di Francesco Pecoraro

Noi baby boomers – prima di essere rivoluzionari sessuali, sessantottini confusi, simpatizzanti/militanti, opportunisti integrati, socialisti corrotti, radical chic/disoccupati cronici e infine parassiti in pensione – agli inizi, ma veramente agli inizi, eravamo western. Voglio dire che noi baby boomers – prima di essere cattolici, o meglio, in concomitanza con l’andare in parrocchia per giocare a calcio, ping pong e a respirare una gran quantità di polvere e religioso senso di colpa – eravamo cowboy interiori. O meglio lo stavamo diventando a furia di vedere film western americani. Di serie A e soprattutto B.

Essendo quelli di serie B, se ricordo bene, girati anch’essi quasi sempre a colori, ma in formato normale, con attori non proprio di primo piano – come il faccia-buona Randolph Scott, che ne fece una sessantina, fino a Sfida nell’alta sierra di Sam Peckinpah – e trame molto tipologiche con duelli tra le rocce e assalti alla diligenza.

Mentre il western di serie A era in Cinemascope (qualche volta in Todd-AO) ed era attento ai grandi spazi, aveva cast magnifici e sovente molti indiani, quello di serie B era seriale e girato in economia. Quasi completamente privo di indiani e di ampio paesaggio, iniziava con un uomo a cavallo nella prateria, ripreso di fronte mentre arrivava in città, e di solito terminava con lo stesso uomo a cavallo ripreso di spalle mentre se ne andava. Tra queste due sequenze c’erano un villaggio di frontiera, allevatori, pistoleri, saloon, banditi, donne solo apparentemente di costumi facili, sceriffi e varie vicende, in cui gli stessi elementi narrativi e le stesse figure tipologiche venivano ricombinate fino allo sfinimento.

La costante che accomunava questi film era l’assenza della Legge. Credo che non esista film western dove non venga pronunciata almeno una volta la parola Legge. Perché è lì, in quell’assenza, che risiede tutta la specificità problematica delle storie dell’Ovest, una specificità che ancora, neanche tanto debolmente, si riverbera nell’oggi americano con il blocco repubblicano degli stati centrali, che si rifiuta di concedere completamente allo stato il monopolio della forza.

L’assenza o l’estrema debolezza di un entità istituzionale dotata di monopolio della forza, capace di emanare leggi e di amministrare equamente giustizia, riporta nel cinema western ogni conflitto umano a una fase anteriore la polis, in cui alla rigida regola del dente per dente sembra affiancarsi il bisogno di darsi uno stile morale, cioè un codice di comportamento individuale fatto innanzi tutto di coraggio, ma anche di lealtà, generosità, senso dell’amicizia, sensibilità verso ciò che è giusto fare/non-fare, oltre al disincanto e all’estetica del gesto gratuito. In questo quadro la figura dello sceriffo, e ancora più quella del marshall, cioè dell’uomo nominato e pagato per farsi carico della funzione di contrasto e repressione della violenza individuale, assumono notevole rilevanza narrativa. Uno sceriffo era quasi sempre al centro dei filmacci che ci godevamo nelle sale parrocchiali dell’epoca: così impiegavamo i lunghi pomeriggi liberi che i pochi compiti della scuola media ci concedeva.

Era naturale che, assieme a un divertimento seriale e tipologico, il western ci trasmettesse i suoi codici per così dire morali, la cui particolarità era quella di essere completamente laici e endogeni, vale a dire non generati e imposti da un’autorità superiore, umana o divina che fosse, ma prodotti dal concetto di dignità virile di allora.

I preti che gestivano le sale parrocchiali stavano attenti a tagliare le scene erotiche di tutti i film, ma non si accorgevano del messaggio profondamente anti-religioso contenuto nella caterva di western che programmavano: la legge non è quella di Dio e neanche quella degli uomini, la legge è dentro di te e in molti casi obbliga allo spargimento di sangue. Tuo e/o altrui. Fu così che i babyboomer, a furia di andare al cinema il pomeriggio, cominciarono a diventare dei cow-boy interiori: non mi capiterà, ma se dovesse capitarmi una situazione alla Randolph Scott, so che dovrei comportarmi da uomo, pensavo. Dove per uomo si intende un individuo dotato dello stile morale di cui sopra.

Successivamente la vita si sarebbe presa cura di noi, dimostrandoci due cose. La prima fu che il codice morale western che credevamo di avere interiorizzato non avrebbe retto alle poche prove cui sarebbe stato sottoposto. La seconda, molto più importante, fu che quel codice sarebbe comunque stato del tutto inutile, perché una società civile pacificata, organizzata e implicitamente regolata secondo la sordida, sottile, lotta di tutti contro tutti, avrebbe preteso da noi soprattutto astuzia-opportunismo-egoismo-ipocrisia-slealtà, attitudini invece tipiche della figura del cattivo, che, esecrato nel western, sarebbe poi divenuta quasi stimabile nel garbuglio della vita vera.

Semplificando, accadde anche un’altra cosa: da un certo momento in poi – dopo l’apoteosi barocca e conclusiva di Sergio Leone e soprattutto di Sam Peckinpah – Hollywood praticamente smise di fare film western. Il genere morì credo verso la fine degli anni Settanta, con alcuni rilevanti episodi di resurrezione, tra cui il recente bellissimo Appaloosa di Ed Harris (2008), imperniato sulle figure di un marshall e del suo aiutante che schizzano fuori dallo schermo, tanto sono ben costruite.

Tra i molti western visti, Ultima notte a Warlock (Warlock), di Edward Dimitryk, 1959, mi aveva particolarmente colpito. Avevo 15 anni, ero un ragazzino alla ricerca inconsapevole di modelli virili, perciò fui fulminato dalla figura di Clay Blaisedell, così come l’interpretava Henry Fonda. L’immagine di quel pistolero mi rimase fortemente impressa, così come quella del suo amico Morgan (Anthony Quinn) assieme a tutta la vicenda che il film racconta. Al contrario delle modalità narrative dominanti nel genere, Warlock ha un intreccio che mi appariva di un’ affascinante complessità, annodata attorno alla modalità binaria coraggio/codardia, che a quel tempo, come oggi, era una delle mie ossessioni. Da allora non l’ho più rivisto e pian piano nella memoria si è sovrapposto parzialmente a Sfida infernale (My Darling Clementine), di John Ford (1946), anch’esso ispirato alla nota vicenda di Wyatt Earp, sceriffo di Tombstone nel 1882, e della sfida all’O.K. Corral. Motivo della confusione è che anche lì il protagonista, praticamente nella stessa parte, è Henry Fonda.

Poi, di recente e inaspettatamente, è uscito Warlock, romanzo scritto nel 1958 da un certo Oakley Hall (1920-2008), di cui non sapevo nulla, tradotto da Tommaso Pincio e pubblicato da Sur. Con queste due garanzie l’ho subito acciuffato. È un testo di quasi settecento pagine e io sono un lettore lento. Ci ho messo un mese per finirlo, ma l’immersione nel mondo costruito dalla scrittura scarna e fattuale di Hall, resa così bene da Pincio, è stata si può dire immediata. Letteratura popolare? Forse, anzi certamente. Ma, come solo certi scrittori nord-americani hanno saputo fare, senza concessioni, cadute, trucchi.

Leggere Warlock ha significato, non solo rivisitare il genere western – dopo i decenni in cui l’avevo incapsulato e come messo via: voglio dire accantonato dalla coscienza, ma sempre fortemente agente nella mia sub-coscienza, che ancora si pone domande sul coraggio, la lealtà, il combattere e morire per qualcosa, oppure per niente, come sembra facciano quasi tutte le figure del romanzo – ma anche de-semplificarne le tematiche. Il libro racconta con notevole maestria la vicenda complessa, piena zeppa di personaggi, della nascita stentata del così detto ordine sociale in una città mineraria del sud-ovest americano, che vive uno stadio evolutivo in cui i gruppi sociali non sono ancora del tutto al loro posto. E dove ragione e verità sono continuamente oscurate, non solo da passioni e convenienze e dalla mancanza di degni mezzi di informazione, ma dal tormento del dover-essere e soprattutto dal mortale obbligo di dover-apparire (uomini).

Oltre al basilare conflitto tra capitale e lavoro, cioè tra minatori e società minerarie, che costituisce il plafond di sostegno per tutte le altre vicende (la miniera d’argento è la ragione di esistere della città stessa), Hall mette in scena altri soggetti: allevatori inselvatichiti, con la loro sub-cultura della violenza che la civitas di Warlock, aspirante a uno status riconosciuto di città, non può più accettare, confliggono con i notabili locali e con il loro braccio armato assunto per l’occasione, Clay Blaisedell. Avventurieri, giocatori, gunfighters con diversi conti aperti legati a vicende pregresse, sempre di passione e violenza, di sopraffazione e sangue, che domandano vendetta e influenzano non poco il presente della città. Se Warlock riuscirà a superare il momento in cui tutti i diversi conflitti convergeranno in un unico sconvolgimento, potrà dirsi finalmente una città. Altrimenti resterà ferma allo stadio provvisorio di turbolento insediamento minerario, come quelli che a quei tempi nascevano continuamente, per venire poi abbandonati all’esaurirsi dei filoni.

Subito il romanzo si pone con chiarezza il dilemma fondamentale di tutta la narrazione western: qual è il dettato etico cui deve attenersi l’individuo in assenza della costrizione imposta dalle leggi dello Stato? Da dove attinge i suoi valori l’agire umano, se non può o non riesce a aderire alla sola norma religiosa? Come si costruisce quel perno interiore capace di determinare il modo in cui conduciamo la nostra esistenza, a prescindere dalla contingenza del costume e della legge? In altre parole: esiste una morale assoluta capace di rendere degna una persona al di là di cultura, estrazione sociale, religione, legge? A qualcuno sembrerà una forzatura paradossale, ma sono convinto che tutto il cinema western parli in fondo solo di questo. E che il fascino che ha esercitato su di noi veniva da qui, cioè dalla domanda fondamentale: come (e secondo quale modello) essere integralmente uomini in assenza della costrizione della norma?

Così posta, la questione genera una serie di domande a cascata, a partire da cosa si intenda con quell’essere uomini cui nel romanzo continuamente si allude. Warlock ci mostra che, benché la risposta convenzionale comporti l’elencazione di una serie di qualità che consideriamo, se non virtuose, sicuramente positive, nessuno dei protagonisti riesce ad aderire sempre, cioè in qualsiasi circostanza, alla versione western del modello virile. Versione che oggi consideriamo «di destra», liquidandola assieme a un intero genere che per quelli venuti dopo di noi e per i nostri figli ha perso completamente, e forse giustamente, fascino e significato. Ma la domanda rimane: nel conflitto umano esistono norme assolute, cioè al di sopra delle contingenze politiche e delle stagioni ideologiche, cui attenersi?

Si parla di «modello virile», perché alla donna western vengono richieste altre virtù. Tuttavia in Warlock le donne sono singolarmente anti-convenzionali. Nel libro come nel film ci sono due figure femminili molto rilevanti. Eppure nessuna delle due è virtuosa nel senso tradizionale del termine: sono donne libere che agiscono secondo la propria volontà e i propri sentimenti, lungo una linea del tutto incurante del giudizio altrui, che si direbbe di completa emancipazione. Probabilmente, là dove non esisteva una borghesia formata e pienamente dominante non avevano corso nemmeno le sue convenzioni.

Di fatto Warlock racconta il tentativo di presa del potere di una classe di esercenti banchieri commercianti, ma anche di imprenditori (in questo caso minerari), che, interessata allo svolgersi regolare dei propri affari, punta a stabilire legge e ordine, escludendo e reprimendo i soggetti dal comportamento a vario titolo violento. È per questo che viene assunto il gunfighter Clay Blaisedell (esattamente come nell’antico Giappone si assumevano i samurai): perché tenga a bada i minatori ubriachi e, nelle loro scorrerie in città, i cowboys della vicina San Pablo, brutta gente dedita agli assalti alle diligenze e alle razzie di bestiame oltre il confine con il Messico. Con questi ultimi vale il confronto in «duello regolare», cioè faccia a faccia a chi estrae e spara per primo, mentre per mettere a posto i minatori in sciopero interverrà un’autorità superiore, a dimostrare ancora una volta qual è il ruolo dello stato nella lotta di classe.

Hall, che scrisse anche il soggetto del film di Dimitryk, o chi per lui, forse per motivi di opportunità politica (siamo in pieno maccartismo) espunse dalla pellicola lo scontro violento tra minatori e padronato, su cui invece nel romanzo insiste molto, facendone causa indiretta di accadimenti e private rese dei conti, la cui memoria, nelle bellissime ultime pagine del libro, diverrà incerta e sfumata per la confusione di verità e menzogna che marcò le vicende umane dei grandi spazi dell’Ovest americano.

[Immagine:  Edward Dmytryk, Warlock].

14 thoughts on “Etica western

  1. Interessante, grazie.
    Segnalo però che il “marshal” (solo una elle) è lo sceriffo federale, nominato dal governo appunto federale. Lo sceriffo degli western – anche quello di Warlock – è di solito il funzionario di polizia eletto dalla comunità locale.

  2. @buffagni
    In questo caso il testo inglese dice diversamente: marshal è proprio una specie di vigilante assoldato dalla comunità locale, e il funzionario federale è sheriff. Anzi, a Warlock c’è un deputy sheriff. Fatto che nel romanzo ha il suo peso simbolico: in città il posto di guardiano della Legge, se non proprio vuoto, risulta occupato da un sostituto.

  3. Grazie della correzione, mi scuso se ho sbagliato.
    Non ho letto il romanzo, ho visto il film. Che io sapessi, non solo oggi (il Marshal Service esiste tuttora) ma anche nell’Ottocento il marshal era nominato dal governo federale, lo sheriff eletto dalla città o dalla contea. Ma certo lei ne sa più di me, quindi rinnovo scuse per l’errore e ringraziamenti per la correzione.

  4. Il libro è molto diverso e molto più bello del film. In effetti la vicenda si svolge in un territorio che non sembra ancora far parte degli Stati Uniti: vi esiste la figura dello sceriffo di contea e del suo vice-sheriffo (che opera a Warlock, che non ha ancora una contea, quindi un suo sceriffo). Nel libro viene da tutti chiamato marshal (con una sola elle) un pistolero assoldato da un gruppo di privati cittadini per contrastare la violenza dei cow boys: quest’uomo è moralmente e si può dire giuridicamente obbligato ad operare secondo le regole del duello detto “regolare”, cioè faccia a faccia con pistole: anche lui è stranamente fuori della legge, ma non viene mai punito: l’unico vero delegato è il vice sheriffo, che tuttavia da solo non ce la fa: mi fermo se no racconto tutto il libro.

  5. Adesso penso di aver capito da dove viene l’equivoco. Se la vicenda si svolge in un territorio che non è ancora diventato Stato dell’Unione Federale (prima del riconoscimento, il territorio doveva rispondere a certi requisiti, per es. di popolazione) allora il pistolero assoldato dai privati viene chiamato “marshal” per contiguità alla figura ufficiale del vero e proprio “federal marshal”.
    Ai federal marshals, infatti, veniva affidato dal governo federale USA il compito di polizia nei territori non ancora trasformati in Stati dell’Unione, e la loro giurisdizione era superiore a quella delle polizie locali elettive, gli sceriffi. Furono federal marshal, per esempio, Wyatt Earp e i suoi fratelli a Tombstone.
    Insomma: il protagonista di Warlock NON è un vero e proprio marshal perchè non è nominato dal governo federale; chi lo assolda lo chiama così per ufficializzarne la funzione e chiarire che è sovraordinata a quella del vicesceriffo locale.
    Si veda qui: https://www.usmarshals.gov/history/timeline.html

  6. Ciao Francesco, un testo molto bello e che, come puoi immaginare, sento molto vicino. Scrivo un piccolo commento qui, perché per qulche motivo non posso commentare sulla pagina di Tommaso Pincio che l’ha diffuso su fb. Su “Warlock” il film, rispetto a quello che ne dici, ho una glossa. Nel film ci sono due assi morali, uno descritto dai poli Henry Fonda-Richard Widdmark, l’altro dai poli Henry Fonda-Anthony Quinn. Andando a memoria, il primo asse è quello fra violenza e civiltà, fra monopolio illegittimo e legittimo della forrza, e pone il problema del coraggio personale e civile. Il secondo asse è più sottile e interessante, riguarda l’inclusione o l’esclusione dalla comunità morale, alla luce dei rapporti di amicizia, fratria, ecc. Quinn uccide un uomo durne una rapina, all’inizio del film. Da quel punto è segnato moralmente. C’è una specie di codice naturale di inclusione/esclusione che passa di lì. Fonda, che uccide soltanto per necesssità, sta a posto. Ah, ho visto che il libro è ambientato essenzialmente nell’Arizona del sud (dove sono io) negli anni 1880. C’erano miniere di rame e d’argento e minatori e padroni. Ma nel western non era questo il conflitto sociale tipico. Piuttosto, era quello fra debitori e creditori, farmers e banchieri. E in subordine, fra allevatori e farmers. Ma il primo eraa quello essenziale. Direi. Ciao!

  7. un articolo spiccatamente ‘sovranista’..i miei grandi complimenti a Pecoraro di cui ho riportato l’articolo su ‘Appello al popolo’.

    “Con questi ultimi vale il confronto in «duello regolare», cioè faccia a faccia a chi estrae e spara per primo, mentre per mettere a posto i minatori in sciopero interverrà un’autorità superiore, a dimostrare ancora una volta qual è il ruolo dello stato nella lotta di classe”.

    La spinta affascinante ma anarchica e distruttrice dell’universo individualista western che rispecchia il liberismo più bieco, affiancato contemporaneamente da un’opposta spinta utopica che vuole ristabilire la Legge: ovvero, l’organicità scaturita da una nobile concertazione tra classi mediata dallo Stato.

    Che corrisponde all’unica vera soluzione che dovrà essere realizzata per l’Italia affinché esca dall’Unione Europea e dalla crisi.

    congratulazioni

  8. Bell’articolo, grazie.
    Vorrei chiedere qualche commento a chi ne sa più di me.
    Mi ha sempre incuriosito una cosa.
    In uno dei conflitti primari del mondo western, quella tra allevatori e coltivatori, i primi quasi sempre fanno la parte dei cattivi. Gli allevatori scorazzano sulle piantagioni e vogliono distruggere la ‘legge della comunità’ che cerca a fatica di insediarsi disponendo i confini; mercenari al soldo dei grandi proprietari di mandrie uccidono senza morale chi tenta di definire la civiltà della legge.
    In altra zona (l’Inghilterra mercantile del XVII-XIX secolo) invece i grandi coltivatori sono stati quelli che hanno requisito le terre demaniali con le famose enclosures, privando il popolo comune, i piccoli contadini e magari anche qualche allevatore, di quel bene primario e libero per i loro interessi privati di proprietà.
    Non pare curioso anche a voi che nel mondo dell’America western l’allevatore fosse visto come il depredatore del comune, mentre in Inghilterra questo ruolo sembra essere stato ricoperto dagli agricoltori?

  9. Non so se ne so più di te. Ma in Inghilterra il bene scarso era la terra e la competizione era per appropriarsela chiudendola. Nei territori e negli stati del west il bene scarso era il capitale. Gli allevatori erano in primo luogo detentori di capitale (le mandrie e le banche). La terra che un farmer poteva coltivare e chiudere valeva pochissimo. Il punto di vista narrativo e morale interessante è quello di chi è minacciato, quindi quello dei cottagers non proprietari prima, dei farmers piccoli proprietari dopo. Poi ci sono i conflitti fra allevatori staniali e allevaatori transumanti. E dopo fra operai e industriali.

  10. Splendido come moltissime delle cose che scrivi.
    La tua analisi del tema etico fondante del western è illuminante e aiuta anche a capire, per gli appassionati del genere, come da un certo momento in avanti il rallentamento del grande fiume hollywoodiano abbia prodotto la separazione del corso principale in due correnti, il western da camera alla Sergio Leone (che estremizza proprio il conflitto etico) e il western che rielabora il problema del rapporto con gli indigeni.

  11. Grazie per la vostra attenzione e per gli apprezzamenti.
    @Tito: nel libro è molto presente il conflitto tra lavoratori e datori di lavoro delle miniere: c’è un sindacato, ci sono scioperi e violenza per così dire politica: tutte cose assenti nel film: hai ragione sul doppio asse di conflitto morale presente nel film (e nel libro), che non ho rivisto interamente: tutto sommato la figura di Morgan-Quinn è quella più interessante, perché è la più ambigua e combattuta: la critica parlò di un suo rapporto di latente omossessualità con Blaisedell-Fonda…
    @Raul (grazie): a mio parere il problema del western di Leone è che non capisce la base etica su cui si fonda il genere, base che è invece ancora ben salda in Sam Peckinpah, che è più o meno suo contemporaneo: se a questo ci aggiungi il manierismo estremo e l’insopportabile impasto musicale di Morricone, ne scaturisce la catastrofe estetica che conosciamo: probabilmente non sarai d’accordo.

  12. Caro Francesco, ormai sono OT rispetto al tuo bellissimo articolo e ti rispondo solo per sfizio personale. Leone mi piace quando concentra, non quando allarga la prospettiva; la sua rappresentazione estrema ma ludica della violenza, in un West che diventa un inferno darwiniano in cui tutto è possibile, la trovo esteticamente fascinosa e coerente, mentre quando cerca di dare un respiro epico al quadro si sente una stonatura che distorce, almeno per me, la commozione in enfasi.
    Lo si vede benissimo nel suo film meglio sceneggiato, “Il buono, il brutto, il cattivo”: finché scorre veloce il fiume delle invenzioni narrative, fin dalla prima sequenza, va tutto bene; quando ristagna e si allarga nelle pozze moraleggianti, come nella scena dell’esplosione del ponte, cambia di passo e di tono, rallenta, si schiarisce la voce, cerca di dire cose importanti e finisce nella strombazzata retorica di originalità pari a zero (la guerra è una cosa brutta: sai che novità). Lo stesso vale per “C’era una volta in America”.
    In un certo senso Leone è nel western l’equivalente di Dario Argento nel thriller/horror, e non a caso i due hanno collaborato per “C’era una volta il West”, altro film fortemente dicotomico: sono tecnicamente dei mostri, con un senso geniale del dettaglio feroce, convincenti tanto più quanto meno se lo pongono, il problema etico. Almeno, io la penso così.
    Un caro saluto e già che ci siamo: “La vita in tempo di pace” è il mitico grande romanzo italiano di cui si favoleggia da decenni. Non ci sono discussioni su questo, ci può essere solo l’ignoranza di chi il libro non l’ha letto. Ti abbraccio.
    Raul

  13. Grazie ancora Raul e auguri in ritardo. Quello che dici su Leone lo condivido. Avrei da fare qualche osservazione. Ma mi manca il tempo e la forza di argomentare. Ne avremo modo, penso. Ricambio l’abbraccio.
    pec

  14. @ Pec

    la tua affermazione su Leone non è di quelle che si possono fare in un saloon pensando di uscirsene con le proprie gambe. Passi per Morricone (i gusti son gusti), ma in che senso Leone non ha capito la base etica che fonda il western? In realtà per me Leone è un genere a sé, ha preso il western come ambientazione; poi però se provo a inserire i suoi film nel tuo discorso, Il B B e C è una rappresentazione didascalica etica. Abbiamo i due estremi della bontà e della cattiveria, e l’uomo comune, il brutto, eticamente debole (però non è molto bella e eticamente discutibile, ma per questo interessante, la scena con il fratello prete nella missione che lo rimporvera di essere un delinquente, al quale il brutto risponde che è molto più facile fare il prete che il delinquente?). Per cui niente, se e quando avrai tempo e voglia, spero ne scriverai

    ps

    e Tex? com’è possibile che non sia stato citato? non è forse il tentativo di inserire Dio nel western?

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