di Justin Steinberg
[È da poco uscito, presso Viella, Dante e i confini del diritto di Justin Steinberg. Si tratta della traduzione italiana di Dante and the Limits of the Law (University of Chicago Press 2013), il primo studio complessivo della struttura giuridica che sorregge la Commedia. Steinberg mostra come Dante immagini un aldilà dominato da leggi, giurisdizioni, funzionari, giudici e eccezioni. La Commedia viene così inserita nel dibattito contemporaneo sui rapporti fra letteratura e diritto, sullo stato d’eccezione e sulla sovranità].
L’opera e il pensiero di Dante poggiano chiaramente su un’impalcatura di matrice legale.[1] La centralità del diritto si avverte soprattutto nella Commedia: Dante immagina l’aldilà come una struttura amministrativa fortemente regolata, dotata di una complessa rete di leggi locali, giurisdizioni gerarchiche, punizioni e ricompense ben calcolate. La costruzione normativa dell’oltremondo dantesco continua a suggestionare l’immaginario collettivo, tanto che se oggi si pensa alla dannazione non basta più alludere semplicemente all’Inferno, bisogna anche definire lo specifico girone.
A differenza del suo contemporaneo Cino da Pistoia, che fu poeta e giurista, Dante probabilmente non ebbe una vera e propria formazione nel campo del diritto civile e canonico. È raro che faccia riferimento a specifici testi legali – e in ogni caso questo accade soprattutto in opere dottrinali come il Convivio e la Monarchia. È anche vero però che Dante, prima come funzionario pubblico e poi come condannato, fu immerso nella cultura giuridica del suo tempo, e la Commedia è permeata di rituali giuridici che regolavano la vita quotidiana: privilegi speciali, concessioni, immunità, amnistie e assoluzioni, giuramenti e patti. Più che le citazioni dei testi legali, sono queste forme del diritto a esprimere la posizione del poeta nei confronti della legge e della giustizia.[2]
Nella concezione dantesca della giustizia divina i casi limite svolgono un ruolo centrale. Può sembrare paradossale, ma se Dante crea un’elaborata geografia normativa è proprio perché vuole esplorarne le eccezioni. Le regole del gioco vengono velocemente assimilate dai lettori, per essere poi altrettanto velocemente infrante: i pagani sono salvati, i dannati compatiti, i giuramenti infranti, le condanne ridefinite. Lo stesso racconto del viaggio può essere considerato un’eccezione, il privilegio personale accordato a Dante di attraversare l’altro mondo, rimanendo tuttavia immune dalle leggi che egli stesso ha ideato.
Così come oggi analizziamo le opere d’arte del passato tenendo in considerazione l’immaginario estetico del tempo, allo stesso modo dovremmo storicizzare anche i riflessi condizionati che l’opera di Dante provocava nei lettori della sua epoca, soprattutto in materia di norme ed eccezioni. Prima che l’autorità legislativa venisse concentrata nel moderno Stato centralizzato, la possibilità di sospendere una certa norma, o meglio di derogarvi, era considerata organica al sistema giuridico. Anche quando i rescritti imperiali o le dispense papali erano contra ius – violavano cioè il diritto positivo – si presupponeva che rispettassero comunque un sistema superiore di norme, cioè i principi fondanti, “costituzionali”, dello ius commune e i precetti del diritto naturale. Queste eccezioni regolate servivano a bilanciare le necessità della giustizia con l’autorità della legge, rendendo adattabile il sistema giuridico, assicurandogli una portata universale. In questa prospettiva, l’eccezione garantiva al diritto una continuità applicativa, sottraendolo al rischio di diventare lettera morta davanti a casi non previsti.[3]
La principale differenza tra il moderno concetto di eccezione e quello medievale è che il primo ha carattere politico, il secondo giurisprudenziale. Se lo Stato sovrano è minacciato, le istituzioni possono oggi invocare l’eccezione e sospendere l’ordine legale. Nel sistema giuridico medievale, governato da un corpo di giuristi professionisti, l’eccezione esprimeva invece la persistenza dell’ordine legale. Per questi giuristi – che si consideravano “oracoli” della legge e il cui status e sostentamento dipendevano dalla legittimità dell’ordine giuridico – sarebbe stato inconcepibile sospendere quell’ordine per andare incontro a una necessità politica. Non si trattava di uno “stato di eccezione”,[4] ma di un sistema di singole eccezioni che permettevano di conciliare la validità del corpus normativo con le contingenze del quotidiano.
In linea con la prospettiva giuridica medievale, Dante inserisce volutamente alcuni elementi incongrui all’interno del suo sistema di premi e punizioni, proprio per mettere in rilievo quei “sistemi di eccezione”.[5] Secoli di commenti hanno però finito per indebolire la vitalità di simili sfide interpretative. Quando gli studiosi si imbattono in anomalie che cozzano con le leggi dell’opera letteraria dantesca – per esempio l’assoluzione di un pagano suicida come Catone – tendono a cercare giustificazioni dottrinarie che salvaguardino e riconfermino la coerenza del testo. Appellandosi a un documento storico, a un precedente letterario o a un principio teologico, spiegano – o meglio dissolvono – ogni apparente contraddizione. L’anomalia viene così riassorbita all’interno di leggi razionali e onnicomprensive. Questo atteggiamento di chiusura nei confronti delle eccezioni deriva in ultima analisi da una concezione post-illuministica del diritto. Secondo tale prospettiva, il diritto è sinonimo di legislazione, e così è ritenuto illecito qualsiasi fenomeno che contrasti con un determinato codice di leggi. Inconsciamente guidata da un simile approccio legalistico, la moderna critica letteraria si affanna a rintracciare dei precedenti per i casi problematici, cercando di renderli familiari e di addomesticarli.
Di fronte a un nodo interpretativo, i moderni commenti della Commedia offrono così due sole possibilità al lettore: ricondurre l’apparente anomalia alle regole dell’aldilà, oppure chiamare in causa l’onnipotenza divina. Riducendo l’interpretazione a una scelta tra procedura ordinaria o stato di eccezione, questo approccio critico riduce al minimo la libertà di giudizio del lettore. Eppure Dante è un profondo sostenitore dell’importanza del giudizio, sia nella sfera del diritto che in quella dell’arte. Per lui il potere divino non è del tutto svincolato dalle leggi dell’ordine costituito: l’eccezione può essere ancorata a un sistema di regole, e il diritto può tollerare l’eccezione. Confidando nella capacità di valutazione soggettiva, il poema incoraggia i lettori a riflettere su queste singole eccezioni che, anziché essere delegate a un’amorfa decisione sovrana, vengono affidate a un’esplorazione collettiva condivisa.
Prendiamo ad esempio il caso dei diavoli che sbarrano le porte di Dite, impedendo a Dante e Virgilio di accedere alla città infernale. I commenti moderni ci informano che si tratta di un contrattempo momentaneo (utile tra l’altro per mostrare un cedimento della fede nel personaggio di Dante) e ci dicono subito che l’impasse avrà una soluzione – e su quella noi ci concentriamo. Ma se Dante si dilunga per ben due canti (Inf. VIII-IX) sullo sbarramento delle porte di Dite, lo fa per attirare la nostra attenzione sulla serietà del problema. Avvezzi alle ambiguità derivanti da giurisdizioni multiple e in concorrenza tra loro, i lettori medievali avrebbero senz’altro riconosciuto la drammaticità di una scena in cui veniva messa in discussione l’autorità di un salvacondotto per un viaggio extraterritoriale. Tensioni di questo genere, trattate in forma narrativa, possono ancora contribuire alla vitalità estetica dell’opera, ma solo se distogliamo lo sguardo dalle note e rivendichiamo la nostra libertà di giudizio.
Ci sono molti modi di intendere i confini del diritto. Innanzitutto, il diritto impone dei limiti alle azioni umane e punisce chi non li rispetta: così è per il «folle volo» di Ulisse (Inf. XXVI, 108) e per il «trapassar del segno» di Adamo ed Eva (Par. XXVI, 117). Ma cosa accade se a violare i limiti sono proprio quelle autorità pubbliche che dovrebbero farli rispettare? Nel descrivere la mercificazione dei sacramenti da parte di Bonifacio VIII e il mancato rispetto del diritto naturale da parte di Filippo il Bello di Francia, Dante mostra la vulnerabilità che affligge un sistema di vincoli quando le cariche deputate a farli rispettare non vengono più trattate, dai rispettivi detentori, come sacrosante.
Ma anche queste manifestazioni di illegittimità tirannica rappresentavano per Dante più il sintomo di un problema, che la causa. La minaccia principale all’ordine legale veniva da lui collocata altrove: nella disintegrazione del tessuto culturale che aveva a lungo sostenuto il diritto. I conflitti giurisdizionali tra Chiesa e Impero e le guerre che flagellavano la penisola italiana avevano gravemente compromesso la fiducia dei cittadini. L’opinione pubblica era stata contaminata dalla politica di fazione, gli ufficiali corrotti avevano eroso la fiducia collettiva, i privilegi del clero e della nobiltà erano stati mercificati, e tradizionali modelli di comportamento economico avevano smesso di essere rispettati: il corso ordinario del diritto positivo aveva così finito per diventare solo un’altra forma di violenza legittimata.
Separato da un’etica politico-culturale condivisa, il diritto rivelava tutti i suoi limiti. Quando, nel VI canto del Purgatorio, Dante paragona Firenze a una donna malata disposta a cambiare «legge, moneta, officio e costume» (Purg. VI, 146) ogni volta che si rigira nel letto, non punta il dito contro la sospensione arbitraria della legge, ma contro l’arbitrarietà delle leggi stesse.[6]
Con la Commedia Dante cerca di restaurare quei valori comuni, quei racconti esemplari e quei modelli educativi situati ai confini del diritto. Il poema si prefigge di occupare gli interstizi tra diritto e vita, di fornire le precondizioni morali ed estetiche necessarie al diritto per prosperare. Questa «poetica dell’emergenza» costituisce il tessuto culturale dispiegato al di sotto, al di là, al di sopra e a lato del diritto. Vuole incoraggiare un sentimento di attaccamento alla legge, che resiste anche dove la legge non viene concretamente applicata. In un’ottica simile, liquidare – come fanno i critici moderni – la fedeltà di Dante al Sacro Romano Impero come nostalgica e avulsa dalla realtà storica non fa altro che rivelare i nostri limiti. Per Dante, infatti, la conformità al diritto non dipendeva tanto da un’effettiva coercizione, quanto dalla fedeltà verso l’ideale di un imperatore universale che «in tutte parti impera» (Inf. I, 127).
La nostra comprensione dell’intreccio tra finzione letteraria e giuridica deve ancora molto ai brillanti studi di Ernst Kantorowicz su questo tema. In particolare, la ripresa di interesse per la teologia politica ha spinto alcuni studiosi a un fruttuoso riesame del suo fondamentale lavoro I due corpi del Re.[7] I nuovi studi si sono principalmente concentrati sull’analisi condotta da Kantorowicz su Shakespeare,[8] ma era in realtà con un capitolo su Dante che l’autore concludeva la sua dimostrazione dell’importanza delle fonti teologiche e giuridiche medievali per le idee astratte di Stato. Per Kantorowicz, l’importanza di Dante come teorico della teologia politica eguaglia quella di Shakespeare; a suo parere, la concezione dantesca della «regalità antropocentrica» anticipa l’attrazione esercitata dalla «dignità di Uomo» sugli intellettuali del Rinascimento, come si avverte in particolare nel XXVII canto del Purgatorio, quando il poeta è incoronato da Virgilio signore di sé stesso, acquisendo così uno «status sovrano».[9]
È eloquente il fatto che gli studiosi contemporanei si siano concentrati più sulla lettura di Shakespeare da parte di Kantorowicz, che su quella di Dante. Benché Kantorowicz cerchi di trasformare quest’ultimo in un precursore dell’età moderna, sovvertendo la cronologia letteraria, Dante ostinatamente resiste a tale caratterizzazione. Come i medievisti sostengono da tempo,[10] la principale debolezza della tesi di Kantorowicz sulle origini teologiche dello Stato moderno sta nel suo anacronistico concentrarsi sulla sovranità, incluso il ricorso alla modernità shakespeariana per interpretare Dante e il diritto medievale. Che si concentrino sull’opzione assolutista o costituzionalista della teologia politica di Kantorowicz, i letterati tendono a riprodurre questa tendenziosa prospettiva genealogica.[11]
Mettendo da parte la questione delle origini, questo libro esamina le rappresentazioni della giustizia in Dante per cercare di capire il ruolo svolto dalle personificazioni del potere prima della nascita dello Stato moderno. Insistendo sulla validità dello ius commune in assenza di un imperatore o di un sovrano nazionale, Dante e i giuristi crearono finzioni che da molti punti di vista rappresentavano l’unico corpo del re. Mentre Kantorowicz vede in quelle finzioni giuridiche un modo per legittimare la figura regia della prima età moderna, all’epoca di Dante era la finzione del sovrano in quanto lex animata a legittimare la creatività del diritto. Non sorprende, dunque, che Dante immagini il poeta non come un sovrano al di sopra della legge,[12] ma come un giudice militante che ingegnosamente si sforzi di adattare il diritto per mantenerlo in vita.
Come Kantorowicz, anche Carl Schmitt, il maggiore teorico della teologia politica, interpreta l’influenza della teologia sulla politica moderna come un processo di secolarizzazione, in cui sia il pensiero che la pratica religiosi vengono trasformati nel fondamento metafisico del governo. Per esempio, quando Schmitt vede nel miracolo divino un modello per il diritto del sovrano di sospendere la legge, si sposta dalla prima età moderna all’Illuminismo, dal teismo al deismo, dalla monarchia alla democrazia liberale, dal decisionismo al proceduralismo, dalla religione alla politica.[13] Questa prospettiva genealogica presume che le convinzioni teologiche rimangano stabili e lineari tra medioevo e prima età moderna.
In realtà, più che modello della politica, la metafora del miracolo fu in sé sempre politicizzata. Come vedremo meglio nel terzo capitolo, la visione monarchica del miracolo, per cui Dio interviene sulle leggi da lui stesso create, rappresenta uno sviluppo tardo del pensiero medievale. Nata dal volontarismo teologico, la prospettiva “assolutista” del miracolo si scontrava con una più comune interpretazione “costituzionalista”, condivisa da teologi quali Tommaso d’Aquino. Secondo tale visione, benché fosse indubbiamente un evento straordinario, il miracolo restava imbrigliato dai principi di un universo ordinato di natura e di grazia. Le diverse letture dell’intervento divino avevano implicazioni concrete per la legittimazione della plentitudo potestatis pontificia, soprattutto nel caso in cui il papa concedeva “miracolosamente” privilegi contra ius. Assumendo una prospettiva del genere, non basta evocare l’onnipotenza divina per spiegare la miracolosa discesa dell’angelo che viene in aiuto di Dante e Virgilio alle porte della città di Dite. Dobbiamo capire precisamente quale tipo di potere divino si concretizzi nell’intervento angelico; solo così saremo in grado di svelare le implicazioni di ciò che Dante vedeva come il rapporto tra un governante (divino o secolare) e le sue leggi.[14]
Nella Commedia, politica e teologia si trovano così in un rapporto di interdipendenza dinamica. Ma prima di cominciare a esplorare il legame tra Dante e il diritto desidero fare una precisazione: in questo libro non intendo “umanizzare” l’aldilà dantesco, rappresentandolo come fallace o eterodosso. Occorre tenere a mente che esiste sempre una differenza tra la giustizia divina e quella umana. Allo stesso tempo, come spiega Beatrice nel IV canto del Paradiso, le cose divine non possono essere comunicate all’intelletto umano se non per analogia. Dante non può che ispirarsi alla giustizia terrena per modellare il suo aldilà, né può svincolare la sua creazione dalle ambiguità giuridiche presenti nelle strutture che prende a prestito. La natura dialettica del poema e la sua funzione di quaestio letteraria derivano proprio da questa negoziazione tra punti di vista differenti: è naturale, d’altronde, che un viaggio attraverso il territorio giuridico generi una serie di quesiti sui fondamenti del diritto e sull’autorità politica. In altre parole, la suprema ortodossia teologica del poema non esclude la presenza di una serie di ambiguità giuridiche nel testo narrativo. La mia tesi poggia pertanto sulla convinzione che la giustizia riservata alle anime debba essere intesa in senso dialettico, o persino critico, e che comunichi con manifestazioni concrete della giustizia terrena. Vorrei essere chiaro almeno su un punto: non è corretto liquidare semplicemente come spietato l’atteggiamento nei confronti dei dannati, magari ascrivendolo ai caratteri della giustizia medievale o dantesca, come fanno alcuni critici moderni. Una concezione del genere potrebbe essere adeguata per il realismo sardonico dei diavoli, ma non certo per la giustizia tesa e inquisitrice della Commedia nel suo complesso. In fin dei conti è ampiamente condivisa l’idea che la topografia e la struttura amministrativa dell’Inferno restituiscano una visione perversa e surreale di una città italiana corrotta. Perché mai questa città infernale non dovrebbe essere governata da un ordine giuridico altrettanto infernale? È la «rigida giustizia» (Inf. XXX, 70), ovvero l’interpretazione inflessibile della legge e l’incapacità di concepire l’eccezione, che rendono terribile e paurosa la giustizia infernale. Sfidando il lettore a confrontarsi con una serie di casi spinosi, Dante ci invita ad affiancarlo nel ruolo di giudice – e nessuno può sottrarsi alla responsabilità di giudicare.
[1] Per il testo della Divina Commedia: La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Firenze, Le Lettere, 1994. Per le citazioni del Digesto: Digesta Iustiniani Augusti, a cura di Th. Mommsen, rev. di P. Krüger, Berolini, apud Weidmannos, 1870.
[2] Non esiste uno studio complessivo sul rapporto tra Dante e il diritto. Su Dante e la giustizia si vedano tuttavia, tra i contributi di maggiore interesse, A.K. Cassell, Dante’s Fearful Art of Justice, Toronto-Buffalo, University of Toronto Press, 1984; A.H. Gilbert, Dante’s Conception of Justice, Durham (NC), Duke University Press, 1925; G. Mazzotta, Metaphor and Justice, in Dante’s Vision and the Circle of Knowledge, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1993, pp. 75-95. Per gli interventi di Dante nei conflitti giuridici tra Chiesa e Impero, cfr. Ch. Till Davis, Dante and the Idea of Rome, Oxford, Clarendon Press, 1957; M. Maccarrone, Teologia e diritto canonico nella Monarchia III, 3, in «Rivista di storia della Chiesa», 5 (1951), pp. 7-42, e l’introduzione di B. Nardi a Dante Alighieri, Opere minori, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979, vol. 2, pp. 241-269. Sul rapporto tra Dante e il diritto sembra tuttavia registrarsi un’inversione di tendenza; si vedano, per es., i seguenti contributi recenti: C. Di Fonzo, Dante tra diritto, letteratura e politica, in «Forum Italicum», 41, 1 (2007), pp. 5-22; S. Ferrara, Tra pena giuridica e diritto morale: l’esilio di Dante nelle Epistole, in «L’Alighieri», 40 (2012), pp. 45-65; S. Grossvogel, Justinian’s Jus and Justificatio in Paradiso 6.10-27, in «Modern Language Notes», 127 (2012), supplemento, pp. 130-137; L.M. Valterza, Infernal Retainers: Dante and the Juridical Tradition, PhD Dissertation, Rutgers University, 2011.
[3] Sul pluralismo dell’ordine giuridico medievale, cfr. P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, Laterza, 1991.
[4] Sullo stato d’eccezione, cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995; Id., Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id., Le categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, Bologna, il Mulino, 1972.
[5] Per il diritto medievale come sistema di eccezioni, cfr. i saggi raccolti da M. Vallerani, Sistemi di eccezione, in «Quaderni storici», 131 (2009), con particolare riferimento ai saggi di M. Meccarelli, Paradigma dell’eccezione nella parabola della modernità penale: una prospettiva storico-giuridica, pp. 493-521; S. Menzinger, Pareri eccezionali: procedure decisionali ordinarie e straordinarie nella politica comunale del XIII secolo, pp. 399-410; G. Milani, Legge ed eccezione nei comuni di Popolo del XIII secolo (Bologna, Perugia, Pisa), pp. 377-398; M. Vallerani, Premessa, pp. 299-312. Cfr. anche M. Vallerani, Paradigmi dell’eccezione nel tardo medioevo, in «Storia del pensiero politico», 2 (2012), pp. 3-30. Parzialmente in contraddizione con la sua descrizione del bando medievale in Homo sacer, Agamben dichiara, in Stato di eccezione (p. 37), che «l’idea che una sospensione del diritto possa essere necessaria al bene comune è estranea al mondo medievale».
[6] La condanna di Dante si configura, dopo tutto, perfettamente legale da un punto di vista procedurale.
[7] E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino, Einaudi, 1989.
[8] Cfr., recentemente, S. Greenblatt, Shakespeare’s Freedom, Chicago, University of Chicago Press, 2010; L. Hutson, The Invention of Suspicion: Law and Mimesis in Shakespeare and Renaissance Drama, Oxford, Oxford University Press, 2007; Ead., Imagining Justice: Kantorowicz and Shakespeare, in «Representations», 106 (2009), pp. 118-142; V. Kahn, Political Theology and Fiction in The King’s Two Bodies, in «Representations», 106 (2009), pp. 77-101; J.R. Lupton, Citizen-Saints: Shakespeare and Political Theology, Chicago, University of Chicago Press, 2005; E.L. Santner, The Royal Remains: The People’s Two Bodies and the Endgames of Sovereignty, Chicago, University of Chicago Press, 2011.
[9] Cfr., in particolare, Kantorowicz, I due corpi del Re, pp. 423-424.
[10] Cfr. la disamina delle diverse prospettive critiche recensite da B. Jussen, The King’s Two Bodies Today, in «Representations», 106 (2009), pp. 102-117.
[11] Per il secondo orientamento, cfr. in particolare Kahn, Political Theology and Fiction, e J. Rust, Political Theologies of the Corpus Mysticum: Schmitt, Kantorowicz, and de Lubac, in Political Theology and Early Modernity, a cura di G. Hammill e J.R. Lupton, Chicago, University of Chicago Press, 2012, pp. 102-123.
[12] E.H. Kantorowicz, La sovranità dell’artista. Mito e immagine tra Medioevo e Rinascimento, Venezia, Marsilio, 1995, pp. 17-38.
[13] Cfr., in particolare, Schmitt, Le categorie del politico, p. 61: «Infatti l’idea del moderno Stato di diritto si realizza con il deismo, con una teologia e una metafisica che esclude il miracolo dal mondo e che elimina la violazione delle leggi di natura, contenuta nel concetto di miracolo e produttiva, attraverso un intervento diretto, di una eccezione, allo stesso modo in cui esclude l’intervento diretto del sovrano sull’ordinamento giuridico vigente. Il razionalismo dell’illuminismo ripudiò il caso di eccezione in ogni sua forma».
[14] Per un esempio moderno di politicizzazione del miracolo, cfr. B. Honig, Emergency Politics: Paradox, Law, Democracy, Princeton (NJ), Princeton University Press, 2009, pp. 87-111.
[Immagine: La statua di Dante in Piazza Santa Croce a Firenze].
KANTOROWICZ, UN GRANDE (E IGNORATO) LETTORE DI DANTE. Una nota *
[…] Si tenga presente, per capire bene e meglio, che l’ultimo capitolo (l’ottavo) dei “Due corpi del re” è intitolato ” La regalità antropocentrica : Dante ” !!! Nel “Federico II, Imperatore” (un’opera che non solo getta luce sulla filosofia degli anni Venti del XX secolo in Europa, ma illumina meglio e tutto il percorso e l’orizzonte storiografico-filosofico dello stesso Kantorowicz, e sollecita a rileggere il suo lavoro del 1927 e del 1957 in modo unitario !), con grande chiarezza, così scrive :
“(…) Si tenga presente che Federico II visse alla fine del secolo che conosceva la giustizia come unico fine dello stato – fine, del quale, come si sa, gli statisti del rinascimento si occuparono ben poco. Federico era nato nel tempo della massima fioritura del « secolo giuridico », che chiudeva un millennio dedicato alla ricerca della giustizia, e che senza dubbio ebbe tanta influenza su Federico, quanta egli ne ebbe poi sulla giurisprudenza : si pensi soltanto alla visita dello Staufen a Bologna, al giurisperito Roffredo di Benevento, alla fondazíone dell’università di Napoli.
A buona ragione s’è definito « epoca del diritto » quel secolo (1150- 1250) che chiude il medioevo, perché dai giorni di un Graziano e di un Irnerio, da quelli che segnarono una notevole ripresa del diritto romano da parte del Barbarossa (simbolo dello spirito del tempo), a nessun’altra ricerca scientifica il mondo aveva mostrato effettivo interesse come allo studio del diritto – il che certo non impedì che l’interesse si tramutasse in pazzia : come dimostra l’aver cominciato, verso la fine del XIII secolo, a mettere in versi le Institutiones di Giustiniano, allo stesso modo che si è fatto ai giorni nostri con la Critica della ragion pura di Kant.
Tale degenerazione indica che nel campo in oggetto non resta più nulla da fare. Non che la scienza del diritto si esaurisse con quel secolo : solo, la materia era stata dai glossatori assiduamente e sempre più sterilmente perorata, e, d’alÍo canto, si schiudevano al rinascimento nascente tanti e infinitamente più importanti spazi scientifici, che la cultura profana non poté più, come al tempo di Federico II, essere identificata con quella giuridica. La scienza giuridica, però, che consiste nello studio delle leggi, conraddistingue la nascita d’uno spirito non teologico, anzi essenzialmente laico.
D’altra parte, la chiesa stessa aveva mantenuto, nel campo del diritto, una posizione di guida : tutti i papi più importanti di questo secolo – Alessandro III, Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, Innocenzo IV – furono giuristi, anzi la conoscenza del diritto canonico diventò elemento essenziale della teologia, o meglio : teologia e scienza giuridica vennero a pericolosi conflitti nell’ambito della chiesa, e la seconda ne patì gravi danni. Sdegnato di ciò, Dante maledisse i Decretali perché papa e cardinali, a furia di studiatli sino a consumarne i « vivagni », dimenticavano Nazareth” (Ernst H. Kantorowicz, Federico II, Imperatore, [Kaiser Friedrich der Zweite, I-II, Berlin 1927-1931] Garzanti, Milano [1976] 1988, pp. 212-213).
* DANTE : IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5726) — KANTOROWICZ, UN GRANDE LETTORE DI DANTE. Una nota del 2015 ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/forum.php3?id_article=5726&id_forum=2635841).
Federico La Sala