cropped-The-Donor-header.pngdi Daniela Brogi

Il lungometraggio che ha vinto il Concorso Internazionale del Torino Film Festival è l’opera prima di Qiwu Zang, giovane autore cinese che è stato assistente di Zhang Yimou. Si intitola, in traduzione, The Donor, “il donatore”, e la sua vittoria al TFF34 è coerente con la tradizione più forte di questa rassegna, nata nel 1982 come “Festival Internazionale Cinema Giovani”, e attenta, da sempre, a far vedere la contemporaneità come intreccio di sguardi e di polifonia, come occasione per sperimentare nuovi punti di vista sul mondo. The Donor, per esempio, era effettivamente uno dei lavori migliori, accanto al film americano Christine (diretto da Antonio Campos e interpretato da Rebecca Hall, premiata come miglior attrice, è ispirato alla storia di Christine Chubbuck, giornalista americana anni Settanta che si uccise in diretta); e assieme al film inglese di William Oldroyd Lady Macbeth, il più bello – dove si riadatta alla campagna inglese di metà Ottocento il racconto di Leskov Una lady Macbeth del distretto di Mtsensk (1865).

Ma, oltre a queste tre opere, si contendevano il premio coproduzioni argentine austriache e sudcoreane (Los Decentes; Las Lindas), francesi, cilene, polacche, tedesche, o serbe, come Vetar /Wind. Mentre, in parallelo con il Concorso, anche le altre sezioni, pure a costo di dare troppo, talora fino alla vertigine, hanno presentato più sguardi e più storie possibili. Un solo esempio: Nyai – A Woman from Java (Garin Nugroho, 2016), passato tra i lavori di “Onde”:

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Il film mette in scena, attraverso un unico pianosequenza realizzato dentro una scenografia teatrale, la vicenda di un’indigena sposata con un ufficiale coloniale olandese, negli anni Venti del Novecento; dopo essersi identificata per decenni nello status di donna sposata con un padrone occidentale, la protagonista vive l’abbandono del coniuge, che nell’imminenza della morte decide di far ritorno, da solo e con tutti i beni, nello spazio della prima vita e della prima famiglia. Ecco il pezzo mancante, la vita fuori dalla cornice – viene da pensare guardando A Woman from Java – ecco la storia nascosta delle meravigliose tele secentesche dell’artista olandese Veermer, magari quella in cui una donna, in abito blu, in un ricco interno borghese, legge una lettera arrivata da lontano: dall’altrove disegnato sulla mappa delle Nuove Indie appesa alla parete:

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Il film vincitore, Juan Zeng Zhe/The donor, racconta invece “tutta un’altra storia” non tanto nel senso di scoprire, svelare vicende coloniali oscurate dalle narrazioni occidentali, quanto, piuttosto, nel senso di farci esperire come certe modalità di rappresentare, oltre che di vivere, il “sentire” (il dolore, l’amore per i figli, per esempio), possono essere diversamente modulate, a seconda dello spazio e della cultura di appartenenza, e dunque anche trattate cinematograficamente: sia in senso visivo che temporale. La vicenda è ambientata nella periferia di Shangai, dunque in un’area metropolitana debordante, fuori misura, postmoderna. Siamo in quella che i sociologi chiamano una megacity, dai perimetri illimitati. In uno spazio identificabile solo per la sua indifferente somiglianza con milioni di altri non-luoghi megalopolitani, vive Yang Ba, il protagonista: una figura di soglia, da quanto la sua esistenza sembra essere sempre ai bordi di tutto. È un uomo di mezza età, in una condizione di semipovertà; la sua presenza è sempre decentrata, svuotata, messa in disparte dai rumori e dalle voci della povertà – il cigolìo metallico della rete da letto che accompagna il suo ingresso in scena, mentre si accoppia meccanicamente con la moglie, le voci dei famigliari che domandano soldi, il rumore continuo del traffico. Yang Ba abita in una palazzina sotto una sopraelevata ferroviaria, lavora in un’officina meccanica dove non entra mai nessuno, rischia di rimanere senza casa perché forse trasformeranno il suo quartiere in una zona residenziale, e non sa come pagare gli studi del figlio. Un ricchissimo cugino un giorno lo convince, dietro pagamento, a farsi espiantare un rene: servirà a salvare la vita della sorella di Li Daguo. Yang Ba, senza parlarne a nessuno, accetta, ma poiché l’operazione fallisce, il cugino stavolta proverà, prima pacatamente, poi di prepotenza, a convincere l’uomo a mettere in vendita il rene del suo stesso figlio. È una situazione, come si può capire, di estrema vulnerabilità, ma questa storia che avrebbe potuto essere raccontata in maniera melodrammatica o sentimentale, è riorganizzata formalmente togliendo più spazio possibile al pathos. Qual è lo stile più capace di mettere in primo piano la disperazione: la zoomata, la scena madre, l’affondo in soggettiva, il rimbalzo rapido di campo e controcampo, il montaggio incrociato e drammatico? Tutto questo è tolto di mezzo in The Donor: per costruire uno scenario fatto quasi sempre di interni ripresi di scorcio, con porte semichiuse da cui si intravede il passaggio di qualcuno, mentre la macchina da presa quasi sempre resta fissa, senza mai avvicinarsi troppo ai volti, indugiando lentamente sul silenzio impassibile del protagonista, sulla sua testa che dondola in avanti e in indietro, quasi che il corpo, rimasto l’unico possesso, l’unico valore, e l’unica merce, fosse anche, in senso registico, l’unico espediente espressivo, l’unica risorsa, al di là della parola, per fissare una reazione, uno sviluppo. Prima di uscire di scena, per sempre, il protagonista esita davanti alla macchina da presa per quasi un minuto, afflitto, piegato. Poi si volta, e va via per sempre, affermando la sua verità con una scansione spaziale, visiva e corporea che esprime tutto, pur senza dire niente.

[Immagine: Juan Zeng Zhe / The Donor (Qiwu Zang 2016) (dbr)].

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