segnalato un fenomeno cruciale che resta ancora privo di teoria[4]. D’altra parte le cazzate sono anche il punto di partenza di ogni pensiero di cambiamento radicale: poche hanno una vera forza utopica, molte significano solo la propria idiozia, ma ogni progetto di trasformazione comincia dicendo cose che, agli occhi del principio di realtà, appaiono infondate, pericolose e puerili, perché il loro scopo è precisamente quello di creare un nuovo principio di realtà.

 

3. Gli effetti del neoliberismo nel tempo

 

Ma ciò che è successo ha ragioni più antiche. Proviene da decisioni prese negli anni Settanta, Ottanta e Novanta, è iscritto negli effetti a lungo termine della gabbia neoliberale e non poteva non accadere in qualche forma.

Attraverso scelte politiche degli Stati nazionali, il neoliberismo ha cambiato i rapporti di forza fra economia e politica, rendendo impossibili e mettendo fuorilegge quelle forme di prelievo fiscale e controllo sui capitali e sulle merci che sorreggevano l’economia sociale di mercato del secondo dopoguerra. A partire dal 2007-2008 diventa chiaro ciò che era implicito nella svolta degli anni Ottanta: sulla media o sulla lunga durata il modello che ne nasce porta all’impoverimento progressivo delle classi popolari e delle classi medie europee e americane, sia perché i meccanismi statali di controllo dell’economia e di compensazione delle diseguaglianze diventano insostenibili, sia perché il neoliberismo mette fuori mercato una parte della popolazione occidentale, che fa lo stesso lavoro ma costa di più e ha più tutele degli equivalenti cinesi, indiani, bengalesi, brasiliani, tailandesi o vietnamiti, nonché dell’immenso esercito industriale di riserva che il miglioramento dei trasporti e la libera circolazione dei capitali e delle merci rendono teoricamente disponibile. Nella campagna elettorale americana la presenza di questo processo era tangibile. Trump lo ha trasformato in un tema ricorrente, dalle sue prime interviste del 2015 ai suoi dibattiti televisivi con Hillary Clinton:

 

One of the big things is we have to take back jobs from China. We have to take back jobs from Japan, and Vietnam, and Mexico, and virtually everybody that’s taking our jobs and ruining our manufacturing base (intervista a MeetThePress, 2 agosto 2015).

I’m going to bring jobs back from China, Mexico Japan, Vietnam. They are taking our jobs. They are taking our wealth (dibattito alle primarie repubblicane, 13 febbraio 2016).

They’re using our country as a piggy bank to rebuild China. We have to stop our jobs from being stolen from us (dibattito televisivo con Hillary Clinton, 27 settembre 2016) [5].

 

Nello slang americano la consapevolezza che una parte delle classi popolari bianche era marginale e soprannumeraria rispetto al nuovo mondo si è tradotta nella metafora del white trash. Una parte degli elettori di Trump è white trash, spazzatura bianca, piccola borghesia impoverita o classi popolari, poco istruite o mediamente istruite, tendenzialmente provinciali, preoccupate per il proprio lavoro.

Nello schema neoliberale l’impoverimento delle classi popolari e medie si argina in tre modi: abbassando le pretese dei lavoratori occidentali (facendoli produrre di più, con salari più bassi, orari più ampi e flessibili, meno tutele), usando il debito pubblico e privato (la crisi del 2007-2008 scoppia perché le banche americane avevano concesso prestiti a classi di consumatori che realisticamente non erano più nelle condizioni di comprare una casa), ma soprattutto scommettendo sulla crescita. La crescita è stata, per decenni, il fattore che ha nascosto l’evidenza di ciò che stava accadendo sulla media durata: che la disoccupazione o la precarietà erano strutturali, che le diseguaglianze si stavano allargando oltre misura. Tutto questo peraltro è solo l’inizio di un problema che assumerà dimensioni drammatiche quando le generazioni che hanno impieghi precari o nessun impiego, e nessuna sicurezza di avere una pensione, invecchieranno e avranno bisogno di cura. Fino al 2007-2008 lo schema ha retto perché la crescita economica lo ha sostenuto e ne ha mascherato gli effetti negli anni: Stati Uniti ed Europa precarizzavano il lavoro e riducevano i salari reali, l’Europa prendeva atto che il suo modello sociale era diventato insostenibile. L’Unione Europea, che è stata costruita attorno a un’architettura neoliberale, ha cercato di allontanare la contraddizione in due modi: scommettendo sulla crescita e inglobando nel proprio mercato interno territori nuovi, dove il costo del lavoro era basso. L’espansione dell’Unione a Est risponde, tra le altre cose, a questa necessità.

 

Fra gli anni Ottanta e gli anni Zero le sole forze politiche che hanno apertamente sostenuto politiche antiliberiste erano la sinistra radicale e l’estrema destra. Entrambe avevano poco seguito, la sinistra perché legata a un tipo di organizzazione sociale e a discorsi che sapevano di passato, la destra perché ancora reggeva il bando etico sui fascismi nato dalla seconda guerra mondiale. Solo dopo la crisi le classi popolari e le classi medie hanno cominciato a votare per partiti che si schierano del tutto o in parte contro la globalizzazione. Alcuni sono di sinistra (Syriza, Podemos), altri sono ibridi (il Movimento 5 Stelle), la maggior parte si schiera a destra secondo una Weltanschauung comune.

 

4. Gated communities

 

È sbagliato leggere la destra populista alla luce della categoria storica di fascismo. Trump, Marine Le Pen, Salvini non sono fascisti nel senso storico del termine: manca del tutto l’elemento totalitario, la pretesa di sottomettere i singoli e la società civile allo Stato. La Weltanschauung di fondo è una forma di individualismo anarchico di destra, fondato sull’interesse personale e familiare temperato dal rispetto per alcuni principî morali conservatori. Come nel modello liberale classico, la società non è un soggetto etico, ma un aggregato di persone e famiglie che aspirano al benessere e all’autonomia privata. Lo Stato è percepito spesso come un nemico e dev’essere minimo: Trump, come Berlusconi, è un maestro di elusione fiscale oltre che un miliardario, ma i suoi elettori non lo hanno punito per questo; al suo posto avrebbero fatto la stessa cosa, avrebbero cercato di non pagare tasse per diciannove anni consecutivi.

 

La tecnica di governo cui la destra populista guarda non è il fascismo: sono le gated communities – i quartieri ricchi in cui possono entrare solo gli autorizzati e nei quali in ogni caso vige una distinzione ineliminabile fra residenti e non residenti. L’immagine più potente che Trump ha messo in giro durante la campagna elettorale, il muro col Messico, faceva riferimento a questo modello inconscio proiettato nello spazio-mondo; il mito della Svizzera che la Lega coltiva da molto tempo esalta una nazione ricca e percepita come una comunità chiusa. È già esistito un equivalente politico statale della gated community – l’apartheid. L’Occidente non rischia il fascismo: rischia una forma più o meno blanda di apartheid: una minoranza globale di benestanti (su scala globale quasi tutti gli occidentali lo sono ancora) si proteggerà, con le frontiere e le espulsioni, dall’invasione degli aliens (negli Stati Uniti lo straniero, il non-cittadino si chiama alien – una voce che riporta in vita uno dei significati del latino alienus). Se l’apartheid agisce sulle persone, il corrispettivo dell’apartheid sulle merci è il protezionismo: Trump ha costruito una parte del proprio consenso elettorale attaccando il libero commercio così come è praticato adesso. Questo è un punto difficile da accettare per la sinistra: la destra populista è la prima forza politica con un largo consenso che negli ultimi decenni abbia messo in discussione la libera circolazione delle merci attraverso le frontiere; il programma economico di Trump unisce alcuni elementi neoliberali puri come la riduzione delle tasse, dei controlli sulla borsa, delle tutele sul lavoro, delle tutele ambientali, a un elemento che va contro la doxa neoliberale, il protezionismo. Peraltro il protezionismo dovrebbe anche far parte di ogni programma politico che difendesse la socialdemocrazia in un solo paese, per così dire, purché questo paese fosse abbastanza ricco e abbastanza grande.

 

Ma se un certo fondo di anarchismo unisce la destra populista al modello liberale classico, ciò che li separa è l’ethos. La destra populista costruisce se stessa attorno a un’antitesi netta, identitaria, fra Noi e Loro. Il Noi si costruisce attorno a un senso comune che, in un equilibrio fondato sul contrasto, unisce individualismo, conservatorismo tradizionale e, soprattutto negli Stati Uniti, principî religiosi (occorre ricordare che gli Stati Uniti sono molto meno secolarizzati dell’Europa: il presidente giura sulla Bibbia, Dio è sulla moneta e nel discorso pubblico; persino Obama, che è cresciuto ateo, si è fatto battezzare quando ha cominciato a fare politica). È una mentalità al tempo stesso paternalistico-autoritaria, particolaristica e trasgressiva. Di solito si aggrega attorno a figure fallico-narcisiste che, pur proclamando principî conservatori, sono l’antitesi del dovere – sia perché hanno comportamenti trasgressivi, sia perché il loro discorso pubblico è costruito contro un Super-Io (dei liberal, della correttezza politica, del salotto buono e della buona educazione). Ad ogni modo è significativo che alla guida dei movimenti populisti di destra ci siano spesso figure autoritarie ma trasgressive, e proprio per questo capaci di interpretare rabbia, risentimento e ribellione. È significativo che il candidato repubblicano fosse Trump, che non sembra credere a nulla se non al proprio ego, e non uno psicorigido come Cruz, che crede davvero in Dio e nei principî.

 

Il senso comune cui la destra populista si richiama nasce dall’arcaico: è l’ethos dei primi occupanti, che separa i legittimi dagli illegittimi, i normali dagli anormali, gli autoctoni dai barbari. Il gruppo dei primi occupanti trasforma la propria identità nel corso del tempo, includendo gruppi di secondi occupanti radicati, o mostrandosi più tollerante verso identità di genere e comportamenti che fino a qualche anno fa avrebbero portato all’esclusione, ma non viene mai meno l’asimmetria fra chi viene-prima e chi viene-dopo. Gli slogan partono da questo: «America First», «La France aux Français», «Britain First», «Prima gli italiani». Vengono lasciate delle vie per entrare nel primo gruppo (l’assimilazione) o per conviverci (la sottomissione culturale): chi non si assimila suscita invece odio. In questo senso chi non può fisicamente mimetizzarsi, i non-bianchi, quelli che forza di cose portano in giro la propria differenza, sono svantaggiati a priori. C’è sempre un sottotesto razzista nei populismi di destra: è sostanzialmente impossibile per Trump non fare battute sull’aspetto o sull’accento degli orientali o degli ispanici (sugli afro-americani si trattiene, ma solo perché rischia di più). E soprattutto l’odio spetta a coloro che mostrano di non volersi assimilare, i musulmani. Dell’elemento arcaico fa parte anche il sottotesto maschilista che attraversa una parte dei populismi di destra. Ciò che Trump dice delle donne non suscita troppo scandalo fra i suoi elettori e fra le sue elettrici, perché nel loro ethos certe cose sono brutte ma non vanno prese alla lettera: sono chiacchiere da spogliatoio, e comunque gli uomini, i maschi, sono fatti così e vanno accettati, almeno fino a quando non mettono in discussione la famiglia. Trump ha perso qualche voto del suo elettorato femminile ma non troppi. La stessa cosa capitava a Berlusconi.

 

5. Terra e Mare 

 

Ciò che accade nella scena politica contemporanea sembra aver riaperto un’opposizione archetipica della politica e della società moderna, quella che Schmitt riassumeva nell’antitesi fra Terra e Mare, e Deleuze nell’antitesi fra territorializzazione e deterritorializzazione, fra luoghi e flussi. I populismi di destra fanno riferimento ai principî di un ethos terrestre: il radicamento, un quadro di valori sottratti al relativismo e alla critica, a un’idea mobile ma persistente di normalità contrapposta a molte forme di anormalità (culturale, di gender e, in modo velato, di razza). La globalizzazione nella sua versione liberal fa invece riferimento a un ethos marino (o aereo, come si dovrebbe dire oggi): l’ethos di chi viaggia, di chi si muove nello spazio-mondo, di chi viene accolto e, in teoria, si predispone ad accogliere[6]. Nella storia della vita psichica e della civiltà, il secondo ethos (tollerante, metropolitano, cosmopolita, multiculturale, fondato sul rispetto dei diritti personali e sul culto della libertà negativa) è ulteriore rispetto al primo. Come tutti i prodotti della civiltà, si fonda sull’educazione, sulla mediazione, su un Super-Io che, negli ultimi decenni, ha preso la forma severa della correttezza politica; come tutti i prodotti della civiltà, genera disagio.

 

L’antitesi fra Terra e Mare è anche il nucleo del fenomeno sociologico più interessante di questa fase storica, quello su cui insistono molte analisi del voto sul referendum britannico e sulle elezioni americane: la frattura fra due classi medie. La linea di faglia, che non passa tanto dal reddito quanto dal tipo di istruzione e dall’antitesi fra periferia e centro, fra provincia e metropoli, separa la middle class terrestre dalla middle class marina. Mentre la seconda resta ceto medio riflessivo e vota per i partiti sistemici, la prima salta nel buio insieme a una parte consistente della vecchia classe operaia. Il momento in cui la frattura si è manifestata con più chiarezza è il referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea. Ma la faglia passa soprattutto dal modo in cui questi due gruppi si collocano in rapporto alla globalizzazione. La classe media marina la vive come un’opportunità o come un destino; una parte dei ceti popolari e dei ceti medi impoveriti la vive come una doppia lotta di classe – verso l’alto, contro le élites dirigenti cui finora ci si è affidati (l’establishment), e verso il basso, contro gli stranieri che rubano il lavoro e i migranti che impoveriscono quartieri già impoveriti.

 

6. La scena politica contemporanea 

 

L’economia sociale di mercato del secondo dopoguerra sarà ricordata come il punto più alto della storia occidentale. Ha garantito alle classi popolari diritti, salari e possibilità che le classi popolari non avevano mai avuto e che in altre parti del mondo e in altre epoche vengono considerati irraggiungibili. Le socialdemocrazie e le cristiano-democrazie europee, in particolare, hanno distribuito alle masse beni di cui oggi percepiamo la rarità: l’assistenza sanitaria per tutti, l’istruzione per tutti, le pensioni, talvolta la casa, talvolta il lavoro trasformato in un principio costituzionale. Tutto questo è stato possibile al termine di un processo secolare per versi aspetti irripetibile, e al quale ha contribuito un insieme di fattori: la pressione che il movimento operaio e sindacale ha esercitato sulla borghesia fra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; la necessità da parte della democrazia liberale di reagire al socialismo reale e al fascino delle utopie politiche di sinistra; la crescita generata dalla ricostruzione postbellica; il compromesso fra capitale e lavoro che si era creato dopo il 1945 e che permetteva lo sviluppo dei mercati interni; i vantaggi che l’eredità del colonialismo e il neocolonialismo garantivano alle economie occidentali. Questo equilibrio va in crisi nel corso degli anni Settanta: il neoliberismo è la risposta. In tempi rapidi diventa un sistema, una gabbia fatta di accordi e connessioni, dotata di una logica interna rigida, solidissima, più forte dei singoli soggetti politici della scena mondiale. Il neoliberismo sottrae il capitale al controllo politico garantendo libertà di circolazione al denaro e ai prodotti, cerca di difendere a tutti i costi la moneta, trasforma in merce ciò che prima era pubblico. Si potrebbe riflettere a lungo sulle ragioni che hanno portato la parte maggioritaria delle forze che discendevano, più o meno alla lontana, dal movimento operaio ottocentesco e novecentesco a deporre un modello alternativo e a entrare nella gabbia; e si potrebbe riflettere a lungo su quale sia stato l’effetto complessivo del neoliberismo sulla distribuzione della ricchezza globale e sulla giustizia planetaria (è una questione cruciale di filosofia della storia, la più importante oggi), ma non lo si può fare nello spazio di questo intervento. Sta di fatto che nei paesi occidentali il neoliberismo è stato per decenni visto, a maggioranza larga, come ciò che aveva fatto ripartire il capitalismo, come un modello che funzionava; i suoi effetti si sono sommati alla crescita prodotta dalla rivoluzione informatica e hanno contribuito a nascondere per decenni ciò che sarebbe accaduto sulla media durata. La crisi del 2007-2008 ha cambiato la percezione.

 

Oggi tre gruppi di forze si affrontano sulla scena politica contemporanea. I primi sono i partiti sistemici, quelli che ancora appartengono al salotto buono. Con accenti diversi, vogliono proseguire con ciò che chiamano «le riforme», cioè con provvedimenti che adeguino il mercato del lavoro e l’amministrazione dello Stato alle esigenze del capitalismo. Sperano che le riforme e le produzioni ad alto valore intellettuale aggiunto facciano ripartire la crescita, permettendo alle classi popolari e medie di non perdere ricchezza. Di fatto la loro rischia di essere una gestione razionale della decadenza, che comunque assicura la tenuta del sistema e la protezione dei diritti civili.

 

Il secondo gruppo sono i partiti antisistemici di sinistra, o i partiti che sfuggono all’antitesi fra destra e sinistra, come il Movimento 5 Stelle, ma includono nei loro programmi, in mezzo ad altre cose, delle idee di sinistra. Alcuni hanno vinto le elezioni, altri possono vincerle; difficilmente possono durare, sia perché non avrebbero la forza di piegare la logica del sistema, sia perché probabilmente non avrebbero la forza di gestire la complessità, sia perché il loro radicamento nel senso comune è debole. Forse la storia della sinistra è finita con la fine del fordismo: i tentativi di prolungarne l’esistenza sono stati flebili o hanno portato ad altri esiti. L’ultraindividualismo contemporaneo non favorisce né la solidarietà, né il tentativo di resuscitare stabilmente l’impegno o la democrazia degli antichi attraverso la rete. Oggi sinistra è il nome che diamo alle nostre anime belle, alla nostra fuga davanti al destino, al nostro rifiuto di agire nel mondo.

 

Il terzo gruppo sono i populismi di destra. Sono forti, anche perché si richiamano a un sostrato arcaico, a un senso comune che attende di essere resuscitato dalle circostanze, secondo un fenomeno che si verifica da decenni. Didier Eribon lo ha descritto in un libro molto bello, Retour à Reims, raccontando come un quartiere operaio abitato da lavoratori che negli anni Sessanta si riconoscevano nel Partito Comunista Francese («le Parti», il Partito per antonomasia, come nei quartieri operai e nelle regioni rosse italiane) e prendevano la parola come un soggetto collettivo dicendo «nous, les ouvriers», sia passato in blocco, nel giro di pochi decenni, al Front National[7]. Il programma economico del populismo di destra che ha vinto le elezioni è perfettamente capitalistico, è reaganiano: Trump vuole ridurre le tasse ai ricchi, ridurre le tutele sul lavoro, usare il debito pubblico per far ripartire l’economia confidando nello statuto speciale degli Stati Uniti come perno dell’economia-mondo, paese cui sono concessi margini di indebitamento che ad altri paesi non verrebbero concessi. L’elemento di tensione è rappresentato dal protezionismo, di cui per ora non si possono prevedere gli effetti, sia perché non sappiamo che cosa Trump voglia effettivamente fare (non lo sa nemmeno lui), sia perché non sappiamo quali risultati il protezionismo produrrà nel sistema. Ad ogni modo, per ora la macchina neoliberale non teme Trump: non c’è panico sui mercati. Questo lo rende forte. Potrà procedere con i programmi di apartheid (vedremo quanto saranno severi, ma qualcosa dovrà fare, perché è così che ha vinto le elezioni) e potrà rinegoziare gli accordi di Parigi sul clima, cioè annacquare o sabotare la decisione di lunga durata più importante per il futuro dell’economia capitalistica e del pianeta.

 

7. Democrazia

 

La logica dell’intervento politico come genere letterario vorrebbe che a questo punto si indicasse una soluzione. Ma proprio una simile necessità retorica sposta il discorso sui problemi di lunga durata che l’ascesa dei populismi pone: la questione della democrazia e il significato complessivo della rottura.

Fra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’ascesa del suffragio universale maschile fu accompagnata da una serie di discorsi filosofici sull’irrazionalità delle masse: Nietzsche, Sighele, Le Bon, Tarde, Park, Freud, Ortega y Gasset, T.S. Eliot, Huizinga, Valéry. L’ultimo grande esponente di questa linea di pensiero è Canetti. Posizioni simili rimandavano a una lunga tradizione di contemptus vulgi, a un topos della filosofia politica occidentale che Platone è il primo a sviluppare e le cui prime tracce si trovano già nel secondo libro dell’Iliade, quando Ulisse umilia Tersite per i suoi attacchi populistici ad Agamennone. Sono stati i partiti di massa del secondo Novecento e la loro capacità di governare le masse a smorzare gli effetti di questa linea di pensiero e a oscurarla, confinandola a destra e promuovendo un’idea diversa del popolo e del numero – un’idea che emerge con la Rivoluzione francese e alla quale il pensiero marxista dà una delle legittimazioni più alte quando Engels presenta il movimento operaio come l’erede della filosofia classica tedesca[8]. In effetti molte delle riflessioni ottocentesche e primonovecentesche sull’irrazionalità costitutiva delle masse sono elitarie e di destra – e tuttavia ci ricordano tre cose. Innanzitutto che la democrazia è un dispositivo fragile: Mussolini e Hitler hanno formalmente vinto le elezioni, così come Putin, Erdogan e Orbán, e hanno goduto a lungo del consenso popolare, così come Putin, Erdogan e Orbán. In secondo luogo, che il topos speculare al contemptus vulgi, il vox populi vox dei, non è meno ingiustificato del primo. La democrazia è un meccanismo per regolare pacificamente la guerra civile che sta al fondo di ogni società umana, ma non è di per sé una fonte di verità: da Platone in poi, il rapporto fra verità e doxa è il primo dei problemi che la cultura si deve porre. Infine la democrazia accentua la tendenza, implicita in ogni governo, a pensare al qui-e-ora e non in prospettiva, mentre il mondo interconnesso, che nell’ultimo secolo ha scatenato forze potentissime, avrebbe bisogno di governi capaci di pensare la media e la lunga durata dei processi e di prendere decisioni impopolari, a cominciare da quelle che riguardano il clima e il controllo della tecnica. Ciò però non è possibile, sia perché il pianeta globalizzato rimane diviso in nazioni in concorrenza, in guerra fredda o in guerra aperta fra loro, ed è infantile pensare che possa non essere così; sia perché i governi debbono rispondere a opinioni pubbliche che, come tutte le opinioni pubbliche, sono legate al presente e attraversate da correnti irrazionali. Oggi può sembrare chiaro che le contraddizioni esplose con la crisi del 2007-2008 erano inscritte nell’ordine neoliberale, e che i partiti socialdemocratici degli anni Ottanta e Novanta, entrando nella gabbia, avrebbero finito per consegnare una parte della propria base alla destra; e tuttavia negli anni Ottanta era oggettivamente molto difficile rifiutare i benefici immediati della globalizzazione neoliberale o opporsi.

 

Infine occorre riflettere sul significato della rottura politica di cui Trump è segno, sintomo e latore. Per gli ambienti liberal anglosassoni ha avuto l’effetto di un trauma filosofico, così come il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. A giudicare dalle reazioni, lo spostamento a destra dell’opinione pubblica in paesi nei quali l’egemonia borghese e liberale non aveva mai subito scosse sta avendo, per la cultura americana e britannica, lo stesso impatto che ebbe, nella cultura marxista continentale, la fine di quella che Calvino chiamava «l’antitesi operaia» – cioè la scoperta che il proletariato lasciato a se stesso non vuole la Rivoluzione, l’uomo nuovo e la giustizia in terra: tutt’al più vuole la socialdemocrazia, ma soprattutto vuole una bolla di autonomia soggettiva e di benessere, vuole il frigorifero, la vacanza al mare, e in prospettiva la Playstation. È il risveglio da un’illusione politica e antropologica, nonché una ferita narcisistica per intellettuali convinti che l’Illuminismo debba rappresentare, per tutti e per sempre, l’uscita degli esseri umani dalla minorità. Se la Rivoluzione non era l’esito necessario della modernità, allo stesso modo potrebbero non esserlo la tolleranza, il mutuo riconoscimento dei diritti, l’apertura all’altro, l’accoglienza, la correttezza politica. Perché lo siano, occorre innanzitutto che sia garantito il benessere; poi occorre che l’abitudine a un mondo marino e il Super-Io ingentiliscano i costumi piegando l’ostilità ancestrale per gli altri, la differenza, il non-identico. La democrazia, l’Illuminismo, ciò che per noi è la civiltà sono edifici instabili e poggiano, come tutti gli edifici umani, su fondamenta materiali.

 

(9 novembre-24 novembre 2016)

 

Note

 

[1] S. Peres, La crisi è mondiale, siamo ancorati al passato, intervista con M. Russo, «La Stampa», edizione digitale, 12 febbraio 2016

[2] Negli Stati Uniti l’immigrazione clandestina ha avuto luogo soprattutto fra il 1995 e il 2005.

[3] M. McLuhan, Contro i terroristi l’arma più efficace è il silenzio, intervista a G. Fantauzzi, «Il Tempo», 19 febbraio 1978.

[4] On Bullshit esce per la prima volta nel 1986 su rivista e viene ripubblicato in volume nel 2005 da Princeton University Press. In italiano è uscito col titolo Stronzate (Rizzoli 2005).

[5] http://www.ontheissues.org/2016/Donald_Trump_Jobs.htm

[6] Cfr. M. Lind, This Is What the Future of American Politics Looks Like, in «Politicomagazine», 22 maggio 2016 e J. Haidt, When and Why Nationalism beat Globalism, «The American Interest», 1, XII, 10 luglio 2016.

[7] D. Eribon, Retour à Reims, Paris, Fayard, 2009.

[8] F. Engels, Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie (1886); trad. it. Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 77.

[Immagine: Donald Trump].

49 thoughts on “Il salto nel buio. Una riflessione sulla politica contemporanea

  1. “ Venerdì 30 gennaio 2009 – La semiologia è ormai alla portata di tutti. Brutto segno. La semiologia induce a occuparsi delle « cazzate » – introduce l’idea che non siano così « cazzate » come siamo abituati a pensare. Alla fine comunque chi ci guadagna sono le « cazzate » – quelli che le fanno, che le vendono. (Da scrivere: una storia delle « cazzate », del « cazzatismo ») “.

  2. Tersite riflette a un tempo (caso unico in tutto il poema) il punto di vista della massa anonima dei soldati e quella del lettore scettico dell’Iliade: andare a morire in guerra per riportare Elena da Menelao non è giusto né verosimile per chi non riceverà nessun beneficio reale, l’oggetto del contendere è simbolico, l’offesa è accolta come tale dal popolo è simbolica ed esiste solo nella misura in cui regge la finzione di chi è investito del potere. Quest’ordine del discorso vince, Tersite è zittito con le bastonate e umiliato (gli viene tra l’altro ricordato di essere brutto, come la realtà), così la guerra e la finzione degli atridi può andare avanti, in assenza di benefici materiali per la maggioranza, comunque felice di andare al macello, superato il momento di verità e di dubbio del discorso di Tersite.
    Mi pare quindi, che il termine realismo assuma oggi termini opposti nel contesto dei discorsi politici e nell’analisi delle forme simboliche, ivi compresa la critica letteraria: in un intervento recente apparso su questo blog (http://www.leparoleelecose.it/?p=25124), Gianluigi Simonetti riportava al centro dei problemi della stilistica contemporanea gli “effetti di realtà” (non solo di “reale”), stratagemmi narrativi volti a bucare la finzione, sia ponendo l’accento sulla crudezza del vissuto empirico su scala individuale, sia attraverso la mimesis del linguaggio dei social media.
    Trump il bugiardo, l’evasore, il cazzaro, ha vinto le elezioni a colpi di “effetti di realtà”: il suo discorso è risultato accettabile a chi riconosce solo la sfera minoritaria dell’esperienza immediata, agli occhi di chi il discorso razionale, lungimirante e superegotico dei partiti liberali e liberalconservatori appare una finzione nonostante il suo “realismo”. La loro competenza, il loro controllo oggettivo sull’avvenire vengono percepiti come gabbia, le loro guerre non apportano nessun vantaggio alla maggior parte della popolazione; non a caso, l’equivalente geopolitico delle misure protezionistiche in economia è, tra le promesse ti Trump, la fine dell’ingerenza americana nei conflitti internazionali. Sufficientemente amplificato, l’effetto di realtà dei discorsi di Tersite (questa battaglia non ci riguarda) funziona, ma questo accade anche perché quella di Tersite non era solo “bullshit”, e la ragione degli atridi passati e presenti non è poi così ragionevole.

  3. Questo articolo è un esempio potente di intelligenza, è chiaro, sintentico e indispensabile. Se si desse più spazio nel discorso pubblico a un simile livello di approfondimento (ma basterebbe molto meno), Trump nemmeno ci potrebbe essere. Obiettare che la gente non vuole leggere testi complessi ha senso fino a un certo punto, visto che la civilizzazione funziona come un lavoro collettivo (Super-io, dice Mazzoni): non è per semplice istinto che abbiamo iniziato a cucinare la carne invece di mangiarla cruda.
    Forse però bisognerebbe riconoscere un margine di possibilità anche all’organizzazione della resistenza. Descritta la forza sistemica delle oppressioni, non credo si possa davvero considerare volontaristica e infantile ogni alternativa. La microeconomia esiste, le cooperative sociali esistono, i piani per una riconversione ambientalista della Cina esistono e, per quanto problematica sul piano etico, esiste anche la lotta armata razionale e giusta, dal basso verso l’alto.
    Certo, il calcolo delle probablità non è a favore, ma l’uomo resta pur sempre la bestia a cui è concesso dire di no.

  4. “ Martedì 16 ottobre 2008 – Oggi qualcosa di « inspiegabile » su Repubblica. Il titolo di un articolo di Al Gore: « Se la Terra muore per colpa degli alieni ». L’ho letto tutto, ma di questi « alieni » non c’è traccia. Semmai si dice il contrario: che la Terra può morire per colpa nostra, di noi che la abitiamo etc. Sarà un refuso, ma, almeno per me, è soprattutto uno spavento. “.

  5. “Infine la Rete, garantendo a tutti la presa di parola nella sfera pubblica, moltiplica la doxa senza fondamento, distrugge i pareri degli esperti, svuota il principio di realtà, sparge cazzate.”

    D’accordo. Ma come fa Trump a essere credibile? Come riesce Trump a far credere a quello che dice nonostante non fornisca alcuna prova? Come fa a scalzare il referente, a renderlo indifferente? Questo è il problema più puntuto, mi pare, e per accostarlo potrebbero aiutarci soprattutto questi saggi: De mendacio di Agostino, Truth and Politics di Hannah Arendt, Histoire du Mensogne di Derrida, No One Left to Lie di Hitchens (non Nietzsche, però, non stavolta).
    Ma forse più di tutti ci potrebbe aiutare Rousseau. Qual è la prova della sincerità di Rousseau? Il fatto che sia stato capace di confessare le cose abominevoli che ha fatto. Rousseau nelle Confessioni costruisce un capitale di credibilità attraverso la confessione di misfatti. Così Trump: il fatto che abbia ammesso alcuni dei suoi misfatti passati diventa la garanzia della sua sincerità globale. È in questo modo che ha fabbricato la sua credibilità ed è in questo modo che rende ora ogni tentativo di controllo dei fatti irrilevante, o indifferente.

  6. Articolo altamente condivisibile. Analizza tutta la narrativa politica on- e off-line, senza giudizi chic, ma piuttosto motivandola con gli avvenimenti storici che stiamo vivendo.

  7. Ma i “credenti” in Trump li costruisce Trump con le sue “cazzate? Il rapporto tra Trump e i suoi elettori va cercato soltanto nella sfera delle “credenze”?

  8. «Oggi sinistra è il nome che diamo alle nostre anime belle, alla nostra fuga davanti al destino, al nostro rifiuto di agire nel mondo».
    Ecco, su questo sono d’accordo, e anche sul fatto che « il pianeta globalizzato rimane diviso in nazioni in concorrenza, in guerra fredda o in guerra aperta fra loro, ed è infantile pensare che possa non essere così». Secondo me la resistenza richiamata esplicitamente da Luca Cristiano (alla quale allude, credo, anche Raffaello Rossi) non solo non vincerà, ma è di per sé un fantasma, qualcosa di cui si ha bisogno solo per autoassolversi o per illudersi.
    Questo intervento mi pare molto lucido. Intravedo, tuttavia, una forma di nostalgia per una organizzazione della vita (e per un sistema ideologico) considerata migliore, che viene collocata nel passato. Il presente sarebbe il compimento o l’evoluzione negativa di questo passato. Se la modernità non aveva e non ha come esito necessario la Rivoluzione, mi domando, quale è il suo esito naturale, il suo futuro (non il suo destino)? Quella descritta in questo post è solo una fase?
    L’apartheid, le frontiere, non durano per sempre. Se estremizzati, conducono sempre a un finale del genere:

    https://www.youtube.com/watch?v=0CbwFZ2A9do

    Una apocalisse di questo tipo mi sembra poco realistica, tutto sommato. Quanto alla sua forma blanda, come viene definita nell’articolo, la vera domanda è: saremo in grado di percepirla come tale? Ho il dubbio che forse, nel momento in cui venissero meno definitivamente sia il fantasma resistenziale dei commentatori sia la nostalgia dell’autore, l’apartheid (in tutte le sue varianti e versioni blande) non sarebbe neanche più riconosciuto come tale.

  9. Saggio di una chiarezza invidiabile. Il finale è mirabile, rende evidente una volta per tutte, per chi ancora non lo avesse capito, che ogni paradigma, anche l’idea che abbiamo di ‘civiltà’, così come ogni doxa, sono il frutto, in senso marxista, di fondamenta materiali, in senso nicciano, di uno scontro tra forze. Continuo però a non essere d’accordo sul giudizio che si dà alla sinistra, all’idea stessa di sinistra. C’è troppa disillusione (che rischia di diventare distacco-asettica accettazione del reale); e in questa disillusione, non nella fine del fordismo, sta la fine storica della sinistra. Guardare il mondo dall’alto, quasi dal di fuori di sé, permette una visione chiara e trasparente sulla realtà; allo stesso tempo però nega qualsiasi contatto con lo sporco, il vivo, la fanghiglia vera e concreta dell’esistente. In questa, nel lavoro quotidiano e collettivo, anche e in primo luogo nel piccolo spazio locale che sta attorno ad ognuno di noi, sta l’unico seme che può costruire una sinistra che sappia proporre seriamente un’alternativa al sistema che viene descritto. Senza il contatto quotidiano con la realtà rimane solo uno sguardo incredibilmente chiaro, ma allo stesso tempo inerme. Può sembrare un discorso banale ma non lo è. I cambiamenti decisivi si verificano come esito di un lavoro costante nel tempo che li precede. Nel momento in cui – intellettuali o no – si compie il movimento di allontanamento dal reale, lì, in questa presa di distanza, sta la fine della sinistra.

    Se la middle class (che qui sembra essere l’unica classe esistente, ma forse anche questo andrebbe approfondito) ha iniziato a rivolgersi contro l’establishment, ha avuto un rigetto per la forma-mondo affermatasi, significa che i germi per la nascita di un qualcosa (non obbligatoriamente oggi, ma in un futuro prossimo o lontano) ci sono. E’ ancora la vecchia concezione del primo piccolo PCd’I che emerge, l’idea bordighiana che le masse, sebbene amorfe, inconcludenti e irrazionali, possano raggiungere il sentimento di un riscatto nel momenti in cui le loro condizioni materiali d’esistenza peggiorano e e mano a mano si avvicinano al fondo. Lì scatta una molla secondo il marxismo più classico. Gramsci criticava questa concezione e riteneva la presa di coscienza collettiva della propria condizione come passaggio ineliminabile per una rivolta che sappia affermarsi sul lungo periodo, ma forse questo – specialmente oggi – non possiamo chiederlo alle masse, così mutate e direi distratte da tutti i fattori che Mazzoni ha elencato. Dire, quindi, che la sinistra è morta col fordismo, o che (questo pare sottinteso) siamo giunti alla fine di UNA storia, quella fra classi in senso marxista e quindi con un ideale rivoluzionario all’orizzonte, è una presa di posizione che credo non ci si possa permettere.

    Riguardo al benessere, alla sfera di sicurezze, tranquillità e consumo che ogni individuo sembra desiderare, credo che la questione sia più complessa. L’amor proprio da sempre è l’elemento fondante, davvero intrinseco, di ogni individuo. Il problema è la direzione che intraprende, e questa dipende appunto unicamente da uno scontro tra forze in cui si deve inserire la sinistra. Questa deve essere la sua battaglia. Accettare il presente, sancire la propria sconfitta, concepirsi come testimone e non come agente sul mondo: questa è la fine della sinistra. Se c’è una cosa che Gramsci ci ha insegnato è analizzare con razionalità e senza illusioni la situazione presente (il ‘pessimismo della ragione’), ma allo stesso tempo non abbandonare quell’elemento, forse contraddittorio, che è la volontà, il desiderio di agire nel mondo, fondamento profondo della sinistra.

    Forse, dal mio punto di vista, sono necessari più fattori per far nascere una sinistra che sappia mettere in discussione lo stato di cose presente: la caduta progressiva delle condizioni materiali d’esistenza di ampie fasce del nostro mondo; la discrasia sempre più ampia fra quell’1% e quel 99% su cui insisteva Sanders; il lavoro quotidiano di sensibilizzazione dell’Altro, fatto negli spazi di socializzazione dei paesi di provincia e nelle grandi città; la possibilità di costruire un legame attivo fra – direbbe Pasolini – proletariato e sottoproletariato (che parole antiche!), ossia middle class e migranti etc. Ciò che mi pare, però, è che questi elementi siano presenti (!), sebbene sotterranei e spesso nascosti, nel mondo di oggi. Chissà che, non arrendendosi ad una sola contemplazione del reale, potremmo in un futuro chissà quanto imminente costruire una società più giusta, quel tanto che basta a garantire ad ogni individuo quel minimo benessere di cui così tanto ha bisogno.

    Ps. Devo dire che leggere queste pagine da studente, e quindi ragazzo, provoca due sentimenti. Da un lato, scorrendo le pagine, una sensazione piacevole, quella di chi – grazie ad esse – sta acquisendo una comprensione più profonda del reale, riunendo i pezzi frammentati che costituiscono la complessa situazione del mondo di oggi; dall’altro, una spiacevole, quella di chi si vede negare – proprio per via della lucidità dello sguardo indagante – qualsiasi prospettiva d’azione nella prassi delle cose. Ora però mi pare di aver capito che questa seconda sensazione, forse, è quella che può cambiare di segno e condurre ad un elemento vitale e attivo, in quanto costringe alla rabbia e alla rivolta, al bisogno tipicamente infantilistico di contrapporsi al discorso del Padre. Se la prospettiva viene negata – potrei dire – la prospettiva deve essere trovata, e gli strumenti per farlo stanno proprio in tutte quelle righe che precedono l’arrendevole conclusione.

  10. L’articolo è ampiamente analitico, ma alla fine risulta bloccato, senza poter indicare come si possa mantenere la nostra “civiltà”, quella del ceto medio riflessivo, della middle class marina, tollerante, multiculturale, fondata sui diritti, accogliente, politicamente corretta.
    Mazzoni riconosce che la civiltà è un edificio instabile che poggia su fondamenta materiali, occorrono il benessere e l’educazione che ingentilisce i costumi. La democrazia viene definita così: “un meccanismo per regolare pacificamente la guerra civile che sta al fondo di ogni società umana”.
    Ma questa guerra “civile” non è in realtà il conflitto tra classi, composto in unità nazionale, nel periodo in cui gli stati europei vivevano grazie allo sfruttamento coloniale?
    Se oggi i paesi del G7 producono poco più di un quarto della ricchezza planetaria (ventanni fa ne producevano la metà), se il neo-liberismo ha solo “coperto” con la crescita la caduta del primato occidentale, e ne ha gestito la decadenza, come non credere che la middle class marina sia destinata a ridursi a poco, a pochissimo? e come potrà quindi mantenere in piedi la nostra civiltà?
    I tre gruppi di forze identificati da Mazzoni hanno in realtà un peso squilibrato nei loro rapporti reciproci. Il quadro che egli delinea è solo centrato sul conflitto tra le nuove destre e la democrazia rappresentativa non populista. Come se gli Stati Uniti non fossero un impero, come se non agissero in rapporto agli altri grandi attori mondiali, come se l’apparato militare non interagisse con quello finanziario. E poi, dando un’occhiata a quello che viene scritto in occasione della morte di Castro (in un articolo di Gennaro Carotenuto il ruolo che l’intervento cubano in Angola ha avuto per far finire l’apartheid in Sudafrica), come si può non tenere conto della potenza effettiva delle ideologie politiche? Delle ideologie politiche, che sono altro dalla Weltanschauung di fondo del populismo.

  11. Analisi molto intelligente, grazie all’Autore. Proprio perché l’analisi è acuta, mi colpiscono un paio di cantonate grossolane, anzitutto l’equazione nazionalismo = apartheid; perché i “populismi” europei, e anche l’americano, sono anzitutto nazionalismi, che operano per la “deglobalizzazione” del mondo.

    L’apartheid c’entra zero, col nazionalismo.

    Sorprendente che l’Autore non abbia colto il fatto primario ed elementare, “arcaico” nel suo linguaggio, che le nazioni semplicemente NON ESISTONO, senza preferenza nazionale; come le famiglie non esistono senza “preferenza familiare”, etc. Il che non implica affatto il razzismo, e Dio voglia che non lo implichi mai.

    Sinora non lo implica (il razzismo è una frangia marginalissima nei populismi europei e USA) ma non è impossibile che finisca per implicarlo, se le forze culturali e politiche della globalizzazione continueranno a voler fare ingoiare a tutti l’accoglienza obbligatoria di un numero imprecisato di stranieri sul loro territorio nazionale.

    Trovo perfettamente errata anche l’idea delle “gated communities” come modello ideale dei populismi, ma mi pare derivi logicamente dallo stesso angolo visuale che conduce l’intelligente Autore alla cantonata dell’apartheid.

    E’ l’angolo visuale “marino”, per usare la categorizzazione geopolitica, anche schmittiana, di Mazzoni. L’angolo visuale “marino”, che rifiuta il radicamento “terrestre” come “arcaico”, si identifica con il punto di vista universalista della “umanità”. Finché si parla e si scrive dal punto di vista dell’umanità, tutto va bene. Ci si può esporre all’accusa di fare della “filantropia telescopica”, come la definisce Dickens in “Bleak House”, ma c’è di peggio al mondo.

    Quando però SI AGISCE POLITICAMENTE autoeleggendosi a rappresentanti dell’umanità e dell’universalismo, come fanno “i marini”, cominciano i problemi, e sono problemi molto seri.

    L’ universalismo infatti non può che incarnarsi politicamente in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella realtà effettuale. Volendo, chi se ne sente all’altezza può parlare a nome dell’umanità; ma non può agire politicamente a nome dell’umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perché l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico/avversario.

    Senza nemico/avversario e senza conflitto non c’è alcun bisogno di politica, basta l’amministrazione: “la casalinga” può dirigere lo Stato, come Lenin diceva sarebbe accaduto nell’utopia comunista (in attesa del passaggio dalla preistoria, in cui c’è conflitto, alla storia in cui fiorisce l’accordo universale, via con la polizia segreta, le condanne degli oppositori per via amministrativa, il terrore di Stato).

    A questa contraddizione insolubile si può sfuggire solo postulando come certo e autoevidente l’accordo universale, se non presente almeno futuro, di tutta l’umanità; il problemino è che l’accordo di tutta l’umanità non si dà effettualmente MAI. E’ da questo paradosso che vengono la superbia e l’accecamento ideologico della sinistra mondialista o “marina”, che si sente in diritto e in dovere di parlare ed agire a nome dell’umanità (presente e/o futura), e si sbalordisce e scandalizza se gli altri (gli arretrati, i razzisti, i populisti, nazionalisti, etc.) avanzano obiezioni e non vedono quel che a loro sembra lampante e certo come che 2+2=4.

    Concludo ringraziando nuovamente per l’articolo davvero utile e interessante, e segnalandone un altro su tema analogo: https://zeroanthropology.net/2016/11/17/trump-and-anthropology/

  12. Sarà, ma continuo a pensare alla Prima Guerra Mondiale con le atomiche.
    C’è pure un romanzo di H.G. Wells sull’argomento: ‘The world set free’. Uscì, guarda caso, nel 1914 e situa la guerra nel 1953. Dopo immense devastazioni nasce uno stato mondiale.
    Tanto per dire che la ‘preferenza nazionale’ e il ‘radicamento alla terra’ potrebbero essere molto costosi, stavolta.
    Oh, beh, pazienza. Gli anni belli li ho avuti, ormai mi attendeva solo la vecchiaia.

  13. Aggiungo:
    questo fatto era ben noto a tutti gli osservatori dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale (pure a Schimitt, credo, e a Junger).
    Oggi se lo ricordano e tengono conto solo noi lettori di fantascienza.
    Però resta altrettanto vero che nel 1945.

  14. @ Trucco

    Guerra civile americana; genocidio in Ruanda; criminalità organizzata italiana. Tutti conflitti intrastatali. Appadurai nel suo Modernità in polvere notava (non so quanto si poggiasse su una verifica statistica ) l’esplosione di violenze intrastatali a fronte di minori violenze extrastatali. Quello che favorisce la pace fra le nazioni non è appunto la presenza o meno di nazioni, ma l’ordinamento che hanno queste nazioni. Nazioni democratiche sono meno tendenti a farsi la guerra armata, e più tendenti a competere economicamente. Il commercio da molti studiosi è stato visto come il primo strumento pacificatore. Il dono fra tribù si vede infatti sotto quest’ottica: scambio di merci necessario sia a ottenere risorse che non si hanno, sia a prevenire l’idea negli altri di prenderle con la forza.

  15. @ Stefano Trucco

    Wells illustra nel suo romanzo la sua ideologia fabiana, appunto mondialista.

    Lord B. Russell, altro fabiano, dalla scoperta dell’arma atomica e in vista dello stesso scopo (prevenire la guerra atomica tra nazioni e avviarsi a un governo mondiale) trasse due conseguenze apparentemente opposte ma governate dalla stesso logica (com’è ben noto, Russell di logica non difettava affatto).

    Prima conseguenza, PRIMA che l’URSS detenesse l’arma atomica e dunque quando ne era assicurato il monopolio all’anglosfera: usare l’arma atomica PREVENTIVAMENTE sull’URSS, per evitare che se ne impadronisse. Russell, che aveva contatti politici al massimo livello, si impegnò sul serio, per fortuna invano, nel persuadere gli USA a seguire il suo programma.

    Seconda conseguenza, DOPO che l’URSS s’era dotata di armamento atomico: promuovere il movimento pacifista mondiale.

    L’impeccabile logica di Russell mostra come si dispiega la contraddizione insolubile del mondialismo/universalismo politico. Il mondialista/universalista o “marittimo”, come scrive Mazzoni trasponendo dal linguaggio della geopolitica, si propone sì un fine universale e mondiale “in nome dell’umanità”.

    Ma siccome l’accordo unanime dell’umanità non si dà effettualmente MAI, e siccome l’azione politica effettuale possono svolgerla solo realtà particolari, perchè sino al momento magico dell’accordo universale di tutta l’umanità sono le uniche che esistono nella realtà; allora, il mondialista/universalista suggerisce – per il bene dell’umanità (futura) – all’impero marittimo realmente esistente, che condivide il suo nobile fine di un governo mondiale, di cancellare dalla faccia della terra la nazione riottosa, arretrata, populista e “terrestre” che a quel sogno si oppone.

    Certo, dispiace anche a lui, che ha un cuore sensibile, dover spazzare via dalla faccia della terra un centinaio di milioni di persone; ma che cosa sono un centinaio di milioni di persone in confronto ai miliardi che perirebbero in un conflitto termonucleare mondiale? Che cosa sono, soprattutto, in confronto al momento in cui tutta l’umanità si stringe in un accordo unanime e pacifico? In cui Alle Menschen werden Bruder?

    Poi, quando l’azione politica risolutiva non viene realizzata nella realtà effettuale, il mondialista/marittimo ripiega sulle inoffensive, nobili parole che invitano profeticamente alla concordia e alla pace l’umanità intera.

    Allo stesso modo, quando il mondialista/universalista/marittimo parla dei popoli come se fossero “fiction”, pura creazione artificiale modificabile a piacere con l’ingegneria sociale e la rieducazione illuminista, finchè ne parla e basta si può aprire con lui un interessantissimo dibattito su natura e cultura, etc.

    Quando invece il suddetto mondialista/universalista/marittimo – appoggiandosi sull’impero marittimo realmente esistente e dotato di nome, cognome, indirizzo e potenza militare egemone nel mondo – impone ai suddetti popoli di accogliere sul proprio territorio intere popolazioni straniere che per il loro numero e la loro diversità culturale sono affatto inassimilabili e inintegrabili, egli si fa promotore di una minaccia esistenziale nei confronti dei popoli arretrati, riottosi, populisti e “terrestri”, che si vedono a rischio di morire (muoiono anche i popoli, eh?).

    Quando i popoli se ne accorgono – tardi perchè sono lenti di comprendonio – si difendono: “Cet animal est très méchant: Quand on l’attaque, il se défend”.

    Si difendono, per esempio, votando Brexit, Front National, Lega, Orbàn, Trump, etc. Finchè votano e basta, e soprattutto finchè gli si consente di votare e non si truccano immediatamente i risultati come in occasione dei rerendum per la Costituzione UE, la difesa si mantiene nei limiti delle regole del marchese di Queensbury, altrimenti i popoli, questi incorreggibili, finiranno per togliersi i guantoni; e sarebbero guai grossi per tutti.

  16. @Claudia: la resistenza di cui parlo non è un fantasma, è un’intenzione. Per assecondare i fantasmi non si fa il tipo di lavoro a cui alludo. Ma forse non sono spiegato bene.

  17. Grazie per la lunga, dettagliata e interessante analisi di un documento poco noto e talmente importante che, per qualche motivo, non ebbe la minima conseguenza pratica e non venne preso particolarmente sul serio da quell’establishment anglo-americano di cui Russell faceva indubbiamente parte. Direi che questo basta e avanza per considerarlo l’ideologo ufficiale di una “a conspiracy so immense and an infamy so black as to dwarf any previous venture in the history of man”, come la definì il Senatore McCarthy.
    Beh, utile come spiraglio nella ‘impeccabile logica’ dell’intellighenzia sovranista che pensa oggi l’Italia di domani.
    Però mi chiedo cosa succederà quando l’Italia, svaniti come un brutto sogno l’Europa e l’Euro, riacquisterà la sua piena e indivisa sovranità e magari anche l’atomica (perché, diciamolo, oggi se non c’hai l’atomica non sei nessuno). Per esempio sospetto che gli altoatesini non avranno un gran desiderio di essere governati da una folla isterica di commentatori online. La volta scorsa, i terroristi altoatesini fecero, se non sbaglio, una trentina di morti. E magari Austria e Germania, a loro volta di nuovo nazioni sovrane, potrebbero anche pensare di dargli una mano. Che si fa a quel punto?
    Sulle bancarelle dell’usato si trova di tanto la traduzione italiana di un vecchio romanzo di Howard Waldrop per i Fantapocket Longanesi, ‘1999: Guerra Texas-Israele’. Per non parlare de ‘Il corridoio nero’ di Michael Moorcock, che venne pubblicato su Galassia e, un paio d’anni fa, su Urania: è del 1967 e descrive un mondo, intorno al 2000, che si disgrega in un delirio di nazionalismo, razzismo, sovranismo e cospirazionismo.
    Devo dire che, se proprio non dobbiamo basarci su un pensiero un po’ più serio, l’immaginario fantascientifico mi ispira di più.

  18. Mi unisco ai già numerosi complimenti a questo articolo veramente ben scritto.

    Tuttavia, i limiti dell’articolo sono segnati dalla sua parte finale, quando l’analista si confonde con le parti in causa e non esita a esibire il proprio credo illuministico.

    L’illuminismo è proprio quella filosofia che porta alla scelta universalistica, ed è proprio per questo che in qualche misura questo netto schieramento di campo rischia di inficiare tutti i pur indubitabili meriti dell’analisi svolta.

    L’illuminismo e la sua influenza sulla politica soprattutto attraverso il liberalismo, ma anche in maniera meno lineare nel marxismo, è il fattore fondamentale che ha determinato il mondo così come lo vediamo.
    L’illuminismo ha trionfato, anche se proprio gli illuministi apparentemente non se ne rendono conto, così che invece di chiedere ad esso il conto della situazione esistente, continuano a prescrivere dosi crescenti di tale farmaco.
    E’ tale la dominanza di questo pensiero che perfino menti di grande valore si lasciano andare a clamorosi equivoci, pretendendo che l’illuminismo sarebbe la filosofia che predica la necessità dell’uso della ragione, e riscrivendo quindi l’intera storia della filosofia come regno dell’irrazionale che attendeva l’illuminismo per imboccare finalmente la strada della ragione.
    Molto più banalmente, l’illuminismo introduce una sua teoria antropologica, secondo cui l’uomo sarebbe essenzialmente un essere libero e razionale, e che basterebbe togliere di mezzo alcune condizioni storiche ostili perchè questa sua natura si dispieghi nella sua interezza.
    Proprio su questo terreno, l’illuminismo invece si rivela errato, perchè l’uomo non è naturalmente così razionale, e data la sua natura sociale, non è neanche così libero. Di libertà, contrariamente a quanto sostiene Locke, si può parlare solo in un ambito culturale, e l’ambito culturale è appunto la società che ci precede, e sin dai nostri primi vagiti ci accoglie e ci influenza in modo determinante attraverso il rapporto con la madre.
    Sarebbe saggio considerare queste due polarità che ci caratterizzano come esseri umani, da una parte l’aspirazione alla libertà, dall’altra il condizionamento sociale, come pure gli elementi razionali e quelli arazionali (che pvviamente non sono necessariamente irrazionali).
    Se quindi abbandoniamo il cieco ottimismo dell’illuminismo, quanto meno sotto l’aspetto teorico, ci rendiamo conto che noi non siamo mai collocati in un non luogo e in un non tempo da cui osserviamo la realtà esprimendo un giudizio che possa avere caratteri di universalità, ma stiamo sempre da qualche parte in in un qualche istante nello scorrere del tempo, come mi pare sostenga anche Buffagni.
    Allo stesso modo, non ci possiamo attendere un comportamento perfettamente razionale a livello sociale (a livello personale, spero che nessuno di noi se lo attenda, anzi lo troverebbe insopportabile nella propria vita privata), e quindi, invece di lasciare che chi ha il potere eserciti un’autorità arbitraria finalizzata ai propri personali interessi, bisognerebbe che un’autorità si manifesti in modo esplicito e trasparente e che sia organizzata secondo regole democratiche.
    Non è possibile quindi, per esemplificare, che il settore mediatico divenga preda di pochi capitalisti che lo utilizzino per il conseguimento dei loro interessi privati, seguendo il principio apparentemente ignorato dai teorici liberali che le differenti forme di libertà confliggono quasi sempre tra loro e che quindi non serve declamare la libertà, ma servirebbe capire che ogni diritto aggiuntivo concesso, in qualche misura è a detrimento di un altro tipo di diritto, che tendenzialmente il conto è sempre a risultato zero, che non esistono sfere rigorosamente private, in quanto per la nostra natura sociale, ciò che gli altri fanno ci influenza già per lo stesso semplice fatto che lo osserviamo, che la politica quindi dovrebbe sempre essere l’arte di trovare punti di equilibrio tra esigenze conflittuali, siano essi differenti tipi di libertà, siano essi conflitti tra aspetti collettivi e aspetti personali.
    Sarebbe poi agevole a partire dall’accoglimento di questi principii, dedurre il carattere antiumano del liberalismo e della società di mercato che ne è la controparte economica.

  19. Sono andato a verifcare sul British Cartoon Archive. La proposta di Russell fece talmente parlare che non c’è nemmeno una vignetta satirica dell’epoca. Nè David Low, né Vicky del New Statesman, niente sul Punch… In compenso ce ne sono sul suo pacifismo, sul suo unilateralismo e sulla Campaign for Nuclear Disarmement e il Tribunale Russell.
    Non sto dicendo che Russell non scrisse quella lettera; dico che forse (forse, eh?) non era così fondamentale e ‘rivelatrice’ e comunque cambiò idea rapidamente.

  20. anche a me l’articolo è piaciuto molto fino al finale, che mi ha ricordato quando nel 2011 Asor Rosa auspicava un colpo di stato dei carabinieri per fermare Berlusconi (sembra un secolo fa vero?), nemmeno veniva in mente all’esimio professore che i carabinieri la pensassero più come Berlusconi che come lui
    siamo così sicuri che se i partiti del salotto buono fossero una dittatura garantirebbero i diritti civili? come viene detto nell’articolo l’espansione di ricchezza e diritti in Occidente c’è stata (io direi soprattutto) perché c’era un modello alternativo e le masse andavano quietate, con la caduta dell’Unione Sovietica i diritti e la ricchezza sono 30 anni che vanno a passo di gambero e le masse si incazzano e cercano alternative anche dove non ci sono
    di questo va chiesto conto a chi ha governato l’Occidente negli ultimi 30 anni, ed è proprio quell’illuminismo-liberalismo internazionalista a cui ci si rivolgerebbe perché risolva i problemi che lui ha creato, ci vedo poca razionalità in questo

  21. @ Stefano Trucco

    Per forza che non se ne parlò, secondo lei Russell era così stupido da fare una campagna di stampa per la nuclearizzazione dell’URSS?
    Oltre ad essere un notevolissimo filosofo, Bertrand Russelle apparteneva a una delle casate nobiliari più importanti dell’Impero britannico, diversi membri della quale avevano ricoperto le più alte cariche politiche. La famiglia Russell, che discende dai duchi di Bedford, è una delle maggiori casate Whig inglesi.
    Russell aveva quindi contatti politici al massimo livello in tutta l’anglosfera per diritto di nascita; a quelli trovati nella culla aveva poi aggiunto gli altri, guadagnati con la sua attività culturale e politica (nella Fabian Society).
    Una proposta come quella di aggredire l’alleato di ieri e di nuclearizzarlo NON si prestava, evidentemente, a una campagna di stampa. Russell l’ha avanzata privatamente e segretamente a chi poteva sul serio metterla in pratica.
    Poi per fortuna non gli hanno dato ascolto, per due ragioni: 1) gli USA non disponevano ancora di un arsenale nucleare, cioè non avevano le scorte sufficienti per eseguire la nuclearizzazione della Russia, cosa che, detto per inciso, Stalin sapeva perchè gliel’avevano rivelata i suoi infiltrati nel MI6 inglese, anzitutto Kim Philby 2) era politicamente molto difficile da giustificare, e se eseguita avrebbe provocato un contraccolpo di sfiducia e terrore in tutti gli alleati degli USA 3) evidentemente e grazie a Dio la dirigenza USA era più equilibrata di Russell.

  22. @ V. Cucinotta

    “ma stiamo sempre da qualche parte in in un qualche istante nello scorrere del tempo, come mi pare sostenga anche Buffagni.”

    Certo. Siamo anche persone, comunità, nazioni, Stati che per quanto possano elaborare concetti universali quali “umanità”, o credere di essere tutti figli dello stesso Dio, e dunque fratelli, restano pur sempre e per sempre limitati e particolari, e proprio attraverso questa limitatezza e questa particolarità entrano in rapporto con gli assoluti e gli universali, i quali NON si presentano MAI nella realtà effettuale del tempo e dell’immanenza (o quando lo fanno, lo fanno come lo fece, per chi crede che Gesù fosse anche Dio, in forma di singolo uomo, limitato e mortale).

    Ed è bene e giusto che sia così. Chi vuole la realizzazione effettuale e politica dell’universale su questa terra, in forma di governo mondiale o analoghi, sbaglia.
    Finchè ci pensa e basta, commette solo un errore intellettuale e spirituale: un peccato di superbia, nel linguaggio cristiano, o di hybris, nel linguaggio greco. Quando ci prova sul piano della realtà effettuale, cioè con l’azione politica, fa disastri di proporzioni epocali.

  23. Poi, misteriosamente, il suo nome si identificò con le campagne per il disarmo nucleare. Aveva cambiato idea o, astutamente, nascondeva i suoi perfidi disegni sterministi sotto un manto pacifista? Nel 1962, all’epoca della crisi di Cuba, non esitò ad attribuire a Kennedy la responsabilità maggiore.
    Avete presente ‘When the kissing had to stop’, di Costantine Fitzgibbon? E’ un romanzo del 1960, molto popolare all’epoca, in cui pacifisti e laburisti consegnano la Gran Bretagna ai sovietici e Russell è uno dei principali bersagli polemici. La povera Fitzgibbon non era stata informata, a quanto pare, malgrado la cosa fosse stata resa pubblica, se non sbaglio, nel 1955.
    Senta, Buffagni, non immagini di essere l’unico a sapere le cose, non è elegante. Se c’è una cosa in cui la nuova elite intellettuale sovranista non differisce da quella marxista di una volta è la pretesa di possedere la chiave della Storia e del Destino dell’Uomo (mi raccomando le maiuscole)…
    Comunque domani esco dall’ospedale, dove mi annoiavo un po’, e tornerò al mio consueto silenzio. Buona rivoluzione, e buona fortuna.

  24. >È sbagliato leggere la destra populista alla luce della categoria storica di fascismo.

    Essere capace di scrivere bei temini non fa di Mazzoni un politologo, uno storico o un aruspice: tutti a casa propria a farsi i fatti propri, un mondo di stati-nazione assertivi e chiusi come gabbie, e’ uguale, nella nostra esperienza piu’ recente (ma ogni secolo ne ha una, di grande crisi, ed i pattern sono sempre quelli), a quello del dopo Grande Crisi degli anni ’20 del secolo scorso. A tanti gia’ prudono le mani, Mazzoni forse sta troppo in aereo e le mani le usa solo per leggere altri bei temini.

  25. @ Stefano Trucco

    Guardi, proprio non ci siamo intesi.

    Russell era sincero e conseguente alla sua visione del mondo SIA quando diceva “nuclearizziamo l’URSS” SIA quando promuoveva il disarmo universale e il movimento pacifista.
    Il fine che voleva raggiungere (governo mondiale, pace universale), e il male che voleva evitare (guerra tra nazioni che si tramuta in catastrofe mondiale a causa dell’arma atomica) raggiungendolo, erano sempre gli stessi.
    Cambiano solo i mezzi, in conformità al mutare delle circostanze:
    Situazione A: gli USA hanno il monopolio dell’atomica; mezzo: attacco nucleare preventivo contro l’URSS
    Situazione B: gli USA non hanno più il monopolio dell’arma atomica; mezzo: movimento pacifista per il disarmo universale.

    Sintetizzando, la visione, whig e fabiana, “mondialista/marittima”, di Russell, era (con parole mie):

    “L’esistenza delle nazioni, che sono divisioni storiche artificiali, implica il nazionalismo, il nazionalismo implica le guerre ricorrenti. Una prossima guerra tra nazioni armate di atomica provocherebbe la catastrofe universale. Per sventare la futura catastrofe universale bisogna eliminare le nazioni e giungere a un governo mondiale. Se possibile, bisognerebbe convincere le nazioni a disarmare con le buone. Ma purtroppo è impossibile arrivare al disarmo universale in tempo, cioè PRIMA che altre nazioni oltre agli USA ottengano l’arma atomica. Dunque, se si vuole sventare la catastrofe universale, gli USA devono utilizzare il il loro TEMPORANEO monopolio dell’arma atomica, nuclearizzare l’URSS, e costruire intorno a sè il governo mondiale, che garantirà in futuro la pace universale.”

    La logica di Russell è la stessa SIA quando propone la distruzione atomica dell’URSS, SIA quando propone il disarmo universale. Il fine è sempre la pace universale ottenuta per mezzo della dissoluzione delle nazioni e la formazione di un governo mondiale. Quando SOLO gli USA hanno l’atomica, questo fine può essere raggiunto rapidamente e con le cattive, cioè distruggendo l’URSS. Quando ANCHE l’URSS dispone dell’atomica, il fine “pace universale, governo mondiale” non può più essere raggiunto con le cattive (un attacco preventivo senza risposta atomica è impossibile, l’URSS risponderebbe e si verificherebbe la temuta catastrofe universale). Dunque il fine “pace universale, governo mondiale” va perseguito con le buone, cioè con il movimento pacifista per il disarmo universale.

    Ho citato il caso di Russell perchè è esemplare di quel che può avvenire nella mente di un uomo di grande valore, intelligente e benintenzionato, seriamente persuaso dell sua visione del mondo universalista e mondialista, quando tenta di agire POLITICAMENTE in perfetta coerenza alla sua ideologia: che raccomanda seriamente a dirigenti politici che potrebbero ascoltarlo per davvero l’assassinio a freddo di un centinaio di milioni di persone, in base a un calcolo costi/benefici di tipo utilitarista (meglio cento milioni di morti oggi che x miliardi domani).

    E’ più chiaro adesso?

  26. Aggiungo che “Russell è uno dei principali bersagli polemici” del romanzo della Fitzgibbon (che non ho letto) per il semplice motivo che negli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, nel cuore della Guerra Fredda, i sovietici lanciarono una grande campagna di propaganda pacifista per il disarmo, appoggiando i movimenti pacifisti già esistenti, e creandone di nuovi dove non c’erano. Russell era un leader mondiale riconosciuto del pacifismo e del disarmo nucleare.
    I sovietici naturalmente si guardavano bene dal disarmare loro, anzi usavano la campagna pacifista per sollevare le opinioni pubbliche occidentali contro le spese militari, etc., mentre a casa propria, dove l’opinione pubblica contava zero e dove di movimenti pacifisti non c’era ombra, si rimboccavano le maniche per costruire più missili nucleari che potevano.
    Di conseguenza, Russell e il movimento pacifista di fatto favorivano l’URSS ai danni degli USA e del campo occidentale.
    La Fitzgibbon sarà stata una conservatrice, avrà pensato che disarmare era una follia e un tradimento, e quindi avrà accusato Russell e i pacifisti di essere degli “utili idioti”, nel linguaggio di allora, al servizio involontario del nemico. Il che, sia detto per inciso, era vero.
    Nel caso della crisi missilistica cubana, Russell ha sgridato Kennedy perchè ha portato il confronto con l’URSS sull’orlo della guerra nucleare. Se Krusciov non avesse agito razionalmente, se cioè non avesse ritirato i missili in cambio delle concessioni che gli offrì Kennedy per salvargli la faccia, si sarebbe giunti alla guerra termonucleare tra USA e URSS.
    Secondo Russell, NIENTE valeva questo rischio. Meglio arrendersi all’URSS che rischiare la guerra nucleare. All’epoca, su questo dilemma furono anche creati due slogan dalle due parti avverse, pacifisti e bellicisti: “Better red than dead”/”Better dead than red”.
    Vede che la logica di Russell continua ad essere la stessa?

  27. D’accordo, così è andata. Oggi il pacifismo lo fanno i sindacati e Adista, sui principi e sui costi. L’arma nucleare è sullo sfondo, mentre le armi comuni ne utilizzano i cascami.
    Qual è il confronto oggi, a due amico-nemico, a cui io gente comune mi devo preparare? Le 30 guerre locali che fanno la 3 guerra mondiale, a CHI rispondono? Chi combatte chi? E noi europei frastornati e inconsapevoli ancora non capiamo con chi stiamo e perché, e in questa vaghezza, con le nonne e forse anche con i nonni, mi devo riconoscere. Maledizione!

  28. Per favore…
    Noto che sempre più ‘intellettuali’ (“Non è un filosofo, non è uno scienziato, non è uno scrittore, non è un artista… cos’è? Un intelettuale”) hanno deciso di puntare sul sovranismo per le loro prospettive di carriera. Bloccati ai piani bassi del Palazzo della Cultura, provano a usare questa ideologia di moda per salire verso l’attico.
    Da una parte la mortifera utopia del ‘mondialismo’, dall’altra, nientepopodimenoche, la natura umana, eterna e immutabile. E la natura umana prevede, a quanto pare, il radicamento alla Terra (cosa che fa sempre una grande impressione agli intellettuali di città) e la sovranità nazionale assoluta. All’anima dell’ideologia…
    Ora, io ho il massimo rispetto per Carl Schmitt, ha pensato cose davvero importanti, ma potrei consigliare di prendere le rivendicazioni di un vecchio nazionalista tedesco che non è mai riuscito a dimenticare il Trattato di Versailles con un pizzico di sale? Non proprio alla lettera?
    E quanto alla critica alla politica delle elites in questi ultimi decenni potrei essere molto d’accordo.
    Però il punto resta e Bertrand Russell, una volta che lo facciamo scendere dal piedistallo di cartone di ‘ideologo mondialista’, aveva le sue ragioni: la sovranità nazionale assoluta nell’era delle armi atomiche ha dei costi non da poco.
    (e vi ricordo la questione dell’Alto Adige. Come la risolverà l’Italia Sovrana? Deportazione di massa? Pogrom? Facciamo come in Libia o Etiopia?)
    Il punto è che per gli intellettuali che hanno bisogno di un’ideologia per i loro motivi di status sociale questo semplice fatto è inammissibile, dato che loro non fanno dell”ideologia’ ma stanno dalla parte della ‘natura umana’ stessa! Possono, i più bravi, solo pensare i limiti e crimini degli ‘altri’ e si impediscono di pensare ai propri.
    Che poi, francamente, potrebbe essere un calcolo sbagliato: data la natura di questo movimento mondiale l’effetto, sia collettivo che loro personale, potrebbe essere quello di sbattere, forte, contro un bel muro, quello della ‘realtà’. Astrazione per astrazione, la ‘realtà’ tende sempre a battere la ‘natura umana’…
    Stamattina esco dall’ospedale e addio, Buona rivoluzione, e buona fortuna.

  29. Caro Trucco,
    perchè invece di discutere gli argomenti che le propongo mi risponde, senza usarmi la minima cortesia di rivolgersi direttamente a me, in questo modo davvero poco simpatico e poco educato?
    La invito a riflettere sul profilo umano che propone a chi legge, comportandosi così. Se si piace, continui. Se non si piace, cambi.

  30. si’, Trump ha vinto con i social. Ma si dimentica che anche Obama aveva vinto con i social. E Berlusconi senza. L’analisi offerta delle trasformazioni della struttura dell’opinione pubblica indotte da internet e social network sembra quasi segnare un “destino” – che nella traccia platonica del rapporto tra verità e doxa che l’articolo segue alla fine sembra essere quello della destra populista. Ma così questa diagnosi rischia di far apparire come una necessità qualcosa che invece ha spiegazioni contestuali, e materiali, contingenti. Quello che nelle righe finale è opportunamente detto essere “il risveglio da un’illusione politica e antropologica”, vale a dire il risveglio da una concezione della modernità come processo irreversibile, dovrebbe mettere in guardia proprio da diagnosi epocali unidirezionali. E il pensiero critico, quello che è stato anche della sinistra, è un pensiero della reversibilità, lo sforzo di mostrare che cio’ che si mostra come necessario e ineluttabile – che siano le leggi del mercato, o anche le conquiste dell’illuminismo – è solo apparentemente tale, non è una questione di destino, ma e’ esposto alla contingenza di forze storiche, e puo’ sempre rovesciarsi nel suo contrario.

  31. L’argomento interessante davvero sarebbe l’azzeramento delle discussioni sui principali blog e siti di discussione culturale, avvenuta repentinamente nell’ultimo paio d’anni.
    Cosa che permette a ‘sovranisti’ (ma non solo) grafomani di occuparli parlando sempre e solo di politica.
    Arrivato il foglio di dismissione. Addio e buona rivoluzione, again.

  32. “ Lunedì 28 novembre 2016 – « Nulla di più impressionante di quando nella vita ci si vede venire incontro d’un tratto nella stessa forma ed aspetto, quasi un fantasma, ciò che si era creduto da un pezzo morto e seppellito. » (Stefan Zweig, Il mondo di ieri, cit.) “.

  33. Non posso evitare di sorprendermi vedendo come esistono soggetti che vedono il sovranismo come un pericolo della pace mondiale.
    Ciò, dopo un quarto di secolo in cui il globalismo è quello che ha concretamente costituito la vera causa delle guerre che abbiamo avuto e che continuiamo ad avere ancora oggi, dalla prima guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein, alla guerra nei balcani, alla guerra in Afgahnistan, alla seconda guerra in Iraq, alla guerra in Siria ed a altre guerre di minore portata.
    Se il livello delle argomentazioni è questo, se si scambia una causa di conflitti armati come la sua soluzione, in effetti non c’è possibilità di una discussione su un piano minimamente razionale.

  34. “ Venerdì 31 ottobre 1997 – Poco fa, mentre in mezzo a una folla variopinta di zaini e zainetti aspettavo l’arancione caracollante sagoma del 490 – è così: da qualche giorno vado « con i mezzi » -, ho girato le spalle alla strada e ho visto Porta del Popolo. Sono rimasto a lungo con gli occhi alzati ammirando la placida mole della Porta, guardando soprattutto là dove la merlatura barocca si stagliava sull’azzurro del cielo – oggi è una bella giornata – e il bianco dei marmi si ripeteva in quello delle piccole nuvole, quegli sbuffi, quei distratti colpi di penn(ar)ello che ogni tanto agghindano il cielo di Roma. Poi ho letto le scritte – « Pius IIII Pont. Max… »: per me, non so perché, è sempre stato difficile decifrare le scritte -, poi ho notato, sulla destra, la mattonata bruna, resto delle antiche mura – che mura saranno? -, poi, sulla sinistra, ho gettato un’occhiata al verde di Villa Borghese e a quello prospiciente del Pincio, misteriosi, fiabeschi, umidi e freschi come tutti i verdi. Poi è arrivato il 490 e ci siamo issati a bordo, io e gli zainetti, senza vedere più niente. È stato allora che ho pensato che quello che avevo visto era molto bello, stamani non diversamente da una qualsiasi mattina di trent’anni fa, fermamente bello, potrei dire: irriducibilmente bello. Bello e impossibile? Forse. E forse anche falso. « Quelle nuvole ce le ho messe io », potrebbe dire qualcuno, un fotografo di alcuni secoli fa, o io stesso che forse ce le ho messe quando ho alzato gli occhi alla Porta. C’è sempre qualcuno che mette, che leva, che agghinda, che lavora di penna(rello). Poi, nello spazio di poche fermate, noto che gli zainetti – una ventina, almeno – sono tutti « Invicta », come se, sulle spalle dei ragazzini, ce li avesse messi la stessa persona. « Sarà il Grande Globalizzatore » Sì, non può essere che Lui. “

  35. L’articolo è sicuramente stimolante ed interessante. Ampio ed argomentato, e con l’ambizione apprezzabile di riflettere su questa fase. Ci sono molte cose convincenti ed altre, per me, che non lo sono (a partire dall’esaltazione, pur vedendone molti limiti, della libertà negativa e quel set che chiama ” tolleranza, il mutuo riconoscimento dei diritti, l’apertura all’altro, l’accoglienza, la correttezza politica”, ma che in questo contesto ha il gusto di una giacca di tweed).
    Questo è il mio, non breve, commento:
    http://tempofertile.blogspot.com/2016/12/circa-guido-mazzoni-salto-nel-buio.html

  36. Grazie a Guido Mazzoni per questa importante analisi.
    La prima parte è fondamentale: o la politica democratica è capace di raccogliere il consenso di chi rifiuta la mediazione tradizionale, cioè di trovare un nuovo modo di “trascendere” i desideri delle masse pur assecondandoli, oppure collassa. L’uso politico della categoria “populismo” andrebbe vietato, almeno per un po’, per cercare di vedere meglio i problemi (ho già suggerito, commentando Brizzi, che bisognerebbe partire dalla categoria di nazionalismo democratico).
    Ho solo poche critiche.
    Io eviterei di esaltare troppo l’economia sociale di mercato del dopoguerra, dei “trent’anni gloriosi”, perché quel sistema di diritti sociali dentro il mondo occidentale si basava su presupposti non solo impossibili ora, ma anche non auspicabili per ragioni di giustizia: una forte compressione iniziale dei salari, che ha reso possibile lo sviluppo degli anni sessanta (e comunque i lavoratori dell’epoca erano ancora “generazioni del risparmio”, e lavoravano partendo da pochi diritti sociali, e accettando molti sacrifici, oggi impensabili); uno scambio ineguale con il mondo non occidentale, dal momento che il basso costo del petrolio è stato una precondizione fondamentale di quello sviluppo.
    Inoltre, ho sempre difficoltà a pensare il “neoliberismo” (accetto l’etichetta per comodità) come un progetto politico. Lo è anche, certo, ma è anche ampiamente un risultato dello spostamento della differenziazione funzionale a livello globale. Il che rende le cose molto più difficili che non pensare di opporgli un altro disegno di politica economico-sociale. E su questo terreno dobbiamo ancora verificare con attenzione quanto questo tipo di economia abbia non solo reso più precari i diritti dentro il mondo occidentale (attenzione però a non esagerare), ma anche iniziato a produrre benessere altrove, se è vero che i tassi di povertà globale stanno scendendo.
    La contrapposizione tra Terra e Mare è nella sostanza giusta, ma poiché diffido sempre delle dicotomie troppo rigide (soprattutto se sono espresse in metafore) credo che si debba evitare di esagerare il carattere “non strutturato”, sul piano etico, del mondo individualista occidentale moderno. Anche in esso si sviluppano col tempo strutture etiche, che resisteranno al tempo. Ed è anche un mondo penetrato da altre forme di stabilizzazione, come il diritto.
    Per il resto, un’analisi del tutto condivisibile.

  37. @ Piras:

    Come pensa che “la politica democratica”, cioè le classi dirigenti UE, possano “raccogliere il consenso di chi rifiuta la mediazione tradizionale” sulla base della sua considerazione che “quel sistema di diritti sociali [il welfare dei ‘trenta gloriosi’] dentro il mondo occidentale si basava su presupposti non solo impossibili ora, ma anche non auspicabili per ragioni di giustizia”?

    “Anche non auspicabili per ragioni di giustizia” significa, in parole povere, che è non solo inevitabile, ma eticamente e politicamente *giusto* abbassare il salario diretto e indiretto delle popolazioni europee perchè a questo modo si eleva il salario diretto e indiretto delle popolazioni non europee.

    Penso che non sia vero, ma che sia vero o no in questo momento non mi interessa. Mi interessa un’altra cosa, questa:

    1) secondo lei, quale interesse possono e devono (Sollen) rappresentare le classi dirigenti UE? Quello degli europei? Quello dei non europei? Quello dell’umanità tutta?

    2) Se le classi dirigenti UE possono/devono rappresentare gli interessi dei non europei e/o dell’umanità tutta, come gliela vendono questa missione agli europei? Non pensa che ci sia un nesso tra le sconfitte elettorali delle classi dirigenti europee e la suddetta missione, che per gli europei si riassume in un drastico peggioramento del salario diretto e indiretto e delle condizioni di vita? Ipotesi:

    2 a Eliminiamo il suffragio universale

    2b Importiamo un numero sufficiente di immigrati, gli diamo la cittadinanza subito, e li facciamo votare le classi dirigenti europee

    2c Convertiamo al pauperismo gli europei con una grande campagna di predicazione guidata da papa Francesco

  38. @Piras
    1. Non ho dati così precisi in proposito, ma per quanto ne sappia, fino agli anni cinquanta il prezzo del petrolio non era affatto basso, andò poi abbassandosi man mano che si scoprivano nuovi pozzi per tutti gli anni sessanta e fino a settembre del 1973, quando improvvisamente i paesi OPEC aumentarono improvvisamente e dimolto il prezzo del greggio. Non credo che fino agli anni cinquanta il petrolio fosse usato così massicciamente, i consuni di energia erano straordinariamente più ridotti di oggi e il carbone era molto usato.
    Anche da un punto di vista strettamente di dati cronachistici, non direi che questo senso di colpa degli occidentali sia così gustificato, nulla a che vedere con ciò che stanno facendo in questi ultimi anni in ogni caso.
    Credo che ci sia un errore, si scambia i progressi economici, quindi di un aumento straordinario della produzione industriale e dello sviluppo del terziario che è senza dubbio alcuno un frutto della tecnologia con una differente distribuzione della ricchezza. Miliardi di persone oggi possono accedere a consumi che anche un decennio fa erano impensabili, ma ciò non è avvenuto perchè i salari degli europei si sono ridotti e così hanno determinato un aumento di risorse a favore del terzo mondo (ma poi in che senso una riduzione qui si trasformerebbe in un aumento lì?), ma esclusivamente per effetto di nuove tecnologie.
    In verità, la riduzione nei salari operai ad occidente sono finiti tutti nelle tasche di capitalisti altrettanto occidentali.
    Non v’è insomma da scervellarsi per capire come mai oggi tanta più gente accede a nuovi tipi di consumo, è il risultato naturale dlelo sviluppo tecnologico, è la riduzuione del livello di reddito in occidente che richiede una sofisticata spiegazione, nel senso che andrebbe spiegata chi si è fregato il vantaggio che le nuove tecnologie avrebbero dovuto fornire.

    Più giù, lei afferma “Inoltre, ho sempre difficoltà a pensare il “neoliberismo” (accetto l’etichetta per comodità) come un progetto politico. Lo è anche, certo, ma è anche ampiamente un risultato dello spostamento della differenziazione funzionale a livello globale.”
    Il termine “neoliberismo” in effetti si giustifica solo se lo si pensa come un vero e proprio progetto politico, e questo è stato in verità, ma lei capovolge i termini: è la differenziazione funzionale a livello globale che è conseguenza del progetto neoliberista, l’opposto di quanto lei sostiene. Se non è frutto di una deliberata scelta politica, da cosa mai sarebbe determinata la differenziazione funzionale, da un atto divino, forse?

  39. La “differenziazione funzionale”, nella teoria di Niklas Luhman si identifica nella modernità e quindi non è stata inventata da nessuno (né dai Templari, né dagli ebrei, né dalla Bilderberg o dalla Trilateral o dal Club di Roma) e non è neppure recentissima. Si tratta di una evoluzione sociale paragonabile all’agricoltura, alla città, al monoteismo o al capitalismo – nessuno s’è messo lì a tavolino a progettarli e non sono una ‘deliberata scelta politica’.
    Ma non si preoccupi, Cucinotta, Luhmann è molto difficile ed è meglio che non si sforzi. Si concentri sui cattivi da combattere. Se non sbaglio lei ha un posto in una università quindi può farlo con comodo.
    (Ah, sono in convalescenza)

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