cropped-C_2_fotogallery_3006913_2_image-1024x688.jpgdi Guglielmo Pianigiani

L’apertura della Scala 2016 si è affidata, questa volta, a un titolo del grande repertorio: Madame Butterfly di Giacomo Puccini. Non si tratta, tuttavia, della versione più conosciuta, la quarta, quella che riproduce la prima parigina del 1906. La Scala ritorna alla Prima assoluta, quella originale del 17 febbraio 1904, fiasco totale e delusione cocente per Puccini. La ripresa bresciana (28 maggio 1904) sancì, invece, un successo pieno e l’inizio di un percorso di affermazione in tutti i teatri del mondo. Altri interventi furono predisposti per la versione di Londra (1905), ma confluirono nella definitiva del 1906. Messa a punto laboriosa, come possiamo vedere, con un Puccini impegnato per la prima volta su una tematica esotica e assillato dalla distribuzione drammaturgica delle scene. Occorre, per altro, escludere che l’esito nefasto della prima possa risalire a questioni tecnico-drammaturgiche e attribuirne, forse, la responsabilità a macchinazione a suo danno ordita dall’editore Sonzogno. Gli interventi si resero necessari perché era l’impostazione ideologica di base che richiedeva un aggiustamento di tiro.

Derivata da fonti francesi e americane (Madame Chrysanthème di Pierre Loti, 1887, il racconto di John Luther Long, 1897, il dramma di David Belasco, 1900), oltre che dall’opéra-comique di André Messager, la Butterfly affronta uno dei temi più cari dell’orientalismo: l’incontro fra cultura occidentale e orientale. Illica e Giacosa rimescolano le carte, soggiacciono – come sempre – alla volontà dispotica di un Puccini preoccupatissimo di realizzare la giusta atmosfera e di delineare personaggi convincenti. Senza addentrarci in analisi tecniche, si può sostenere che esiste una certa differenza d’impostazione fra la versione 1904 e la definitiva. Il libretto per Milano risente ancora molto delle fonti e si sofferma, forse più del dovuto, nella pittura d’ambiente. Il primo Atto è più lungo proprio perché il testo si dilunga nella descrizione di piccoli comportamenti, su personaggi minori della parentela (lo zio Yakusidè, per esempio), su scenette di carattere e spiritose.

Soprattutto, cambiano in parte i rapporti fra i protagonisti. Il ruolo di Pinkerton (tenore), l’ufficiale americano che decide di sposare la geisha Cho-cho-san (soprano), appare molto più rude e meschino. Il disprezzo per il mondo giapponese è pressoché totale: non ne capisce gli usi e i costumi, irride ai loro nomignoli e divinità, agisce con cinismo e senza scrupoli. Anche il ruolo della nuova moglie americana di Pinkerton, Kate, appare più articolato e più esplicito: lei stessa confessa a Butterfly di essere la causa di tutte le sue sciagure e chiede comunque alla ragazza di affidarle il bambino avuto da Pinkerton. Nella versione 1904 è, inoltre, mantenuto l’episodio del denaro che il console Sharpless (baritono) dovrebbe consegnare a Cho-cho-san per lenire il dolore e la sua povertà.

Una drammaturgia, dunque, che vorrebbe essere più divertente (specie nel primo Atto), più diretta e che non attenua in nulla le colpe di Pinkerton e il suo inqualificabile cinismo di occidentale. Un comportamento così fastidioso e vigliacco che Puccini e Illica previdero, per Brescia, l’inserimento di una romanza per il tenore, «Addio fiorito asil», in modo da attenuare lo sprezzante e disinvolto agire di Pinkerton, e lasciar intravedere qualche accenno minimo di rimorso nei confronti della ragazza sedotta, abbandonata e con un figlio (nel più tipico stile melodrammatico). A mio parere, tuttavia, quell’Aria non funziona e non convince, e la sua assenza nella versione originale non ne fa percepire la mancanza. Non solo per motivi ideologici o di opportunismo etico: non bastano due pagine di cantabilità distesa a mutare il giudizio sull’ufficiale americano. È sotto il profilo compositivo che l’operazione risulta poco accettabile. Esattamente come nel caso dell’aria più celebre dell’opera, «Un bel dì vedremo», o «Vissi d’arte» in Tosca, o «Ch’ella mi creda» in Fanciulla del West, la forma tradizionale interrompe la fluidità drammatica, costringe l’ascoltatore a una brusca frenata narrativa per assaporare una parentesi melodica inessenziale all’azione. Ciò risulta tanto più fastidioso quanto più lo stile compositivo è orientato verso una continuità sinfonica “wagneriana”, innervata da un tessuto costante di temi musicali, sapientemente intrecciati in una trama densa di significati. Perché Butterfly, in effetti, appare una delle più wagneriane opere italiane, intendendo con questa qualità l’articolazione di motivi conduttori ad alta densità drammaturgica. Il momento “lirico” ha senso e svolge a pieno la propria funzione se scaturisce per via naturale dall’impasto sinfonico, dallo sviluppo del materiale e ne è conseguenza. Altrimenti, non appare che una parentesi priva di senso, un effetto senza causa, per dirlo in termini wagneriani. Uno stimolo ulteriore per calarsi nella versione originale e valutarne, a distanza di più di un secolo, la tenuta drammatica e il contenuto di verità.

[Immagine: La prima della Butterfly al Teatro alla Scala]

 

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