di Mauro Piras
Il referendum costituzionale del 4 dicembre è diventato una specie di giudizio di Dio. Sembra che tutto si giochi lì: il governo, la stabilità economica, il destino del paese, persino della democrazia. A seconda di come penderà la bilancia, l’Italia potrà sprofondare nella deriva autoritaria o trovarsi per sempre condannata all’immobilità. Potrà corrompere la sua forma di governo, fino a soffocare la legittimità democratica, o cadere in balìa della speculazione finanziaria e della paralisi politica, o peggio dei populismi. La costruzione di scenari apocalittici fa parte del copione, si sa; in ogni confronto di questo genere i toni salgono facilmente sopra le righe. Ma questo gioco è diventato surreale, perché va troppo oltre la posta effettiva. Anche la tattica politica che lo accompagna e lo alimenta diventa, a ogni svolta, controproducente. Ritorna al mittente come un boomerang. Prima Renzi ha provato la carta del “mi gioco tutto”: questa riforma è il dna di questo governo, quindi non possiamo restare lì se viene bocciato. Aveva la presunzione di vincere grazie alla forza propulsiva del governo stesso, al dinamismo e al carisma del suo leader; e, sottotesto, l’idea che nel peggiore dei casi avrebbe perso bene, e sarebbe andato alle elezioni, quindi, con la campagna elettorale pronta: il cambiamento contro la conservazione. Poi, la tirata d’orecchi sulla “personalizzazione” del referendum istituzionale ha rivelato che quella strategia trasformava l’opposizione alla riforma in un “tutti contro Renzi”. E quindi, brusca frenata. Bisogna spersonalizzare, il governo non è in gioco, si vota per la Costituzione, per il paese, non pro o contro Renzi. Ma la macchina infernale ormai era lanciata, come fermarla? Le opposizioni hanno messo tutto insieme, come è giusto, e contro la riforma hanno mobilitato qualsiasi umore antigovernativo, anche il meno pertinente (come la politica ambientale o la riforma delle pensioni). La “spersonalizzazione”, il “discutiamo sul merito” non sono serviti a nulla (tranne per pochi dibattiti tra eletti). Non hanno aiutato il fronte del Sì a recuperare. E allora Renzi, in queste ultime settimane, si è ributtato sul suo stile preferito: o tutto o niente, o riforma o cade il governo. L’indiscriminata opposizione antigovernativa ritorna ora come un boomerang verso il fronte del No, perché rilegittima il radicalismo di Renzi, mobilita i suoi sostenitori, scalda i tiepidi e gli incerti, e forse ha stancato molti che cercavano davvero di “guardare al merito”. E così tra errori tattici da tutti i lati ci siamo goduti la peggiore campagna elettorale (sui media) degli ultimi anni; mentre si sono visti non pochi confronti interessanti e corretti nei piccoli dibattiti nei circoli, nei quartieri. Ma chissà quanto (poco) contano.
Alla fine, in realtà, la posta in gioco è più bassa di quanto sembra. Nessuna delle due opzioni è il sacro o il demonio, nessuna delle due esce dal solco della tradizione democratica moderna o ne è l’incarnazione intoccabile. Si tratta solo di scegliere tra due modelli (reali, e quindi difettosi come tutto) di democrazia parlamentare. L’idea che con la riforma si cambi la forma di governo è tra le cose più esagerate dette dalle opposizioni. Non si esce dalla forma di governo parlamentare. Si tratta però di scegliere tra un modello più “deliberativo” e un modello più “decidente”.
Il primo, la Costituzione del 1948 in vigore, con il bicameralismo paritario fa dipendere il governo dalla fiducia di entrambe le camere, e lascia ampio spazio alla deliberazione parlamentare, prima della trasformazione in legge delle decisioni governative. Il secondo, la proposta di riforma del cosiddetto Ddl Boschi, attribuendo alla sola Camera dei deputati il voto di fiducia e la funzione legislativa ordinaria, cerca di rendere più diretta la trasformazione in legge dell’iniziativa governativa. Nel primo caso, si preferisce ampliare gli spazi e i tempi della discussione pubblica e della negoziazione politica prima della legiferazione; nel secondo, si preferisce rendere più continuo il rapporto tra l’iniziativa governativa e la legiferazione stessa. Questa seconda opzione implica davvero un grave indebolimento della democrazia? Una tesi del genere è eccessiva. Per ragioni di fatto: perché esistono regimi democratici in cui l’iniziativa governativa è maggiormente garantita, senza che questo comporti l’uscita dalla democrazia. Per ragioni di principio: perché l’idea che la deliberazione e la negoziazione politica siano sempre più democratiche della presa di responsabilità da parte del governo e delle forze politiche è unilaterale. E per ragioni che riguardano il complicato rapporto tra principi e fatti: la deliberazione parlamentare con bicameralismo perfetto può forse essere un principio sacrosanto in astratto, ma va giudicata nel contesto reale dell’azione politica, caratterizzato oggi da due tendenze conflittuali, che quella deliberazione non concilia: la tendenza alla frammentazione degli interessi, e l’esigenza di decisioni politiche pronte ad adattarsi a scenari internazionali mutevoli e difficili da controllare. Vediamo meglio questi diversi tipi di ragioni.
Ragioni di fatto. Esistono diversi regimi politici parlamentari in cui il rapporto di fiducia del governo è stabilito con una sola camera (Austria, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna), e in cui l’attività legislativa ordinaria passa principalmente per una sola camera (Austria, Germania, Spagna) oppure, anche se è attribuita a entrambe, la camera bassa può prevalere in caso di disaccordo tra le due (Francia). Quando invece le due camere esercitano alla pari la funzione legislativa, abbiamo a che fare con regimi politici presidenziali (come gli Stati Uniti) o semipresidenziali (come la Francia), in cui il potere esecutivo ha ampi spazi legittimati dal voto degli elettori, fino al punto di avere un potere di veto sulla attività legislativa delle camere (Stati Uniti), o dei canali preferenziali per trasformare in legge le proprie iniziative (Francia). Ovviamente, tutto ciò non vuol dire che questi modelli, più centrati sulla continuità tra l’iniziativa del governo e l’attività legislativa, siano migliori del bicameralismo paritario, più centrato sulla discussione parlamentare. Vuol dire solo che una simile opzione rientra perfettamente nella tradizione democratica, non è una “svolta autoritaria”.
Ragioni di principio. In prima battuta, la scelta a favore della deliberazione sembra la più coerente con i principi democratici. La democrazia rappresentativa si fonda sulla scommessa di trasportare al livello della decisione parlamentare la volontà del popolo sovrano, che non si esprime direttamente nell’attività legislativa. Questa scommessa è persa se gli spazi di critica e discussione pubblica sono compressi. Se i rappresentanti in parlamento decidessero in assemblea senza dibattito pubblico, allora la loro decisione rappresenterebbe solo una somma di visioni particolari. Nella democrazia rappresentativa, l’assenza di vincolo di mandato si giustifica con la libertà di voto dei rappresentanti; ma è accettabile a patto che i rappresentanti diventino comunque, di fatto, espressione delle volontà dei cittadini, attraverso dei canali di mediazione (i partiti), ma anche attraverso la deliberazione, intesa come sfera della discussione pubblica, ad ogni livello: società civile, vita associativa, partiti, istituzioni. Se non ci fossero tutti questi strati di argomentazione e dibattito, la deliberazione non sarebbe frutto di rappresentanza e mediazione degli interessi, ma diventerebbe largamente arbitraria. Quindi, l’ampiezza della discussione al livello più alto di questi strati, cioè in parlamento, garantisce maggiore rappresentatività all’attività legislativa.
Tuttavia, la democrazia deve soddisfare anche un’altra esigenza: la responsabilità della decisione pubblica nei confronti dei cittadini. La democrazia intende trasformare diverse volontà in una tramite una rappresentanza politica che rispetti l’eguale libertà dei cittadini e il principio della sovranità popolare. Per fare questo, deve garantire il passaggio da diversi punti di vista a uno, quello che adotterà alla fine la legge. Se questo passaggio viene rinviato troppo a lungo, e il progetto iniziale viene stravolto a causa delle negoziazioni politiche a livello parlamentare, la democrazia manca di nuovo le sue promesse, per quanto da un altro lato. Essa disattende al dovere di rispondere alle esigenze della società con decisioni adeguate, rispettando allo stesso tempo il principio di legittimazione democratico. Il dilemma è qui: se si trattasse di rispettare il principio di legittimazione democratico in astratto, basterebbe garantire spazi di discussione sempre più ampi, anche a livello parlamentare, e il bicameralismo paritario sarebbe perciò “più democratico”. Ma la democrazia rappresentativa deve anche prendere delle decisioni orientate secondo un programma politico: poiché non è democrazia diretta, la sua stessa legittimità dipende dalla possibilità di giudicare l’operato di un governo. Quindi l’esecutivo deve avere la possibilità di trasformare in legge il suo programma. Se questa possibilità è limitata da un eccesso di discussione parlamentare, che apre continuamente spazi imprevisti alla negoziazione politica, e quindi alla modifica e all’“annacquamento” del progetto iniziale, il governo tenderà a deresponsabilizzarsi, e per gli elettori diventerà sempre più difficile giudicarne l’operato e scegliere tra una proposta politica e l’altra. La negoziazione politica può gonfiare in maniera abnorme la deliberazione, se non si stabiliscono dei limiti che portano a “chiudere”. Ovviamente, come stabilire l’altezza di questi limiti fa la differenza. Ma se un sistema di bicameralismo paritario ha dimostrato, nel tempo, di favorire questo tipo di esiti, allora può essere corretto cercare altre soluzioni. Si passa qui al terzo tipo di ragioni.
Ragioni tra fatti e principi. Il bicameralismo paritario può forse essere la soluzione migliore in astratto, poiché favorisce il processo deliberativo. Tuttavia, lo stato attuale della democrazia, e soprattutto di quella italiana, ne mostra le debolezze. Intanto, va ricordato che il sistema politico italiano ha lavorato per quasi cinquant’anni (dal 1948 al 1994) in condizioni di “democrazia limitata”: l’alternanza tra maggioranza e opposizione era di fatto bloccata, quindi la realizzazione dei programmi politici non era sottoposta a un reale giudizio degli elettori, i governi non ne erano responsabili; la certezza che le stesse forze sarebbero rimaste sempre al governo ha generato una impressionante stabilità della classe politica nella debolezza e instabilità degli esecutivi, spesso di vita breve, e ha allargato a dismisura gli spazi della negoziazione politica, in cui ogni gruppo di potere cercava di prendere la sua fetta di torta, favorendo i conflitti dentro le maggioranze; infine, la conventio ad excludendum veniva attenuata con lo stile di mediazione tipico della politica italiana, chiamato all’epoca “consociativismo”. Tutte queste pratiche trovavano il loro luogo naturale nella discussione parlamentare, nel dibattito e nella trattativa politica al suo interno, che diventavano sempre più autoreferenziali. E hanno lasciato un segno profondo anche nel periodo successivo. Negli anni della cosiddetta “seconda Repubblica”, cioè del nuovo bipolarismo nato dall’affermazione di Berlusconi, queste pratiche politiche hanno contribuito a rendere impossibile l’azione riformatrice di ogni colore, e a rendere inutile, di fatto, l’alternanza tra governo e opposizione. Soprattutto a partire dalla legge elettorale del 2005 (il cosiddetto “Porcellum”) il Senato è diventato un luogo in cui regolare i conti dentro la maggioranza e azzoppare l’iniziativa di governo. Viene colpita così sistematicamente una esigenza naturale della democrazia: quella che è stata riassunta troppo facilmente con il termine governabilità, ma che andrebbe chiamata più correttamente responsabilità dell’azione di governo. Responsabilità di fronte ai cittadini.
Questi fenomeni tipicamente italiani si collocano però in un quadro più ampio. Essi sono favoriti dal fatto che la politica non è più incanalata dai grandi partiti di massa, sostenuti da grandi strutture organizzative e forti collanti ideologici. Le volontà politiche, quindi, sia dell’elettorato che della classe politica stessa, sono molto più frammentarie e volubili, molto più incerte sulla direzione generale, e portate a muoversi su un orizzonte presente limitato. Questa condizione di contesto può rendere deleterio un sistema che dà spazio eccessivo alla negoziazione parlamentare, come il bicameralismo paritario: le tare già citate sono aggravate da questa disgregazione, e il sistema degenera verso il rischio della paralisi politica. Dall’altro lato, l’integrazione economica e politico-istituzionale sovranazionale, determinata da troppi fattori per essere ridotti al semplice dominio del “neoliberismo”, genera una interdipendenza così forte che i governi nazionali devono essere pronti a prendere decisioni politiche all’altezza della situazione senza impantanarsi in discussioni infinite.
Dentro i vincoli di un sistema che ha dato un peso molto maggiore alla deliberazione che alla decisione responsabile, questi ostacoli sono stati superati aggirando le procedure, o distorcendole: l’abuso dei voti di fiducia e dei decreti-legge, l’invenzione di strategie parlamentari di ogni tipo (come i famigerati “canguri”), i richiami spesso indebiti agli obblighi comunitari (“ce lo chiede l’Europa”).
La riforma costituzionale in discussione propone un modello alternativo: riduzione della funzione legislativa e del rapporto di fiducia alla sola Camera dei deputati (tranne poche eccezioni), trasformazione del Senato in una camera di rappresentanza delle istituzioni territoriali. Il fatto che il Senato perda la funzione legislativa ordinaria può sollevare un’altra obiezione: il controllo sull’operato del governo viene indebolito, perché esercitato da una sola camera. Ma allora questa obiezione andrebbe rivolta a tutti i regimi politici simili. Inoltre, restano tutti i controlli di costituzionalità già presenti, e non va dimenticato che oggi l’Italia, diversamente dal 1948, fa parte di un sistema di diritto internazionale e sovranazionale che tutela i diritti fondamentali dei cittadini anche al di sopra della legislazione interna (diritto dell’Unione Europea, Corte Europea dei Diritti Umani ecc.). Del resto, il bicameralismo paritario non ha impedito, negli anni passati, la votazione di leggi che poi si sono rivelate incostituzionali.
Come detto all’inizio, qui si tratta solo di mostrare che la scelta della riforma costituzionale è perfettamente all’interno della tradizione democratica parlamentare, e che l’elettore dovrà decidere in funzione del modello che preferisce. Il progetto di riforma, rendendo più lineare il rapporto tra iniziativa governativa e attività legislativa, dovrebbe ridurre l’abuso di strumenti impropri (decreti legge, voti di fiducia), e infatti regola in modo più stretto l’uso dei decreti legge. Inoltre, risponde all’esigenza di dare una rappresentanza politica pubblica e trasparente agli interessi delle istituzioni territoriali, che hanno oggi come “camera di compensazione” solo la Conferenza Stato-Regioni, le cui attività non sono né pubbliche né soddisfacenti dal punto di vista della rappresentanza politica.
Ci sono ovviamente anche molti aspetti critici. Non è in realtà molto chiaro quali siano le funzioni del nuovo Senato, oltre a quelle legislative in comune con la Camera: dire che “rappresenta le istituzioni territoriali” ed “esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica” (art. 55, c. 5) è forse troppo vago. La composizione del Senato, che dipende dalle elezioni dei Consigli regionali, rischia di essere troppo instabile, perché queste elezioni avvengono sempre a date diverse, né è ancora chiaro come deve avvenire l’elezione dei senatori, specie dei sindaci (art. 57, c. 6). Si poteva forse pensare a un metodo di elezione di secondo livello tramite “grandi elettori”, che avrebbe garantito maggiore democraticità e maggiore stabilità all’assemblea. Nella formazione delle leggi, la “corsia preferenziale” concessa al governo, che può richiedere alla Camera di dare la precedenza a un disegno di legge “indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo” (art. 72, c. 7) è forse eccessiva, rischia di essere usata in maniera arbitraria (ma ricordiamo che anche la Francia prevede qualcosa del genere). Secondo alcuni costituzionalisti, il nuovo riparto di competenze tra Stato e Regioni (art. 117) rischia di generare ancora conflitti di attribuzione (ma va detto che quello attuale, definito dalla riforma del 2001, ne ha generati così tanti che sicuramente andava modificato). La persistenza (per ragioni politiche) delle Regioni a statuto speciale ne può generare degli altri, ed è ormai ingiustificata.
Ma soprattutto, sono aspetti critici gravi gli elementi politici di contesto: il modo di approvazione, e la legge elettorale che ha accompagnato il Ddl di riforma costituzionale. Dopo la defezione di Forza Italia, l’approvazione della riforma è avvenuta a colpi di maggioranza, spesso ad aula semivuota. Questo certo non ha contribuito a creare un clima di condivisione del progetto. E il cosiddetto “Italicum”, la legge elettorale con premio di maggioranza e ballottaggio di lista, rischia di rafforzare troppo il potere dell’esecutivo a scapito della Camera dei deputati. L’ostinazione a mantenere questa legge elettorale, e a pensarla come necessario corollario della riforma costituzionale, ha nuociuto enormemente a quest’ultima, al dibattito pubblico su di essa e alla credibilità del governo nel proporla. L’accordo raggiunto dentro il Pd per modificare la legge elettorale sembra troppo fragile per dare reali garanzie.
Tuttavia, questi elementi critici non giustificano la gravità del conflitto e le grida di allarme da parte degli oppositori alla riforma. Le uniche ragioni che le giustificano, o meglio le rendono comprensibili, sono ragioni politiche e di “cultura politica”, per così dire. Come è stato osservato da qualcuno, questo voto è diventato un regolamento di conti tra diverse parti della classe politica, e tra diverse parti della società italiana. Inoltre, la sinistra vive una sorta di psicodramma, perché rilancia contro Renzi e il Pd tutto l’armamentario propagandistico usato contro Berlusconi: la “lotta di civiltà” contro la “deriva autoritaria” e “in difesa della Costituzione” è diventata guerra intestina, quindi più aspra. E così questa conflittualità endemica del sistema politico italiano, che non ha ancora trovato una sua stabilità dopo il crollo del 1992, esasperata dai cambiamenti planetari della politica democratica (cfr. Mazzoni, Il salto nel buio), hanno trasformato il referendum in una sfida estrema che rischia di essere una nuova occasione persa, qualunque sarà l’esito.
(Firenze, 1 dicembre 2016)
[Immagine: Parlamento vuoto]
Concordo pienamente sull’esagerazione (ormai irrecuperabile) dei toni biblici e apocalittici che hanno inquinato ogni possibilità di “non avere paura” di questo Referendum.
https://esageratore.wordpress.com/2016/11/30/paura-del-referendum/
: “ 18 dicembre 1992 – La gente è sdegnata ma non tanto. Soprattutto si diverte. Il caro vecchio film comico: la caduta del Fascismo. “.
Grazie, mi sento meno sola
La questione è molto semplice: la riforma costituzionale modifica il modo di governare. Grazie anche alla legge elettorale in vigore, una parte politica controllerà agevolmente il potere legislativo, e lo potrà fare senza ostacoli. Il Parlamento diventerà praticamente superfluo, giacché non avrà alcun reale potere di opposizione. Punto. È tutto qui.
Nella situazione attuale, per altro, dove le Regioni sono controllate in maggioranza dal PD, anche il Senato verrebbe controllato dallo stesso partito. Bene. Si pensi alle ricadute in termini di elezione del Presidente della Repubblica, dei membri del CSM, della Corte Costituzionale, delle Commissioni d’Inchiesta … Potrebbe delinearsi una situazione dove il leader del partito di maggioranza controlla, di fatto, anche i controllori.
Insomma, è innegabile che la riforma modifichi l’impianto stesso della nostra democrazia, spostandolo a favore dell’esecutivo.
Per Piras, questa modifica non indebolisce la nostra democrazia. E permette ad un partito politico di «trasformare in legge il suo programma». D’altra parte, la situazione è tale, scrive lo stesso Piras, che si rende necessario un governo “forte”, non impastoiato dall’eccessivo discutere parlamentare, e che sappia garantire «decisioni politiche pronte ad adattarsi a scenari internazionali mutevoli e difficili da controllare».
Questo è uno snodo importante del discorso. Il governo Renzi che decisioni politiche ha preso in questi anni? È un caso che la riforma venga sostenuta da Confindustria, BCE, JP Morgan, vertici della UE? Oppure c’è la consapevolezza che il governo a guida Renzi può garantire un certo tipo di politica economica e sociale? La questione non è indifferente.
Detto altrimenti: se il mio giudizio sulle politiche del governo è negativo, perché dovrei sostenere una riforma che, di fatto, aumenta ulteriormente il suo potere di legiferare? Non è certo un caso che le mille forme di opposizione sociale, non rappresentate in parlamento, abbiano fatto attiva propaganda per il NO, superando anche la tensione all’astensione che le ha animate in altre occasioni. Così come non è un caso che il principale sindacato (la CGIL) si sia espressa negativamente sulla riforma (così come per altro farà la maggior parte di colori i quali danno ancora un senso alla parola “sinistra”).
È davvero solo un «regolamento di conti», come scrive Piras? Siamo davvero convinti che non si giochi una partira sul piano degli interessi di classe?
Il referendum è uno snodo politico importante. Il “merito” non può esulare dai dati di “contesto”. Nel “merito”, la riforma rafforza la “governabilità” (a scapito della “rappresentanza”, è bene ribadirlo). Rispetto al “contesto”, mentre il SI garantisce, rafforzandola, la continuità delle scelte politiche rappresentate dal PD e da Renzi, il NO può garantire solo la discontinuità.
Quale situazione garantisce meglio la riorganizzazione della “sinistra”?
Icaro (ex Stan)
Applausi a Piras.
Io voto no lo stesso.
“La costruzione di scenari apocalittici fa parte del copione, si sa”, ma “alla fine, in realtà, la posta in gioco è più bassa di quanto sembra”.
Lo scenario prudente e pacato, senza toni apocalittici, rivela tuttavia la poca ponderatezza degli oppositori: “Si tratta però di scegliere tra un modello ‘deliberativo’ e un modello più ‘decidente'”.
Poca roba!, e allora perché questi irragionevoli e testardi conservatori devono gratificarsi con apocalissi catastrofiche e insistono a votare no?
caro Ivan, dici: è un caso che la riforma sia sostenuta da J.P. Morgan ? Perfetto. E’ un caso che la riforma non sia sostenuta da Casa Pound ?
Complimenti a Piras per la sua attenta analisi.
Mi permetto di dire, come del resto fanno in tanti, che la nostra è la più bella Costituzione, ma che è senz’altro perfettibile.
“La Costituzione sarà gradualmente perfezionata, e resterà la base definitiva della vita costituzionale italiana. Noi stessi – ed i nostri figli – rimedieremo alle lacune ed ai difetti che esistono, e sono inevitabili.”(M. Ruini, padre costituente). Adesso abbiamo una vera opportunità di miglioramento. Senza stravolgimenti. La costituzione è patrimonio di tutti e si applica a tutte le forze politiche, indipendentemente dal fatto che queste si trovino a svolgere la funzione di maggioranza di governo o di opposizione.
Non si tratta di stare “con” o “contro” qualcuno, ma di decidere con serenità il nostro futuro, senza paura. Paura di perdere la democrazia, per esempio. Purtroppo qualcuno si diverte a terrorizzare e a far temere una svolta autoritaria, spesso per difendere i propri privilegi. Ma io confido nella maggioranza silenziosa degli italiani che con intelligenza e senza condizionamenti saprà scegliere il suo domani, approfittando di questa grande opportunità di cambiamento.
Questa revisione costituzionale è fatta malissimo (un bravissimo costituzionalista di Pisa, Prof. Panizza, ha fatto il conto che per almeno 10 anni il Palamento sarà occupato a fare leggi costituzionali e ordinarie e il governo decreti attuativi per attuare questo obbrobrio, senza considerare i vizi di costituzionalità insiti in molteplici parti della revisione), consentirà, grazie al combinato disposto con la legge elettorale, alla maggioranza di avere i numeri per: nominare il Presidente della Repubblica, ostaggio della maggioranza, nominare i rappresentanti alla Corte Costituzionale e rivedere la costituzione (grazie al fatto che l’art 138 non è stato modificato in modo più restrittivo). Ogni governo si rifarà la sua costituzione che diverrà, di fatto, flessibile ed in balia della maggioranza di turno. Quali dubbi si devono avere per non VOTARE NO?
Piras, un posto nel prossimo governo o nella redazione di “Repubblica” o sul palco della Leopolda lo troveranno anche per lei.
Che cura, che acribia, che dedizione alla causa di chi ci vuole diseducare a vedere il dettaglio (la riforma) dentro al contesto che la richiede e le dà senso (il neoliberismo, nome che comprende un complesso di forze non omogenee ma ben reali e pervasive).
Ci si invita a non capire il quadro, a ignorare le forze che lo determinano, a non voler leggere il discorso gli dà forma.
Ma lo si fa “pacatamente”, “ragionevolmente” (non sono gli avverbi più usati negli appelli-fotocopia in favore del sì?).
Che questo poi si trovi sotto l’intestazione foucaultiana “Le parole e le cose” non so se fa più ridere o piangere.
Disse quello che sgomitava per un posto al Fatto Quotidiano o al Giornale o sul palco di un Vaffa Day…
Caro Mauro, grazie dell’analisi pacata.
Io penso che la parte più interessante sia quella dove parli di ragioni tra fatti e principi.
Uno degli argomenti più diffusi, specie nel fronte del sì (fino ad arrivare allo snobismo anti-analfabeta funzionale, per cui per decidere cosa votare basterebbe confrontare gli articoli dell’attuale Costituzione con quelli riscritti, solo che gli italiani non capiscono cosa leggono) è stato quello di rimandare a un presunto “merito” inscritto nel testo stesso o, al massimo, nei meccanismi costituzionali e parlamentari.
Se così fosse, illustri costituzionalisti non si sarebbero schierati su entrambi gli schieramenti: prova che la materia è complicata e che ha addentellati nella “realtà” molto oltre il mero funzionamento interno delle istituzioni.
La Costituzione è un quadro formale e ideale, poi conta l’esercizio concreto della democrazia, che è fatto di prassi politiche, della scelta delle classi dirigenti, del funzionamento dei partiti al loro interno e fra di loro (con il consociativismo di cui parli), ecc…
Questo fa quanto mai parte del “merito”. E, allargando il contesto, anche avere una visione politica del futuro piuttosto che un’altra (dunque collegare questa elezione alla situazione dell’Europa e all’elezione di Trump) incide sul voto, perché significa, come scrivi giustamente tu, decidere tra una democrazia deliberativa e una democrazia più decidente (a parte il fatto che ormai una politica dove si procede a colpi di decreti legge è ormai già decidente e il referendum rischia di essere solo l’adattamento della Costituzione formale a quella reale: questo, più che l’argomento della velocità nel produrre leggi, mi pare un argomento più centrato.
Ho letto infatti un istogramma, basato su dati della Camera dei deputati: l’Italia è il secondo paese europeo per leggi votate, inoltre mi pare che l’80% delle leggi passino senza nessun rimpallo, dunque senza nessun impedimento particolare posto dal bicameralismo perfetto. Perciò l’argomento del monocameralismo come poco funzionale ai tempi moderni mi ha convinto assai poco e il resto, specie il pasticcio del Senato, mi ha spinto a molta cautela nei confronti di un referendum che, sulla carta, avrebbe potuto significare un facile sì).
Insomma, questa faccenda del merito, nei dibattiti pubblici, a volte è solo uno fra tanti altri strumenti retorici ad hominem, usato per invalidare le posizioni altrui. E’ sempre l’altro che la pagliuzza della faziosità nell’occhio.
D’altra parte, giusta Perelman, la questione dibattuta è essa stessa in questione e i confini della discussione non possono essere stabiliti così facilmente (a meno di non essere un po’ autoritari o di credere ingenuamente che esistano dati di fatto in materie non strettamente fisiche).
Però capisco il fastidio per la caciara, che è stata ignobile. Come si fa? Come mai, come dici tu, in circoli, associazioni di quartiere, ecc… il dibattito è stato possibile in forme pacate, mentre in tv, sui giornali, nei social no?
La Grande Questione Democratica di questo secolo è il delirio di informazioni e voci, la mescolanza inestricabile tra informazione e intrattenimento, le bufale, la manipolazione delle informazioni, il bombardamento di notizie, la difficoltà a leggere un’analisi compiuta, facendosi bastare qualche tweet.
Io penso che continuare a lamentarsi della caciara senza vederne le cause, denunciandole con voce ferma, porti poco lontano. Abbiamo un problema coi media. Diciamolo.
Quando si supererà il punto di non ritorno nel quale la cultura della (dis)informazione si mangerà quel po’ di democrazia che ci resta? Non raccontiamo tutti indignati come i totalitarismi novecenteschi usassero i mezzi di comunicazione per la propaganda? Non è altrettanto grave la situazione attuale, che pure è formalmente (e, certo, in parte anche sostanzialmente) libera?
La caciara è stata ignobile, per manipolazione e bombardamento, quindi “abbiamo un problema coi media”?
Ma i media sono un soggetto estraneo, e impiccione, o le protesi organiche (la rivoluzione passiva) delle, cioè di una, parte in causa del conflitto?
Tutti i media, aldilà del folklore libertario delle opinioni.
Infatti, caso strano, con la libertà imperante sui media da ormai 25 anni, nella nostra cultura procede una sola corrente che gestisce, unitaria, compatta, e le frange la abbelliscono, la alleggeriscono, ma non la incrinano.
Elementi importanti emersi dal referendum:
• resta in vigore la Costituzione del 1948;
• l’arroganza di Renzi è stata sconfitta;
• una partecipazione popolare molto elevata;
• gli “strati sociali più umili” e i “giovani” hanno voltato le spalle alla politica del governo.
Mi pare un buon punto di partenza per provare ad imbastire una soluzione di “sinistra” ai problemi economici e sociali. Tutto il resto è filosofia.
Icaro
“Mi pare un buon punto di partenza per provare ad imbastire una soluzione di “sinistra” ai problemi economici e sociali. Tutto il resto è filosofia”.
A questo punto nella sitcom parte la risata preregistrata.
HAHAHAHAHAHAHAHHAHAHAHAHAHAHAHA!!!!!!!!!!!!
Seriamente, mi piace quando i sovranisti assumono queste pose così maschie e virili… ‘tutto il resto è filosofia’… mmmmm…
E poi ‘gli umili’ e ‘i giovani’… mi ricorda tanto la parte meno edificante del messaggio di Pier Paolo Pasolini…
@Stefano Trucco
Guardi, stavo per scrivere un commento molto cattivo, del tipo: lei dimostra solo la tua pochezza umana e intellettuale. Poi ci ho ripensato, ed ho accantonato il livore preferendo non dico il dialogo, del tutto impossibile con chi ridicolizza chi la pensa diversamente, ma l’argomentare (minimo, certo, che proprio non ne vale la pena) … E allora mi permetta: cercare una soluzione di sinistra non c’entra niente col sovranismo. Si informi, se le parrà. Rispetto al suo tono arrogante, che dire? Chi è in grado di mostrare solo sentimenti primordiali e violenti non potrà mai ammaliare. Mi creda: il sole al tramonto non è un incendio …
Icaro
Tranquillo, io sono una persona bassa e meschina, bassa anche socialmente, con tutte le caratteristiche del classico ‘liberto’ nato schiavo, compresa la diffidenza nei confronti di chi usa la cultura (insomma…) per scalate di status sociale e, più in generale, ‘banfa’, come si diceva fra noi in piazza negli anni Ottanta.
Buona rivoluzione, e buona fortuna. Ne avrà bisogno.