di Claudia CroccoMarzia D’Amico

 

[Non sono mai stata femminista: ho sempre guardato al femminismo come a una ideologia ormai desueta, distante dalla realtà nella quale vivevo. Nell’ultimo anno qualcosa è cambiato: continuo a non ritenermi femminista, ma noto sempre più spesso che la mia vita e quella delle mie coetanee è condizionata dal genere al quale apparteniamo molto più profondamente di quanto credessi. Quasi sempre questo si traduce in uno svantaggio. A partire da esperienze personali e da storie capitate ad amiche o conoscenti, nonché grazie a successive letture, il mio modo di pensare alla femminilità e ai rapporti tra i sessi è iniziato a cambiare.


Il modo migliore per riflettere sulle cose, per quanto mi riguarda, consiste nello scriverne, e nel parlarne con un’altra persona; per questo ho cercato qualcuno disposto a dialogare con me in forma scritta. Ho scelto Marzia D’Amico, perché ha idee radicalmente opposte alle mie su donne, gender e femminismo; ma anche perché le nostre biografie, pur così diverse, in questo momento hanno alcune caratteristiche simili (siamo quasi coetanee; entrambe ragazze bianche, occidentali e con un livello di educazione alto; entrambe verso la fine di un dottorato di ricerca; entrambe in città diverse da quelle in cui abbiamo studiato – Marzia a Oxford, io a Trento): mi è sembrato che questo rendesse più facile parlare di problemi comuni. Infine, ho scelto Marzia perché c’è stima reciproca.


Non so di quante parti si comporrà il nostro dialogo, ma so che non è ancora terminato. La conversazione che pubblico oggi trae spunto da due eventi di cronaca e da una riflessione su come sono stati trattati sui social network e sui giornali online: la dichiarazione di Marina Abramovic riguardo all’aborto, il suicidio di Tiziana Cantone. Queste sono, per noi, occasioni per parlare di temi più generali (cc)].

 

CC: Quando ho letto il tuo articolo, mi sono sentita in disaccordo con ciò che avevi scritto, e mi è venuto in mente che potevi essere la persona adatta per una riflessione in forma di dialogo.
Voglio iniziare con una confessione: penso che il femminismo, come ideologia, oggi sia un fenomeno regressivo. Lo trovo spesso castrante, per motivi che farò emergere in questa conversazione – e che cercherò di mettere di discussione. Partirò da un esempio sul femminismo come prospettiva critica nello studio della letteratura, ma parlerò anche delle conseguenze che ha nella vita privata. Ragionamenti generali, racconto personale e vicende capitate a terze persone si intrecceranno.

 

Una letteratura giusta

 

CC: Non sono femminista, perché penso che il femminismo abbia alimentato una idea di politicamente corretto che ormai invade qualsiasi discorso culturale, rendendo talvolta impossibile esprimere le proprie opinioni in modo libero.
Approfondisco questo punto, facendoti un esempio concreto che riguarda la letteratura e l’università. Più di ogni cosa, il femminismo mi innervosisce quando diventa una lente che serve a filtrare il mondo e una categoria estetica. Per questo ho poca simpatia per i gender studies: capisco i motivi che ne giustificano l’esistenza; tuttavia non riesco a condividere il fatto che, negli studi che assumono queste prospettive critiche, il testo o l’oggetto artistico diventi importante soltanto per il significato politico che assume. Mi sembra, in altre parole, che il femminismo applicato alla letteratura determini un filtro sia sulla realtà sia sulle opere d’arte, e che questo filtro indebolisca la conoscenza.
So benissimo che qualsiasi prospettiva critica – e qualsiasi formazione intellettuale – determina una parzialità della visione. Eppure, leggendo articoli che analizzano opere letterarie da una prospettiva “di gender”, l’impressione che quelle interpretazioni comportino una perdita estetica e conoscitiva è più forte di quella che ho leggendo testi critici di altro tipo.

 

MD: Quando sento dire a qualcuno “Non sono femminista” mi spavento sempre un pochino, perché se quella persona non ha avuto desiderio abbastanza forte di scoprire di più e rendersi conto di quanto bella e importante sia la parola femminismo, altresì il femminismo non ha saputo raggiungere queste persone. Il femminismo però non è un’entità metafisica, non è un dio, non è monolitico soprattutto: il femminismo retrogrado e castrante che mi racconti non è certo il mio. Un femminismo inclusivo, intersezionale, aperto è quello che mi rappresenta davvero; quello al quale mi affilio e per il quale combatto ogni giorno. Ogni giorno questo femminismo mi richiede uno sforzo maggiore, e ogni giorno io scelgo di farlo, per una società che rinneghi il fascismo, il sessismo, l’omofobia, il razzismo, il classismo, e l’abilisimo in ogni sua forma strutturale (e oramai tristemente strutturata).
Gli studi che derivano da questa pratica costante sono anch’essi volti all’inclusività.

Tu citi il ‘femminismo applicato alla letteratura’ come sinonimo dei gender studies e questo già crea confusione, cosa nel particolare ti pare obsoleto? e quale critica letteraria non ti confa? in che maniera questa la percepisci legata agli studi di genere?

 

CC: Faccio un altro esempio, altrimenti il discorso rimane troppo astratto. Fino a oggi, io ho studiato soprattutto poesia contemporanea. Ora, la poesia italiana del Ventesimo secolo è stata scritta in prevalenza da uomini; alcuni di loro avevano un’idea delle donne che oggi considereremmo maschilista e retrograda, perché il femminismo ha cambiato il nostro senso comune di “politicamente corretto”. Fino a che punto, mi chiedo, il cambiamento della morale può condizionare la storia della letteratura? Nella poesia di inizio Novecento le donne sono quasi sempre prostitute o chimere: dovremmo considerare le opere di Sbarbaro e Campana (per citare i primi due che mi vengono in mente) meno interessanti per questo motivo?

Guardo con preoccupazione, inoltre, alla prospettiva di dedicare la mia ricerca alla poesia scritta da donne, soltanto perché ciò contribuirebbe a rimediare alla quasi totale assenza di voci femminili nelle storie letterarie. So che la mancanza di accesso all’istruzione e la segregazione in ruoli casalinghi e in lavori subalterni ha penalizzato le donne; ciò spiega il numero più basso di scrittrici rispetto a quello degli scrittori che riempiono saggi e manuali di letteratura (e di storia dell’arte). Siamo tutti d’accordo su questo. Alcune artiste, inoltre, sono state sottovalutate per pregiudizi, espliciti o inconfessati. Per questi motivi è necessario riscattarne il lavoro sommerso, farlo entrare nel dibattito, render loro giustizia. Ben venga. Non credo sia intelligente, però, riscrivere completamente la storia della letteratura (o della musica, dell’arte figurativa ecc.) gonfiando lo spessore intellettuale e i risultati artistici delle figure femminili, e ridimensionando quelli maschili, solo per raggiungere questo scopo.

Rileggendo quello che ho scritto, mi rendo conto di una possibile obiezione: questa ultima fase potrebbe essere vista come preparatoria e necessaria, in modo temporaneo, per arrivare alla prima. Non sono convinta sia davvero utile, ma riesco a capirlo. Se è così, forse è già andata avanti troppo a lungo, e il risultato (più che una rilettura intelligente del passato) è una pericolosa lettura pregiudiziale del presente. Ho visto (ovvero letto) e sentito sminuire romanzi bellissimi, in quanto accusati di nascondere una prospettiva maschilista: ecco, interpretazioni di questo tipo per me rappresentano una perdita e una sconfitta intellettuale.

 

MD: Chi ha problemi con il politicamente corretto è chi non è svantaggiato dal politicamente scorretto (o comunque non percepisce tale cosa). La libertà d’opinione entro il rispetto di ogni elemento della società è l’unica libertà che mi interessa difendere. Ritenere che un dibattito intellettuale si affievolisca per la presa in considerazione di elementi intersezionali (ovvero attraverso la messa in relazione di tutti quegli elementi costituenti un’identità, personale o comunitaria, nel rispetto della stessa) per me equivale a non voler minare la voce grossa di chi ha sempre dettato legge, e non per merito. A me pare che il politicamente corretto abbia doverosamente ridimensionato (e anzi, magari fossimo già a quel punto) il peso delle voci dei ‘vincitori’. Con vincitori intendo che la storia la scrive non chi ha ragione ma il più forte. Come può un dibattito intellettuale indebolirsi se finalmente diventa invece più omnicomprensivo?

Ritengo importante quindi praticare forme di posizionamento nello studio della letteratura: gender studies, women studies, queer studies, post-colonial studies…, e certamente sto lasciando fuori alcune voci e posizioni altrettanto rilevanti che assieme mettono in luce un’opera nella sua vera interezza.

Quanto dici sul senso comune odierno e il “politicamente corretto” però rischia di diventare pericoloso: quei testi possedevano già un atteggiamento maschilista, e il femminismo ha il solo merito di averne problematizzato gli aspetti rivelandone la nocività. Non mancano storicamente ribellioni letterarie a queste imposizioni (penso anche solo ai diari delle Sante!) che ci indicano che la rappresentazione del femminile e la condizione del femminile stesso (qui nella sua accezione più biologica e non inclusiva) creavano insofferenza nelle donne. Come risaputo, però, lungamente autori, lettori, editori e “Maestri” del canone occidentale sono stati uomini. Il mondo è fatto da loro e per loro. Io penso che una letteratura bella sia una letteratura giusta, e che questa si ottenga rendendo giustizia alle voci marginalizzate. Se Sbarbaro e Campana oggi vengono ridimensionati sulla base delle possibilità di lettura di testi fino ad oggi non antologizzati per motivi prettamente legati alla struttura patriarcale e non squisitamente letterari, ben venga. D’altro canto, se gli odierni Sbarbaro e Campana temono l’incombenza delle voci femminili finalmente (almeno in parte) rappresentate è perché riconoscono che il loro successo è una combinazione di talento, magari, ma anche tanto privilegio.

Ha riletto il pensiero di Adriana Cavarero e l’ha applicato giudiziosamente alla condizione della letteratura (italiana) oggi la mia amica e collega Alberica Bazzoni:

 

Eppure, gli scrittori continuano ad essere sproporzionatamente rappresentati, mentre le scrittrici faticano ad entrare, e ancor più a rimanere, nel canone della letteratura italiana. E questo è il primo fatto che occorre stabilire, che a dispetto degli ottimismi di fine Novecento, le scrittrici rimangono ancora ai margini del canone letterario. Le ragioni sono molteplici. In larga parte gli uomini non leggono le scrittrici, e quindi non le recensiscono, antologizzano, inseriscono nei corsi universitari e nei manuali delle superiori. Anche quando vi si accostano, spesso lo fanno con un pregiudizio. Mentre la letteratura maschile è percepita come universale, quella femminile continua a venire rappresentata e sentita come, appunto, femminile, cioè rivolta alle donne, cioè parziale. E – il punto è fondamentale – la presunta parzialità femminile è considerata assiologicamente inferiore rispetto a quella che si crede l’universalità maschile. A ciò si aggiunge il credito con cui partono gli scrittori, i quali sono percepiti come appartenenti di diritto all’arena letteraria, mentre le scrittrici si trovano ancora a dimostrare, quasi vincendo un’aspettativa contraria, di meritarsi il diritto di parola.

 

Questo passaggio di un articolo-indagine che Alberica sta portando avanti e pubblicando online è il ponte perfetto per risponderti sulla necessità di concentrarsi sulla scrittura di donne, e non per “gonfiarne lo spessore”: non ce n’è alcun bisogno, tanti sono i nomi di grandi letterate, artiste in generale, che avrebbero meritato di restare nella storia in maniera determinante e come modello per le successive generazioni.

Io ho scelto di occuparmi di poesia scritta da donne (e non femminile, come felicemente ci ha insegnato in poesia, saggistica e militanza Biancamaria Frabotta) per curiosità: avevo domande nei confronti del canone, e l’Accademia non mi offriva risposte. Mi sarei accontentata anche solo di ulteriori interrogativi, sono mancati anche quelli. Concentrare i propri studi sulle scritture di donne, o dedicare a queste scritture parte dei propri studi, non è una maniera di allontanarsi dal mondo reale ma di mettere in discussione il sistema. Solo affrontandolo di petto, e attraverso la riscoperta delle scritture di donne (in diverse forme, grazie anche agli stimoli offerti da Marina Caffiero durante i miei anni di studi Magistrale a La Sapienza), ho davvero affinato lo sguardo al contesto entro il quale l’arte viene prodotta, e per chi. È un’esperienza di svelamento continua che raccomanderei a chiunque.

 

CC: Su questo abbiamo opinioni diverse.
Penso che la prospettiva critica che ho descritto colpisca con più facilità un genere letterario che ha sempre meno rilevanza ed è sempre più autoreferenziale. La poesia ha bisogno di una giustificazione. Il tuo studio ha una motivazione interna di tipo politico. Ammettiamo per un attimo che ciò lo renda moralmente più accettabile del mio. Una prospettiva critica femminista ci costringerebbe a rinunciare ai Canti Orfici, magari a vantaggio delle opere di Sibilla Aleramo. Aleramo è una facile icona, dal punto di vista che hai descritto. Bene, io le sue opere le ho lette, così come ho letto quelle di Campana. Sono convinta che, se ancora oggi si studiano e si leggono le seconde, più che le prime, non accade perché viviamo in una società letteraria maschilista, ma perché i Canti Orfici sono più belli e più importanti di Una donna. Più importanti per chi? Per la tradizione letteraria italiana successiva, per l’idea di poesia che vogliamo – che io vorrei – ancora trasmettere. Vorrei poter sviluppare le mie ricerche nel modo che credo opportuno, dopo anni di studi, e che in parte deriva da questa considerazione, senza il timore di vederle svantaggiate, in quanto non aderenti a una vulgata critica che ritiene più innovativo uno studio in cui si parla di emancipazione femminile rispetto a un altro nel quale il tema è assente.

 

MD: Non lascerei mai indietro i Canti Orfici per me stessa e per quello che studio (Amelia Rosselli si infurierebbe!), però ritengo che i testi canonizzati prodotti da autori maschili debbano essere valutati secondo anche quelle specifiche possibilità di produzione che hanno aiutato a renderli immortali. La tradizione italiana successiva, per tirare di nuovo in mezzo Rosselli, guarda inevitabilmente a “santi padri”: non sta certo nell’eliminazione dei padri dalla storia la risposta, bensì nella ricerca e riscoperta delle madri, piuttosto; altresì, la problematizzazione di una tradizione letteraria e culturale dominata da (soli) padri mi pare doverosa. Non credo che questa ricerca attraverso una lente gender oriented svantaggi in alcun modo chi non la adotti, o limiti in alcun modo la tua scelta di non perseguirla. La produzione femminile e lo studio della stessa però hanno subito nel contesto accademico una forte marginalizzazione, e non posso che felicitarmi del fatto che – almeno in parte – queste trovino finalmente un ricco spazio di dibattito.

Si è sempre praticata una scelta critica nell’approccio al testo letterario, cosa rende meno valide queste indagini? Provo a fare un esempio molto pop di vita vissuta. Lo chiamavano Jeeg Robot, uscito nel 2016, ha tanti pregi e tanti difetti. Una mia conoscenza si è risentita di un certo classismo non problematizzato nel film, elemento che io non avevo notato con abbastanza accortezza. Dal canto mio però avevo certo notato una violenza sessuale maschio/donna che si risolve senza spessore o discussione. Non l’ho fatto per mia innata sensibilità ma perché ho allenato l’occhio a rifiutare di lasciar passare messaggi simili: una produzione del 2016 non può permettersi di non problematizzare un evento simile, e solo lasciarlo accadere.
Posso adottare quella stessa lente per leggere Montale? Sì. Questo toglie bellezza alla sua poesia, toglie alla stessa l’importanza che gli è stata riconosciuta dalla critica e dalle antologie? No. Ma riposiziona entro una dimensione di definita connotazione degli aspetti della sua poesia che, prima, erano rimasti taciuti. Non voglio sostenere qui che una “un sistema culturale che produce ingiustizia non è incapace di produrre bellezza” (semicito ancora Alberica Bazzoni) o il suo contrario, ma porre attenzione all’elemento (o gli elementi) di privilegio che l’opera rappresenta, e non perpetuarne i tratti entro un nuovo (migliore) sistema di pensiero, di cultura. Perché dovremmo consegnare alle future generazioni opere da esperirsi a-criticamente secondo prospettive di genere, razziali, di classe, e via così? O più precisamente, chi e/o cosa ti fa credere che riconoscere questi elementi di privilegio ne annulli interamente il valore?

 

CC: Ne annulla il valore se lo si presenta come qualcosa di moralmente sbagliato. Hai ragione quando dici che è necessario collocare gli autori nel loro contesto storico, per comprendere anche il contenuto “sessista” delle loro opere. Però, appunto, tu applichi a quei testi un giudizio morale e categorie contemporanee: «quei testi possedevano già un atteggiamento maschilista, e il femminismo ha il solo merito di averne problematizzato gli aspetti rivelandone la nocività». Ora, faccio un altro esempio, ancora tratto dalla poesia del primo Novecento, per comodità (è quello che sto studiando in questo periodo), e cerco di spiegare meglio le mie due obiezioni al riguardo.

 

[…] tutte le donne di Leonardo hanno quell’espressione ineffabile. È un sorriso, e buono, ma fine; così fine che a volte rasenta la malizia, ma contemporaneamente la divinità. Sono donne beate e beatificanti, timide e vergini: madonne, pregano, sono estatiche verso l’interno; ma sono anche capaci di condurti all’inferno. Non ho mai visto rappresentare così stupendamente la doppia verità femminile. Guarda questa com’è spirituale in quel raccoglimento semichiuso d’occhi, e pure quelle palpebre hanno una sensualità da baciare. E la Gioconda, è evidente che non può esser altro che la beatitudine di una donna che sente battere in grembo la vita del figliolo: ma in quell’attimo essa è tutta la scala da Dio alla terra.

 

Questo appunto è tratto dall’epistolario di Scipio Slataper: è una lettera che invia a Elody Oblath, una delle destinatarie e coprotagoniste di quella sorta di romanzo incompiuto che è Alle tre amiche. Mi ha colpita, quando lo ho letto, perché immagini simili si trovano anche negli appunti di Campana. Non solo: le figure femminili di Leonardo vengono richiamate all’interno di La notte, una delle poesie in prosa campaniane più famose e più difficili da interpretare. Non entrerò nell’esegesi del testo, ma la figura femminile ispirata da Leonardo, nei Canti Orfici, si interseca con altre immagini di violenza sulle donne. L’idolo femminile deturpato dal protagonista maschile (in una forma di femminicidio, se vuoi) ha anche almeno un’altra fonte in comune con la cultura di riferimento di Slataper: il Faust di Goethe, dal quale Campana estrapola un’immagine (quella di Gretchen-Margherita con una striscia rossa sul collo) che assume un significato diverso, e più violento, nella Notte.

Ora, la mia domanda è questa: tutto ciò rende i Canti Orfici un’opera nociva? Come comportarsi, davanti a un contenuto che oggi considereremmo, in base a categorie morali, ingiusto? Secondo me qui entrano in gioco due problemi distinti (e qui si innestano, appunto, le mie due obiezioni).
Il primo è come giudicare le opere del passato, e quanto permettere che le categorie contemporanee facciano da filtro al giudizio critico. Certo, possiamo ricostruire il contesto storico e culturale che ha determinato la visione del mondo di un autore. In questo caso, sappiamo che Campana legge gli scritti di Freud sulla sessualità in Leonardo, ma in realtà li legge intorno al 1915, stando al suo epistolario, dunque in un momento successivo ai Canti Orfici; sappiamo, comunque, che prima aveva letto (come anche Slataper) Sesso e carattere di Otto Weininger e vari frammenti di Nietzsche, fra i quali quelli riguardanti le donne. Il dibattito critico dei primi anni Dieci ruota intorno a queste coordinate, come ci rivela lo studio delle riviste dell’epoca: è alimentato da una diffusione di Nietzsche ancora sommaria e superficiale (non a caso quella di Slataper è più approfondita, giacché, essendo triestino, era più addentro alla cultura letteraria e filosofica tedesca), nonché dai primi studi sulla questione sessuale; queste prime ricerche, avventate e imprecise agli occhi di un contemporaneo, erano soprattutto tedesche, giungevano in Italia in ritardo e con traduzioni a volte discutibili. Tutto ciò ci permette di ricostruire le fonti delle idee sulle donne di Campana, di spiegarle meglio; in questo senso è utile che il riferimento all’immaginario femminile di Leonardo sia presente anche nelle lettere di Slataper (e in termini simili a quelli di Campana), perché conferma un clima culturale, nel quale alcune idee (che oggi considereremmo inesatte) erano comuni. Non solo: la critica psicoanalitica ha interpretato la misoginia campaniana, riconducendola a questioni psicologiche irrisolte dell’autore.

Entrambe le prospettive, insomma (critica delle fonti e critica psicanalitica), ci permettono di spiegare meglio i Canti Orfici: ma non, a mio parere, di capirlo del tutto. L’idea di poesia di Campana è legata a queste immagini di chimere e prostitute, e va accettata in quanto tale: decostruirla può essere utile, ma non permette di coglierne del tutto il contenuto di verità.
Infine, veniamo alla seconda obiezione. Sarò molto breve: non credo che categorie morali possano far parte del giudizio letterario. Se così fosse, dovremmo eliminare dalla storia non solo Lo chiamavano Jeeg Robot e i Canti Orfici, ma anche, per dire, Viaggio al termine della notte; per altre ragioni dovremmo eliminare la Commedia, per il modo in cui Dante tratta Maometto. Ma su questo il dibattito sarebbe lungo, da affrontare, e senz’altro esulerebbe dalla questione del femminismo. Concludo dicendo che il moralismo non ha mai fatto bene alla letteratura e alla cultura in generale.

 

«I bravi artisti che hanno figli ci sono e si chiamano uomini». Su Marina Abramovic.

 

CC: Venendo a Marina Abramovic, ho soprattutto una obiezione da fare. «Ho avuto tre aborti. Un figlio sarebbe stato un disastro per la mia carriera»: attraverso questa dichiarazione, Abramovic ha caricato una scelta personale di senso politico, come in parte è inevitabile quando si tratta della vita privata di icone artistiche o intellettuali, che rilasciano dichiarazioni sui motivi politici delle proprie azioni; a quel punto è stata ridotta ai soliti slogan femministi riguardanti maternità, femminilità, emancipazione e corpo della donna (che tu stessa citi e, in parte, critichi).

Nel tuo articolo difendi il diritto della donna a gestire il proprio corpo come meglio crede. Da un lato, si tratta di un diritto sacrosanto e da difendere sempre, ci mancherebbe. Tuttavia è anche uno slogan potenzialmente pericoloso. E qui veniamo a un altro punto per me importante: non sono femminista, perché penso che il femminismo abbia talvolta colpevolizzato oltremisura alcune forme della sessualità maschile. Le conseguenze di quella che è stata una forma di inibizione ricadono sulle donne stesse, o almeno su alcune di loro. Inoltre, una declinazione del femminismo (e del discorso su Abramovic) di questo tipo produce una bipartizione tra donne madri e donne in carriera. Trovo questa separazione fallace, in quanto i due gruppi, in realtà, sono più fluidi (e dovrebbero essere presentati come tali). Il sottotesto implicito mi pare addirittura inquietante: se una donna ha ambizioni artistiche o intellettuali deve per forza rinunciare ad avere una famiglia? L’irregolarità amorosa e la mancanza di vincoli accompagnano necessariamente la vita intellettuale? Sembra una domanda retorica, ma non lo è: penso che una possibile risposta sia “sì, e vale anche per gli uomini”. Con una differenza importante: nel mondo maschile è più frequente riuscire a conciliare autonomia e riconoscimento di sé in una relazione sentimentale[1]. Da questo punto di vista, nella società della quale sia tu sia io facciamo parte rimane un problema irrisolto, una contraddizione nel mercato matrimoniale e in quello sessuale. Penso che sia inutile negarlo.

 

MD: Abbiamo cominciato a parlare di questioni di genere a partire dall’uso improprio della lingua che è stato adoperato per giudicare la scelta di non avere figli di Marina Abramovic: come vedi, la questione di genere e la lotta politica non sono mai disgiunte dalla lingua adottata per contrastare questa emancipazione. Personalmente, ritengo sia ancora una volta la cecità del contesto e il bigottismo dei benpensanti (“sindrome di Erode”? Inconcepibile e intollerabile definizione.) ad avere la meglio sulle necessarie coordinate storico-culturali a sostegno della tesi di Abramovic. Quella di Abramovic è una scelta personale ma anche fortemente politica, penso alla poesia di Angélica Liddell (Lesiones incompatibles con la vida) che ho volutamente citato sui social in quei giorni quasi come un manifesto. L’arte di Abramovic è sempre stata fortemente politica e politicizzata, e la decisione di non avere figli in favore di dedicarsi completamente all’arte non può che essere letta similmente. Non credo che sia stata caricata oltre la misura stessa entro la quale la stessa Abramovic ha sempre agito la propria arte.

Non so se Abramovic abbia ragione nel dire che l’energia del corpo si disperda quando si hanno figli, ho molte amiche artiste, attiviste, che producono arte col il proprio corpo e fanno del proprio corpo arte\mezzo artistico, e figli ne hanno avuti: ciò detto, è innegabile che una donna più difficilmente raggiunge le vette di notorietà degli uomini, e che la battaglia per essere riconosciute si fa più difficile in una società che vuole le madri come genitore di riferimento educativo e sociale a costo della propria realizzazione. Avere figli è evidentemente una posizione scomoda nel mondo del lavoro, e l’arte è lavoro anch’essa: basti pensare agli innumerevoli esempi di sessismo perpetuati ai danni delle donne nei colloqui di lavoro che pregiudicano l’assunzione sulla base di eventuali possibili gravidanze. Purtroppo però è questa la società entro la quale viviamo. Per questo abbiamo ancora e sempre bisogno della parola femminismo, della rivolta consapevole. Dobbiamo affrancarci dal binomio madre\donna in carriera come da quello angelo del focolare\puttana di stampo fascista. D’altro canto, parliamo di un’artista di provenienza e generazione diversa dalla mia e da quelle delle amiche alle quali facevo prima riferimento. Non posso quindi offrirti io una risposta, però l’ha fatto Tracey Emin (come ho citato nel mio commento alla vicenda che hai letto) dichiarando che «i bravi artisti che hanno figli ci sono e si chiamano uomini». Ascoltare Emin e/o Abramovic non vuole dire trovarsi d’accordo con la loro scelta, bensì accorgersi che è entro una struttura che vuole preservare questo sistema che tristemente viviamo. Dobbiamo dunque semplicemente rimetterci a questa? No, a mio avviso dobbiamo armarci di consapevolezza e cambiare le cose alla base. E poi tenere conto che i casi di felice bilanciamento di famiglia e carriera per le donne sono sostenuti, di solito, anche da altri tipi di privilegi e intaccare anche quelli.

 

Relazioni interpersonali

 

 CC: Su questo ritorneremo: vorrei spiegare meglio ciò che penso riguardo all’influenza del femminismo sui rapporti sentimentali ed erotici. Lascio queste considerazioni frammentarie come appunti per il nostro dialogo. E ora voglio raccontarti una vicenda personale.
Qualche tempo fa mi è capitato di confrontarmi con un coetaneo, anche lui alla fine del dottorato (che ha scelto di fare fuori dall’Italia). Mi ha parlato di una vita sentimentale e sessuale caotica, ma tutto sommato per lui soddisfacente, fino a quel momento. Mi ha detto di iniziare ad avvertire il bisogno di una maggiore stabilità, almeno sentimentale (perché quella lavorativa non lo è, ovviamente, per nessuno di noi). Solo che poi – mi dice – vedo che le mie colleghe a trent’anni o poco più impazziscono perché vogliono fare un figlio. E quando lo fanno si fermano lì, la loro carriera si interrompe quasi sempre, e allora penso che io ho ancora dieci o vent’anni per farmela, una famiglia. Dunque aspetto, e sfrutto questo vantaggio.

Dopo che mi ha parlato così schiettamente, sono rimasta in silenzio per una manciata di secondi. Ammetto di aver provato rabbia nei suoi confronti. Poi ci ho pensato, e gli ho detto solo che capivo, aveva ragione. Penso che questa sia un’altra contraddizione irrisolta e forse irrisolvibile. (La stessa persona mi ha detto, poco dopo, di avere difficoltà a mantenere viva l’attrazione per donne che gli sembrano più intelligenti di lui).

 

MD: L’esperienza di dialogo che hai riportato mi addolora profondamente, perché è particolarmente diffusa e dannosa a tanti livelli. La scelta di trovare stabilità amorosa nell’assenza della stessa sul piano lavorativo, lo dice bene il tuo stesso amico, può avvenire per lui solo a discapito della partner donna. Intanto, dire che una donna ‘impazzisce’ perché vuole un figlio è orribile a mio avviso (intendo proprio linguisticamente): chiudiamola nell’attico? Se le donne intorno ai trent’anni sentono questa forte pressione sociale è a causa di campagne come quella recente del Fertility Day (non so neanche da dove cominciare per dirmi disgustata da quella campagna così offensiva, che è però semplicemente l’espressione evidente e la dimostrazione a spese statali di un sentimento diffuso). Bravo, il tuo amico, a riconoscere questo vantaggio. Meno ad approfittarne. Lo capisco ma non lo accetto; anzi lo capisco e non lo accetto. Sceglie di stare dalla parte di chi vuole un mondo iniquo, sceglie di sentirsi qualcuno non per merito ma a discapito di altri. Non mi sorprende che questa stessa persona abbia “difficoltà a mantenere viva l’attrazione per donne che gli sembrano più intelligenti di lui”. Probabilmente non gli sembrano più intelligenti ma lo sono, spero che quelle stesse donne se ne accorgano per tempo e si allontanino da lui in fretta.

 

Lavoro

 

CC: Torniamo a parlare di lavoro. Parliamone, anzi.
Recentemente mi sono resa conto di aver sottovalutato il problema. Lo ammetto, mi sbagliavo. Per lungo tempo ho sostenuto che in un paese occidentale non avesse senso parlare di questione femminile, perché in realtà le discriminazioni di genere esistono ormai solo in paesi non democratici (in Africa, in alcune parti dell’Asia, ecc.). Bene, mi sbagliavo. Per una donna italiana non c’è il rischio di essere sottoposta all’infibulazione (né esiste seriamente il femminicidio); ma le cose che ho visto o sentito, ciò che è capitato a me e ciò che ho visto accadere ad amiche e conoscenti nell’ultimo anno, mi rende impossibile negare che anche in Europa, e soprattutto in Italia, non esiste una parità fra i sessi nell’ambito più importante, dopo quello dei diritti umani, ossia quello lavorativo.

In questo momento, dunque, il mio giudizio su femminismo e disuguaglianze di genere è più sfaccettato rispetto al passato, dubbioso, non pacifico. E come negare l’esistenza delle seconde, quando entri in contatto diretto con richieste di dimissioni in bianco (per evitare di assumere lavoratrici in gravidanza), giovani studiose trattate automaticamente come segretarie (anche, e soprattutto, dai propri coetanei), donne accusate di essere andate a letto con qualcuno perché hanno avuto uno scatto di carriera (non importa che abbiano anche un curriculum impeccabile), ecc.?

Se esiste una forma di femminismo che riguarda tutti, è questa. Sarei d’accordo con riforme lavorative radicali, tali da assicurare che più nessuna donna debba incontrare discriminazioni come quelle che ho descritto. Lascerei il resto, le scelte morali e quelle di costume sessuale, e metterei da parte anche la critica letteraria femminista.

 

MD: Tornando a parlare di lavoro, mi dispiace che tu ti sia resa conto di questa disparità di genere a tue spese. Purtroppo spesso solo quando ci tocca sul personale apriamo gli occhi. Una volta fatto però, che restino ben aperti. Non volendo entrare nel merito della divisione in paesi democratici e non, sento di doverti smentire quando dici che il femminicidio, in Italia, non esiste; anzi, lo faccio con vigore. Negare oggi il femminicidio in Italia alimenta un disinteresse generale per il cambiamento, e nasconde sotto il tappeto problemi che dovremmo fronteggiare alla radice. Sono felice di saperti pronta a combattere per una parità di diritti entro il campo lavorativo, però è crudele ridurre la battaglia al proprio diretto interesse e utilità: quella è una presa di coscienza e una spinta a combattere per esigere di più sicuramente giusta, però molto limitata. Le scelte che definisci “morali e di costume sessuale” non mi sono chiare, se però provo a immaginare, credo che la radice delle stesse si trovi in quella stessa body policing. E anche io il moralismo lo lascio ad altre istituzioni, che tendenzialmente sono le stesse che limitano e confinano la produzione femminile, la sottovalutano, la marginalizzano: come ti dicevo, il femminismo che mi preoccupo di praticare è inclusivo, e non moralista. Problematizza sempre e non avanza per ideologie antiche.

Dici “non sono femminista, perché penso che il femminismo abbia prodotto forme di disorientamento e inibizione sessuale maschile, che sono anche il risultato del discorso al quale ti rifai.” A mio avviso il problema che discutiamo è a monte, nell’educazione all’eguaglianza nel privato e nel pubblico, e non nella risultante. Mi spiego meglio: la legittima affermazione dell’autocoscienza femminile ha prodotto inibizione sessuale nel soggetto maschile? Il problema non risiede nella liberazione della donna ma nell’ineducazione del soggetto maschile alla messa in discussione.

È sano educare il maschio a vivere nell’aspettativa di asservimento della partner? È sano educarlo a compiacersi del finire online con un video sessuale per la quale circolazione non aveva dato consenso? No, ed è evidentemente dannoso per ognuno di noi. Mi riferisco qui alla medaglia rovesciata degli eventi che hanno colpito T. C. in particolare negli ultimi mesi (*quando abbiamo cominciato a parlare, purtroppo, la notizia del suicidio di T.C. era in prima pagina). La liberazione femminile è liberazione umana, del genere umano nella sua interezza: non è uno slogan “il sessismo fa male a tutti”, è una verità. E il femminismo è la cura. Non immediata, non magica come un bacio sul ginocchio sbucciato: è una costante lotta di miglioramento del proprio e del sociale. Perché il sessismo viene praticato, tristemente, da tutti noi (a diversi livelli, certamente; e altrettanto vale per il razzismo, l’omofobia, il classismo, l’abilismo e altre derive di dislivello sociale che vengono perpetuate ogni giorno). Ne siamo sistematicamente tutti vittime in maniera così costante che sfuggirne è difficilissimo, se non impossibile. La decostruzione di questo sistema mentale è un processo (difficile, lungo) da compiersi insieme.

 

«People love humiliation». Su Tiziana Cantone.

 

CC: Passiamo alla vicenda di Cantone. Anche qui, diciamo che sono d’accordo con alcuni presupposti del tuo articolo: non è colpa del web, è colpa di persone con nomi e cognomi. D’accordo. Però mi sembra poco lungirmirante non tenere conto di dinamiche di massa, di meccanismi umani e non virtuali, certo, che però si sviluppano e si esasperano in modo particolare online, per i motivi che secondo me sono spiegati qui. Non tenerne conto è miope. Non tener conto di quello che i social network possono innescare vuol dire non prenderli sul serio, in fondo. E dico questo senza alcuna intenzione di demonizzarli né di attribuire a Facebook e Whatsapp la colpa di questo suicidio.

Andiamo avanti. Io sono sempre stata piuttosto scettica davanti al monito femminista di usare la lingua in modo politicamente corretto. Non sopporto i “car* tutt*”; mi fanno rabbrividire i discorsi che iniziano ricordando la differenza di significato fra “governante” in senso maschile e la stessa parola in senso femminile. Ultimamente ci ho riflettuto, e anche su questo ho un po’ cambiato opinione: riesco a vedere i motivi di queste polemiche e di queste lotte, per quanto non riesca a sentirli miei. E mi sta bene che tu parli di una questione “linguistica e strutturale” decisiva, lo capisco. Ma partiamo dalle basi, allora: in virtù di quella stessa questione linguistica e strutturale, in nome della parità fra i sessi, è sbagliato anche chiamare questa persona solo con il nome, e non con nome e cognome (o solo con il cognome) come si farebbe per un uomo. È una abitudine giornalistica che non mi piace, e che si trova più spesso per parlare delle donne (sono tutte “Tiziana”, “Valentina” ecc. per Repubblica, mentre i maschi vengono identificati con il cognome, che rende il discorso più serio). Talvolta, nei siti più militanti, questa abitudine è motivata con il principio (per me incomprensibile) della “sorellanza”.

Infine, quanto c’entra che si tratta di una donna e non di un uomo? Molto, certo. La parte dell’articolo che mi trova più d’accordo con te è quella in cui parli del tabù che ancora esiste riguardo alle donne e il sesso (una brava ragazza non solo non avrebbe fatto quel video, ma non avrebbe fatto neanche un pompino, ecc), e del revenge porn a danno delle donne. In parte, credo che la scissione fra femminilità e sesso sia una conseguenza del femminismo stesso, come accennavo; ma ne riparleremo.

Condivido anche il tuo giudizio sull’assurdità della reazione collettiva, che si divide tra indignazione per buoncostume e #Prayfor. Credo, però, che ci sia anche una terza modalità, la più politicamente corretta: mi riferisco alla difesa del web (“non è colpa del web”, ecc) unita alle considerazioni sul sessismo e sul patriarcato.

 

MD: Tornando alla dimensione più linguistica del nostro discorso: dici bene, nel chiamare le vittime di sesso femminile per solo nome sui giornali c’è del paternalismo che mi fa rabbrividire. Personalmente, è una pratica che raramente adotto anche nel privato se non nel trasparente tentativo di sottolineare sorellanza. La scelta di umanizzare infinitamente queste vittime attraverso l’uso del solo nome di battesimo si fa anche spia di un altro problema della società attuale: “mi dispiace perché la conoscevo”. C’è bisogno di relazionare a noi per comprendere la tragedia di certi eventi, come se non lo fossero oggettivamente. Penso a quell’immagine che è girata recentemente sui social, in lingua inglese: “She is someone(’s): sister \ daughter \ mother”. Le tre classificazioni relazionali venivano poi barrate in rosso per indicare che la violenza contro le donne è un problema oggettivo, e le donne vanno rispettate in quanto soggetti indipendenti (e indipendentemente dalle relazioni parentali).
E sì, è miope non considerare il livello di voyeurismo amplificato dai social media; altrettanto miope è però ignorare che statisticamente parlando le donne sono vittime costanti di revenge porn.

 

CC: Su questo hai ragione. Però proviamo a chiederci una cosa: la penseremmo allo stesso modo, se al centro di quel video ci fosse stato un uomo? Non intendo un omosessuale (il politicamente corretto popolo del web di cui fanno parte sia i miei sia, immagino, molti dei tuoi contatti si sarebbe indignato esattamente allo stesso modo): intendo un uomo etero, magari sposato, insegnante a scuola, insomma un individuo dal quale ci si aspetta una vita da “bravo padre di famiglia”, rispettabile. Immaginiamo che improvvisamente particolari privati della sua vita sessuale extraconiugale (con altre donne) vengano diffusi online e che lui si uccida, perché la moglie era consenziente ma adesso non regge più il colpo, le cose sono cambiate e la situazione gli è sfuggita di mano, dovunque si vedono magliette con il suo volto e i bambini non possono più andare a scuola senza essere insultati, lui non riesce più a lavorare e anzi viene licenziato. Non è un esempio del tutto inventato: se digiti su google “suicide” e “social network”, ad esempio, vengono fuori notizie come questa.

Mi viene in mente una puntata di Black Mirror, The National Anthem (la conosci?): nella finzione dell’episodio una componente della famiglia reale inglese viene rapita, e la richiesta di riscatto prevede che il primo ministro faccia sesso con una scrofa in diretta TV (che diventa diretta online). All’inizio si cercano strade alternative, alla fine la pressione politica e mediatica vince e Michael, cioè il primo ministro inglese, viene ripreso mentre si accoppia con un maiale leggermente sedato. Intanto ci vengono mostrati i volti di chi lo guarda in TV, e soprattutto ci vengono mostrate le reazioni della moglie, che controlla ossessivamente twitter. Lei non riuscirà a superare l’impatto emotivo causato dalla vicenda. Non sappiamo cosa farà, è improbabile che finisca per suicidarsi; però qualcosa si è rotto per sempre, le conseguenze sulla sua vita saranno definitive. C’è questo bellissimo dialogo tra i due coniugi:

 

Michael: I won’t have to do anything.
Jane: Everyone’s laughing at us.
Michael: You don’t know that.
Jane: I know people. We love humiliation. We can’t not love.
Michael: Nothing is going to happen.
Jane: It’s already happening in their heads. In their heads, that’s what you’re doing. What my husband is doing.

 

People love humiliation. Già. Aggiungerò una ultima osservazione, forse un po’ provocatoria. Buona parte del tuo articolo ruota intorno a una idea di base, che è quasi un appello: è un errore guardare quel video, non guardatelo. Mi chiedo e ti chiedo, seriamente: perché? È più sbagliato, più immorale rispetto a postare su facebook l’immagine del cadavere di un bambino morto in mare? Eppure, c’è qualcosa di ineliminabile per cui i nostri meccanismi morali si accorciano o si dilatano in modo apparentemente arbitrario: in alcuni casi la morte e la perversione ci sembrano meno pericolose, meno sottoposte a un filtro morale, tranquillamente riprendibili e osservabili (in televisione, su Facebook, su Snapchat, su Twitter). Non dico che sia giusto, anzi vi percepisco una componente disturbante (è qualcosa di simile a quello che provo quando vedo persone che scrivono post sulle bacheche di gente morta, creando una conversazione irreale e straniante); dico solo che forse il “Non guardate” non è la risposta giusta. Inoltre, e soprattutto, credo che la questione di gender non sia il nodo cruciale della morte di Cantone, e che assumerla come tale faccia perdere di vista ciò che davvero meriterebbe attenzione.

Rileggendo il tuo commento, mi è venuto in mente un articolo recente (scritto dopo la sconfitta di Clinton); si intitola The End of Identity Liberalism. Concludo citandone un paragrafo:

 

But how should this diversity shape our politics? The standard liberal answer for nearly a generation now has been that we should become aware of and “celebrate” our differences. Which is a splendid principle of moral pedagogy — but disastrous as a foundation for democratic politics in our ideological age. In recent years American liberalism has slipped into a kind of moral panic about racial, gender and sexual identity that has distorted liberalism’s message and prevented it from becoming a unifying force capable of governing.
[…] the fixation on diversity in our schools and in the press has produced a generation of liberals and progressives narcissistically unaware of conditions outside their self-defined groups, and indifferent to the task of reaching out to Americans in every walk of life. At a very young age our children are being encouraged to talk about their individual identities, even before they have them. By the time they reach college many assume that diversity discourse exhausts political discourse, and have shockingly little to say about such perennial questions as class, war, the economy and the common good.

 

PS: Quando ho iniziato a scriverti – e qui chiudo davvero – la terza stagione di Black Mirror non era ancora uscita. L’ho vista mentre riscrivevo questo pezzo per la terza volta. Non potevo sapere che avrebbe ampliato in modo ancora più distopico proprio il tema centrale di The National Anthem.

 

MD: Quanto dici della puntata di Black Mirror è mio avviso assimilabile alla questione Cantone solo parzialmente, lì infatti si sceglie di umiliare il singolo come rappresentante dello Stato a fini artistici e per risvegliare la coscienza collettiva. T. C. non rappresentava invece altro che se stessa, e il fine con il quale quel video era stato condiviso era specificamente di umiliare lei. Le vicende che ne sono seguite e addirittura la sua morte, invece, la pongono all’interno di un sistema di doloroso sessismo. Non so se T. C. volesse farsi paladina, essere considerata una martire o altro ma so per certo che non possiamo ignorare alcuno dei casi simili perché sono la tristissima riprova che c’è un sistema da minare alle fondamenta. Se la pressione mediatica avesse spinto T. C. a filmarsi e diffondere quei video, come per il PM inglese di Black Mirror, avrei probabilmente fatto comunque un simile discorso. D’altro canto, quando dico che il sessismo è una minaccia all’intero gender spectrum intendo proprio che sebbene sarebbe miope ignorare che la casistica vede le donne più facilmente vittime di simili eventi, è questo stessa dimensione che spinge incoscientemente a pensare che un uomo potrebbe (se non, addirittura, dovrebbe!) felicitarsi di un video simile. L’aspettativa che il “maschio forte” debba tollerare tutto questo e anzi abbracciarlo felicemente fa parte della costruzione di una mascolinità che mi interessa distruggere per il bene collettivo.

Però di nuovo, People love humiliation: vero, e dovremmo combattere questo principio. In nessuna maniera questa battaglia dovrebbe togliere forza e spazio a quella più miratamente antisessista. Anzi, mi sembrano andare a braccetto molto bene. Smettiamola di fotografare le persone obese al McDonald’s per farne meme, o ragazze che indossano i leggings come pantaloni, e via così. Personalmente, ne ho abbastanza. E quindi cerco di non guardare queste cose e anzi segnalarle come posso, e discutendone la profonda indecenza come posso. Insomma, ha senso offendere un avversario politico per quello che in termini di standardizzazione della bellezza nel 2016 è considerato un difetto?
Però tornando al nucleo della nostra discussione sul revenge porn, una distinzione c’è da farsi con il caso che vede persone «postare su facebook l’immagine del cadavere di un bambino morto in mare».

La fotografia del bambino, strumentalizzazione o meno, è pensata come narrazione forte di eventi odierni. La malattia sta nell’uso che se ne fa. La linea che divide la crudeltà dell’orrore oggettivo e il click-bait purtroppo è labile. Ma nel revenge porn un video privato, pensato per non essere diffuso o comunque per non essere reso pubblico, non ha alcun messaggio da veicolare. La scelta di non guardare i video illecitamente condivisi online al solo fine di ferire e umiliare i soggetti degli stessi è rifiutarsi di partecipare al massacro.
Quando ognuno di noi si rifiuterà di guardare questi video, la stampa non potrà che rinunciare a strumentalizzarne la diffusione; è la maniera migliore che abbiamo per denunciare il nostro volerci sottrarre a meccanismi di vendita a discapito di vite umane.
La questione gender non esclude altre analisi, solo ne mostra aggravanti che sedimentano nei principi di base che muovono questi meccanismi. Nessuno ha voluto ridurre a zero gli altri elementi che hanno composto quest’orribile vicenda, però – e scusa se mi ripeto – ignorare il fattore di genere vuole cadere nello stesso errore di sempre.
Riguardo all’articolo del NYT che mi segnali, tieni a mente che il paragrafo da te segnalato segue questo: “America has become a more diverse country […] Not perfectly, of course, but certainly better than any European or Asian nation today”. Non ritengo il parallelo immediato o immediatamente utile. E mi è difficile parlarne oltre perché trovo l’articolo nella sua interezza assolutamente riduttivo dell’argomento.

 


 

[1] Cfr. Eva Illouz, Perché l’amore fa soffrire, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 205: «È evidente che sono gli uomini a gestire le regole del riconoscimento e dell’impegno. Il dominio maschile assume la forma di un ideale di autonomia che le donne hanno sottoscritto attraverso la lotta per l’uguaglianza nella sfera pubblica. Tuttavia, quando ci si sposta nella sfera privata, l’autonomia soffoca il bisogno femminile di riconoscimento. Infatti, una caratteristica della violenza simbolica è che impedisce ai soggetti di contrastare una definizione della realtà che va a loro discapito. Con ciò non intendo dire che le donne non desiderino l’autonomia, ma piuttosto che sono in una posizione carica di tensione, perché esse perseguono nel contempo l’ideale della dedizione e dell’autonomia e, più significativamente, perché spesso ritengono di doversi preoccupare della propria autonomia e di quella del partner».

[Immagine: Vanessa Beecroft, Colour Guard (gm)]

61 thoughts on “Perché (non) sono femminista

  1. Sono quasi interamente d’accordo con Marza fino a questo passaggio:
    “Lo chiamavano Jeeg Robot, uscito nel 2016, ha tanti pregi e tanti difetti. Una mia conoscenza si è risentita di un certo classismo non problematizzato nel film, elemento che io non avevo notato con abbastanza accortezza. Dal canto mio però avevo certo notato una violenza sessuale maschio/donna che si risolve senza spessore o discussione. Non l’ho fatto per mia innata sensibilità ma perché ho allenato l’occhio a rifiutare di lasciar passare messaggi simili: una produzione del 2016 non può permettersi di non problematizzare un evento simile, e solo lasciarlo accadere.”

    Qui credo ci sia un errore di lettura: rappresentare una scena di stupro verosimile secondo le regole di quel mondo finzionale (un uomo che non ha mai avuto una idea delle donne se non attraverso il porno, una ragazzina con problemi psicologici che subisce abusi sessuali da quando è piccola, ha una evidente sindrome di Stoccolma per il padre, e non ha strumenti appropriati per opporsi se non infuriarsi infantilmente dopo) non è “mostrare in modo a-problematico”. E’ mostare, tout court: prendere l’eccesso pop fumettoso e inserirvi un accenno di realismo psicologico inquietante; quelle scene non sono aproblematiche per lo spettatore, sono profondamente sgradevoli, in un modo che un film Marvel non si è mai sognato di mettere in scena.

    Da qui a leggerlo come rappresentazione classista (come se tutti i ceti “popolari” fossero fatti di padri stupratori, in sostanza) confesso che per me ce ne passa…
    La morale – la condanna di quel gesto – non deve essere esplicitamente messa in scena dal film, dichiarata didascalicamente; ma certo non si può dire che il modo in cui il regista mette in mostra quei caratteri risolva tutto in un “volemose bene, che sarà mai”.
    E lo stesso vale per scene di stupro come quella, tremenda, di “C’era una volta in America”; scena che anzi, da questo punto di vista, si risolve in modo molto peggiore, perché anni dopo Deborah accoglie Noodles senza nessun vero rancore, mentre dal modo in cui il suo personaggio è stato caratterizzato prima – una donna forte e molto cosciente di sé – ci avrebbe permesso di aspettarci come plausibile una reazione meno malinconica e colpevole).

    Questo per dire in termini davvero banalissimi (la questione è molto più complessa di così): c’è il cosa si mette in scena, e c’è il come lo si mette in scena, rispettando delle regole di verosimiglianza interne alla costruzione di un mondo finzionale scelto (che è, si spera, ideologicamente ricco e complesso in modo tale da rispettare la varietà del mondo e del suo autore e non solo un pugno di teorie preconcette sul mondo). Pretendere una rappresentazione adeguata della realtà e rifiutare un messaggio maschilista non deve far perdere di vista quelle che sono le regole interne del gioco artistico: altrimenti si fa arte sovietica e pace, o si esaltano opere solo perché mettono in scena personaggi femminili forti e volutamente inverosimili per l’epoca descritta (ad. es. L’arte della gioia di G. Sapienza).

  2. Noioso articolo, anche quando offre degli spunti interessanti, deborda ideologia.
    Più vicina certo a C. C. al suo linguaggio e al suo pensiero.
    ” se devo dire la verità, il mio tempo non mi ispira che odio e noia. Se è perché sono diventata vecchia e retrograda, annoiata e ipocondriaca, o se invece quello che provo è un giusto odio non lo so. Penso che altri della mia generazione si pongano la mia stessa domanda.” Faccio mie le parole di Natalia Ginzburg . Una donna che ebbe rapporti conflittuali con il femminismo dei suoi anni.
    L’ articolo più completo e perfetto nel suo intento su Tiziana Cantone fu scritto da Antonio Scurati sulla stampa.

  3. “Noioso articolo, anche quando offre degli spunti interessanti, deborda ideologia”.

    E l’ideologia, ricordiamo, è sempre una malattia degli Altri, mai nostra.

  4. Di questo articolo è bello, in primo luogo, registrare la pubblicazione (quindi evviva il femminismo); tuttavia mi sembra sia stata messa un po’ troppa carne al fuoco. Non essendo molto amante di film e serie televisive, a me – per passione e non per professione – interessa assai più la questione-letteratura. A questo riguardo, sarebbe forse stato il caso di guardare le cose “alla base”: per esempio, concentrandosi sulla annosa questione di quel che finisce nei manuali – ovvero dei nomi che si fanno (che si elencano, che si insegnano). Crocco sembra temere che spostare l’attenzione critica ed estetica su autrici o artiste possa in qualche modo compromettere, e nuocere a, una comprensione storicamente “autentica” della storia della letteratura, nella fattispecie italiana. Ovvero, sembra intendere che si tratti di una operazione per sottrazione, sostituzione impropria o rovesciamento indebito di canoni riconosciuti. Partendo dal presupposto che per qualsiasi storia di qualsiasi letteratura (antica e moderna) si possono sempre svolgere ricerche di storia della storiografia ad hoc che ne mettano in luce i presupposti estetici, politici e ideologici alla base dei suoi meccanismi d’elezione, sarebbe stato il caso di chiarire che molto del lavoro che si sta portando avanti, specie in ambito anglosassone, intorno al recupero dei lavori di scrittrici, artiste o studiose consiste spesso in operazioni assai prosaiche – e in questo, a mio avviso, ancora più importanti – di recupero di nomi e di identità, di ricerche d’archivio al fine sia di ricostruire, laddove possibile, le biografie pubbliche sia di rendere in qualche modo fruibili le opere o scovare tracce di esse. Si tratta quindi di un’opera di aggiunta, un tentativo di ampliare gli orizzonti, di fornire una immagine più articolata e sfaccettata della produzione culturale e della società di determinati periodi e contesti, sui cui risultati sarebbe auspicabile informare il maggior numero di potenziali fruitori. Potrebbe un tale ampliamento di orizzonti, se prendiamo il caso della nostra storia letteraria nazionale, scalfire la riconosciuta qualità di un’opera come i “Canti orfici” di Campana? Non penso proprio. Se qualcuno però si interessa a problematiche diverse da quelle concernenti la creazione del canone letterario novecentesco, e vuole indagare la storia della letteratura italiana oltre i confini nazionali, allora sarà necessario studiare la veloce fortuna di “Una donna” all’estero, la tempistica delle traduzioni dell’opera e i possibili legami con i coevi movimenti del suffragismo, la sua fortuna di oggetto critico (in lingua inglese) fin dalla fine degli anni Settanta del Novecento, e magari riflettere sulle ragioni per cui tutto questo non è avvenuto in Italia. Non penso che sul piano accademico il primo percorso di ricerca potrebbe in alcun modo vantare una superiorità intrinseca sul secondo. Il problema, semmai, sarebbe capire le possibilità di successo nei termini di carriera (in Italia) di chi imbocca il primo rispetto a chi imbocca il secondo, e quanto quest’ultimo sarebbe percepito come una ricerca “da donna” e quindi, implicitamente, di serie B. Ma vorrei tornare alla “base”, poiché, se nelle aule universitarie si plasmano le idee (anche) dei futuri studiosi intorno al canone letterario, nelle aule scolastiche si prende coscienza di sé e degli altri, dello spazio proprio e di quello altrui. Ed è davvero stancante continuare a non vedere quei benedetti *nomi* nei manuali di letteratura italiana: perché non trovo ancora almeno tre righe dedicate a Giovanna Sicari, Fleur Jaggy, Nadia Campana, Maria Pia Quintavalla o Serena Vitale ma spazio per un paragrafo per gli “scrittori cannibali” (assai stupida etichetta) lo si trova sempre? A me sinceramente interessa poco valutare il peso di queste autrici, che amo molto e mi affascinano, sulle future sorti del canone italiano, e ancora meno il loro successo editoriale. Mi interessa molto di più che tutti – dai docenti agli allievi di qualsiasi ordine, grado ed estrazione sociale – diano finalmente per scontato e ovvio che la cultura in Italia è anche frutto della produzione di autrici, artiste e intellettuali di valore (sottolineando che è proprio questo ciò che si fatica a riconoscere). Ovvero, che alla società in cui vivono contribuiscono anche le donne, e che l’autorevolezza e il prestigio non sono, e non devono rimanere, prerogative maschili. Che questo lo si possa apprendere anche dalla storia della propria letteratura nazionale non sarebbe un male. A me sembra però che in Italia questo importi a pochi. Alcuni mesi fa fu pubblicato sul sito di Internazionale.it un interessante articolo di Claudio Giunta sulla propria recente esperienza di curatore di un manuale di letteratura italiana. Non figurano affrontate né sfiorate questioni di genere. Emerge invece il problema della sostanziale rigidità dei programmi scolastici e del tempo limitato a disposizione dei docenti, che impone ai curatori scelte editoriali oculatissime: tempo e posto per aggiunte al momento non ve ne sono, mentre indebite scorribande fuori dal seminato decreterebbero semplicemente l’invendibilità del prodotto editoriale. Quote rosa nei manuali di letteratura? Vista la catena di fallimenti lunga quasi settant’anni che lega l’art. 37 della Costituzione, la legge del dicembre 1977, il decreto legge dell’aprile 2006 (poi, mi sembra, abrogato dal Governo Berlusconi nel 2008) e la coriacea persistenza della pratica delle “dimissioni in bianco”, forse per qualche cambiamento sostanziale nell’insegnamento che muova da un rinnovamento dei programmi si dovrà aspettare il post-Antropocene.

    PS. Per quanto autorevole sia Eva Illouz, è davvero necessario pensare a una donna sempre e soltanto in coppia (con un uomo)?

  5. Se “un sistema culturale che produce ingiustizia … *fosse* incapace di produrre bellezza” di bellezza ne sarebbe stata prodotta zero, dagli esseri umani.

    Noto invece di passaggio che *questo* sistema culturale, che di ingiustizia ne produce eccome, sa produrre il politically correct, del quale tutto si potrà dire tranne che è bello; ma di bellezza in generale ne produce poca o punta. Un caso?

  6. Quanto a Campana e Sbarbaro: ma esiste un desiderio erotico che sia femminista ? Che venga da uomini, donne, che sia omo, etero, come fa un desiderio, un’immagine erotica a rassomigliare a un diritto civile ? Lo sguardo, il desiderio, anche quello delle donne, hanno sempre una forma di violenza o quanto meno d’invadenza.
    La colpa del maschio(o del bianco, o del ricco, del vilain del momento) per altro, a cercarla, la si può trovare anche in fasi neutre, e le analisi testuali sono sempre più abili nel riportare una diversità di sintomi alla stessa biasimevole matrice. Così le frasi: “ora ti scopo fino a farti piangere” e “scusa, amore, ti dispiacerebbe se stasera avessimo un rapporto sessuale” possono essere entrambe lette come frutto di una cultura maschilista; la prima per la sua violenza, la seconda perché mostrerebbe i complessi del maschio inetto di fronte al sesso femminile. Ergo il problema metodologico di molto femminismo nella sua analisi dei testi, o della vita quotidiana, è di avere sempre ragione, a priori, perché il livello di attenzione alla sintomatologia maschilista è talmente atto, la rete di fotocellule sistemate per denunciarlo talmente densa, che qualche peccato lo si trova sempre. Tale ossessione per il particolare sfocia spesso in un rifiuto a calare il fenomeno considerato maschilista in un contesto più ampio, come se maschilismo e femminismo fossero categorie storiche immutabili da snidare dietro la nebbia del contesto socio-storico-ambientale -e non il contrario.
    Acer in fundo, la pretesa alleanza del femminismo coi poveri della terra, il progressismo e la globalità del genere femminile, è una teoria quotidianamente e dolorosamente smentita. Pensiamo a Marine Le Pen, alla Meloni, a Sarah Pallin; pensiamo soprattutto a come il femminismo stia fallendo nell’influenzare le donne cresciute nella cultura non europea (per non parlare delle europee convertite a religioni “maschiliste” in modo affatto consenziente), mentre il suo successo in una classe media progressista suona piuttosto ambiguo, giacché, anche per l’evoluzione socio-economica in cui il femminismo nasce(e non viceversa), tale classe fa sempre meno figli e conterà quindi sempre di meno nel mondo di domani.
    p.s. Le donne a trent’anni non “impazziscono” per la pressione sociale ad avere un figlio, anche perché la pressione sociale semmai le spinge nella direzione opposta(vedi M. Abrahamovic); semplicemente sentono un forte desiderio di avere un figlio. Non tutte ma molte. Come per altro moltissimi uomini.

  7. Poco tempo fa L’ONU, attraverso il Working Group of Experts on People of African Descent ha emanato un documento in cui, a fronte dei crimini perpetrati negli USA contro i popoli afro-americani, si avanzava la richiesta di una forma di giustizia riparatoria nei confronti dell’attuale popolazione afro-americana.
    D’altronde un uomo o una donna afro-americana negli Stati Uniti del 2016 potrebbe tranquillamente affermare che egli non si senta né vittima né oppresso, anzi, caso mai l’esatto contrario.

    Il fuoco del problema allora qual è?

    Si possono davvero calibrare le proprie coordinate morali (o politiche o estetiche) ignorando non solo la storia, ma persino l’attualità dei fatti? Nella nostra epoca, all’interno del milieu borghese entro cui si inscrive larga parte del codice di pensiero contemporaneo questo è possibile, dal momento che la soggettività individualizzante è sia la fonte primaria che il paradigma totalizzante di ogni valore morale, economico e sociale. Esistono solo diritti individuali i quali hanno il loro corrispettivo in quei desideri di merce che il mercato accudisce. Entro questo quadro teorico, secondo me, si sviluppa e si avviluppa il discorso di Claudia Crocco.

    Il dominio maschile sulla donna e la sua conseguente oppressione sono fatti innegabili, storicamente e socialmente, così come lo sono lo schiavismo o il colonialismo. Presi come singoli individui possiamo essere socialmente situati in una posizione in cui tale oppressione ci tocca meno o possiamo scegliere di ignorare tale oppressione. Ma nonostante tutto ciò l’esistenza di tale dominio non è un fattore soggettivo, una questione percettiva o una categoria estetica. Il passo seguente è scegliere da che parte stare, cioè fare una scelta politica. Si può anche scegliere il disgusto e l’odio, perché la realtà sociale fa sempre e da sempre un po’ schifo e in fondo è più comodo turarsi il naso e guardare da un’altra parte. Elias Canetti, in Autodafè, offre un’immagine esemplare di questo tipo di intellettuale, una “testa senza mondo”.

    Il femminismo è nient’altro che il tentativo di scardinare questa millenaria oppressione, una chiamata alle coscienze di tutti, donne e uomini, un pensiero e un movimento che cerca di modellare una società in cui uomini e donne, nelle loro differenze, possono realizzare la propria felicità integralmente.

    La diffusa deferenza verso il femminismo è il sintomo di una più generale incapacità di pensare la realtà come fatto socialmente e storicamente determinato. Tale incapacità è il nome di quel lungo e ossequioso lavoro di de-politicizzazione della società che è stato programmaticamente portato avanti in Occidente negli ultimi trent’anni dalle istituzioni, dai mass-media, e non ultimo dall’università. Siamo ormai incapaci non solo di ingaggiare o mobilitarci nei temi dello spazio pubblico della comunità in cui viviamo, ma ci mancano persino le griglie cognitive per leggere la realtà e finanche la nostra soggettività come insieme di processi ontologicamente sociali nel loro divenire.

    L’università contribuisce in modo diligente a questo modellamento della forza lavoro giovanile sfornando pseudo-esperti educati al gregarismo e all’afasia politica.

    Fare politica significa vivere o conoscere l’oppressione, che nella nostra società assume tante forme: di classe, di genere, di razza etc. Questo “divenire oppressi” fa parte di ogni processo di politicizzazione. L’oppresso si distingue dalla vittima, giacché il primo riconosce l’oppressione e la sfida, muovendo il primo passo per superarla.
    L’immagine ideale di donna e di uomo che viene invece comunicata e rinforzata dalla nostra società è quella di un individuo totipotente, che consapevolmente e liberamente compie le sue scelte nel territorio del godimento e allo stesso modo opera i suoi scambi nel mercato della felicità. E molti di noi hanno creduto che il sapere universitario fosse la strada per trovare un posto nel mondo in cui poter liberamente esprimere i nostri talenti intellettuali e vivere sereni, lontani dallo abominevoli convulsioni di cui sono preda le masse. Invece abbiamo scoperto che titoli dottorali con cui ci fregiamo sono tutto ciò che ci rimane per proteggerci dalla sofferenza che affligge la società in cui viviamo, sono piccole banche del tempo che procrastinano l’incontro verso l’ineluttabile e doloroso attrito con la realtà sociale.
    E’ senso comune dire che la nostra generazione sia la più formata (ma di certo non la più colta, agigungo) della storia italiana. Ma credo che verremo invece ricordati soprattutto come la generazione più pusillanime e miserabile, ché da questa immane accumulazione di sapere ha cavato solo la formula della propria impotenza politica ed esistenziale.

  8. Notare come, la MD eviti accuratamente di trattare il caso dell’uomo suicida perché falsamente accusato di pedofilia.. Laddove la vittima è palesemente il maschio, la femminista ignora il caso automaticamente.

  9. E ci mancava giusto il povero maschio perseguitato…
    Occupano tutti i posti, guadagnano di più, gli si perdona tutto, non vengono stuprati (quasi mai, e comunque da altri maschi) e niente, si sentono lo stesso oppressi e misconosciuti…
    Come dicono i napoletani ‘chiagni e fotti’…

  10. Sottoscrivo l’intervento di Carlo Antonicelli. Aggiungendo però che, dopo aver assunto questa lucida coscienza, possiamo e dobbiamo essere in grado di cambiare direzione (almeno) alla nostra esistenza

  11. @ F. Cagnolati

    “Che venga da uomini, donne, che sia omo, etero, come fa un desiderio, un’immagine erotica a rassomigliare a un diritto civile ? Lo sguardo, il desiderio, anche quello delle donne, hanno sempre una forma di violenza o quanto meno d’invadenza.”

    Diceva Oscar Wilde che “Everything in the world is about sex except sex. Sex is about power.”

  12. “Infine, veniamo alla seconda obiezione. Sarò molto breve: non credo che categorie morali possano far parte del giudizio letterario. Se così fosse, dovremmo eliminare dalla storia non solo Lo chiamavano Jeeg Robot e i Canti Orfici, ma anche, per dire, Viaggio al termine della notte; per altre ragioni dovremmo eliminare la Commedia, per il modo in cui Dante tratta Maometto. Ma su questo il dibattito sarebbe lungo, da affrontare, e senz’altro esulerebbe dalla questione del femminismo. Concludo dicendo che il moralismo non ha mai fatto bene alla letteratura e alla cultura in generale”.
    Perfetto, e finalmente.
    Non si legge Pound perché fascista, non si legge Majakovskij perché comunista, non si legge Heidegger perché moralmente abietto, non si legge Celine perché maschilista. Direi che così si perdono un sacco di bei libri, no?

  13. Il lavoro intellettuale e’ neoliberisticamente una commodity e tanta brava gente arriva oggi a titoli di studio molto alti senza capire come ne’ perche’, per poi svegliarsi brutalmente (e nascere al mondo… un augurio natalizio e di buone festivita’ a tutt*).

  14. Giudicare ‘moralisticamente’ le opere d’arte significa prenderle sul serio. Nessuno legge per puri motivi estetici e di forma. Si può fare, ma se l’autore voleva comunicare uno specifico messaggio politico decidere che non conta è un modo di insultare l’autore (che magari lo merita ampiamente ma non è questo il punto).
    Si può, al massimo, stabilire che il messaggio non è l’unica cosa che conta, che anche la forma è importante. Dite a Celine ‘sei un grande scrittore ma tutta quella roba sugli ebrei usurai succhiasangue non mi interessa’; probabilmente non avrebbe apprezzato per niente e risposto male.
    Il discorso può anche essere diverso parlando di autori ormai fuori dal cono d’ombra delle nostre contrapposizioni: è difficile, per esempio con Dante, immedesimarsi come faceva lui con ghibellini, guelfi, Bianchi e Neri. Ma conta sapere che per lui erano cose importantissime, autentiche ragioni di vita e che scriveva ANCHE dal punto di vista di militante di partito, nemmeno troppo importante.

  15. L’aspetto politico e sociale FA PARTE dell’opera d’arte, non ne è la totalità. Giudicare un’opera d’arte come se fosse un’opera di propaganda è solo un atto di ignoranza.

    Quanto al commento dell’omuncolo che si lagna di quanto il suo stesso genere sia brutto e cattivo, parli per se, gli uomini violenti sono una minuscola percentuale, e le donne violente sono una minuscola percentuale appena un poco più piccola di quella degli uomini.

    Invece continua questa narrazione falsa che vuole le donne povere vittime indifese nelle mani del maschio cattivo……assolutamente al di fuori della realtà.

  16. Insultato da un ‘vero uomo’ di passaggio. Che modo di cominciare la giornata. Mi chiedo se sua moglie sappia della parte che recita online.
    Bah, niente paura, ora Donald Trump e la Rivoluzione Sovranista rimetteranno le donne al loro posto e Luca potrà troneggiare indisturbato.
    Che branco di Don Ciccilli.

  17. Che risposta ridicola.
    Lei si sta semplicemente facendo prendere in giro dalla narrativa mediatica dominante, gli studi scientifici in materia di violenza mostrano tutta un’altra realtà (ma dimostrata empiricamente, sa’ piccola differenza…).

    Tornando all’arte, ridurre capolavori come quelli citati, solo perché le “femministe” di oggi non approvano “la figura della donna che vi viene narrata” è un atto di pura ignoranza, su cosi tanti livelli che non saprei nemmeno da dove iniziare a spiegarli.

  18. Il Lebowski..che film fantastico…

    ..ora immaginiamoci che qualche femminista si svegli con la convinzione che “la figura della donna” de “Il grande Lebowski”, non sia in linea con la loro ideologia e che quindi vada messo all’indice.
    A qualcuno sembra una possibilità poco credibile? Già ci stanno provando con mille altre opere…

    E a qualcuno sembra accettabile? Io non credo.

  19. Grazie a tutti quelli che sono intervenuti; grazie mille anche a chi mi ha risposto in privato.
    Infine grazie a Carola Borys, Maddalena Graziano, Gianna D’Agostino, Lucia Gambuzzi ed Erica Ciccarella per le riflessioni e discussioni private, e perché mi hanno aiutata e incoraggiata a scrivere questo dialogo.

    @Chiara Impellizzeri.

    Da quello che scrivi si potrebbe dedurre che il cinema e il romanzo possano prendersi certe libertà perché la struttura del genere letterario (artistico) lo permette, la poesia no. Il che, in effetti, rivela la verità su ciò che l’80 % delle persone pensa della poesia (anche se non osa dirlo). Dunque grazie: hai aggiunto un elemento off topic rispetto all’articolo, ma interessante per me.

    @Filippo Cagnolati

    Grazie, ci rifletterò.

    @Giulia Zulian

    No, non mi preoccupa quello che dice lei. Mi preoccupa il fatto che alcune ricerche (quelle che assumono la prospettiva dei gender studies) siano considerate migliori o più legittime e all’altezza dei tempi, rispetto a quelle che, da quel punto di vista, sono politicamente scorrette. E le posso assicurare che sì, accade.

    “Mi interessa molto di più che tutti – dai docenti agli allievi di qualsiasi ordine, grado ed estrazione sociale – diano finalmente per scontato e ovvio che la cultura in Italia è anche frutto della produzione di autrici, artiste e intellettuali di valore (sottolineando che è proprio questo ciò che si fatica a riconoscere). Ovvero, che alla società in cui vivono contribuiscono anche le donne, e che l’autorevolezza e il prestigio non sono, e non devono rimanere, prerogative maschili”.
    Su questo, invece, sono molto d’accordo.

    Infine, non penso proprio che la Illouz concepisca solo le donne in coppia. Ho inserito quella citazione, perché il libro in questione è l’unico testo femminista che mi sia piaciuto, fino a ora, e perché quel paragrafo (la trappola del riconoscimento) era pertinente rispetto all’episodio che avevo appena raccontato. E forse anche perché è uno dei problemi sui quali sto riflettendo di più adesso. D’altronde, la premessa all’articolo spiega chiaramente che il dialogo nasce da una riflessione personale.

  20. Povero Napoletano (nomen omen?). Che vita dura, lui solo a tenere alta la fiaccola della ragione e della verità giorno dopo giorno…
    Buona rivoluzione, e buona fortuna.

  21. @ CC

    Ho notato a volte lo stesso tuo atteggiamento nei confronti del femminismo da parte di donne, ed è un punto che ho visto discutere da femministe più vecchie, quello del mancato passaggio di testimone. La cosa curiosa è che donne giovani come te, sono spontaneamente femministe, ma non apprezzano la parola, l’idea, l’immaginario. Penso che dipenda dal fatto che una volta cambiate le cose, per donne come te sia fastidioso porsi in una posizione minoritaria, rivendicativa, quando si è nel pieno delle proprie facoltà. Penso anche che dipenda da alcune posizioni effettivamente desuete. Oltre al fatto che oggi si discute di cazzate come la toponomastica e di come chiamare le ministre, o della pubblicità sessista (o anche contestare un articolo di cronaca perché si pone l’accento sul fatto che la vittima fosse una madre, per partire con il pippone che la vita di una donna vale a prescindere: sono questi atteggiamenti che fanno passare le femministe per fanatiche rompicoglioni). E però anche da tante parole dette sul femminismo che poi arrivano confuse a persone che se ne fanno un’idea sbagliata. Io ogni tanto provo a parlarne con dei miei amici, più che altro per ridere (parliamo di porno femminismo), perché il femminismo ha un alone attorno che lo rende un oggetto polveroso e comico. Ma c’è anche da considerare che oggi lo stesso femminismo vive spaccature al suo interno. Però come tu stessa dici, quando poi certe cose si cominciano a vivere sulla propria pelle, ci si riflette di più.

    Sulla parte letteraria hai ragione: qualsiasi lente ideologica posta prima di un’analisi porta un rischio maggiore di dire cazzate, e quindi bisogna operare come dici tu. Un esempio su tutti è il giudizio di Annie Ernaux sul modo di tratteggiare i personaggi femminili di Houellebecq. Houellebecq scrive cose moralmente discutibili, ma scrive cose degne d’attenzione, forse più di quelle scritte dalla Ernaux, che pure se ne merita tanta. Quindi ben vengano tutti gli strange studies possibili, ma accettino di essere smentiti, e siano onesti, più che corretti, intellettualmente e politicamente.

    Trovo l’esempio di Jeeg Robot emblematico di come l’ideologia sia pericolosa e di come faccia passare in un attimo dalla parte del torto chi pure avrebbe molte ragioni. È anche lo stesso motivo per cui il femminismo viene avversato da persone intelligenti. Le opere mostrano il mondo per quello che è, ed è perfettamente legittimo, anche moralmente.

    Per quanto riguarda le relazioni interpersonali, non ho ben capito cosa c’entri il femminismo. Credo intanto che non si possa generalizzare. Se il tuo amico perde attrazioni per donne intelligenti è un “problema” suo. Io sono un uomo, eppure ho trovato interesse nel femminismo, e anche dal punto di vista sessuale è un luogo comune che pesa sul femminismo quello dell’avversione per il sesso. O meglio, è anche causa di certe femministe fanatiche. Però come non si giudica l’islam attraverso l’Isis, così dovrebbe essere lo stesso per il femminismo. E per il resto il femminismo non c’entra niente. Ogni uomo ha a che fare con il desiderio di stabilità sentimentale, e allo stesso tempo di promiscuità sessuale. Ma non si capisce perché mai dovrebbe aspettare, mica se fa un figlio deve smettere di fare carriera. Questo accade alle donne, e non sempre c’entrano le ingiustizie. Bisogna anche capire che ci sono donne che stanno molto meglio facendo le mamme che facendo carriera. L’importante, e qui sta la necessità del femminismo, è la possibilità di scegliere.

    In conclusione l’ideologia femminista ha ancora il suo perché, sia a livello politico che più personale. Penso che molti uomini trarrebbero beneficio dall’incontrarla, anche sul piano sessuale, poiché abbracciare il femminismo non limita il desiderio, ma lo rende più attento al rispetto altrui; non ti fa pensare a qualsiasi pratica sessuale come degradante, ma la rende degradante se non c’è il consenso sotto. Quello che penso ti abbia tenuto alla larga sono le pesantezze ideologiche che ogni ideologia si porta dietro, e anche il fatto che nel tuo campo di studi e in generale nei cultural studies, dalle buone intenzioni si è finiti a volte nel ridicolo.

  22. Cara Claudia,
    come ti ho già scritto in privato, trovo molto importante questo tuo post. Avrei un sacco di cose da dire, ed è la ragione per cui non sono intervenuta in tempo qui sul sito. La piega che ha preso la sequenza dei commenti è deprimente. Mi sembra che quasi nessuno abbia ha capito il punto. E forse un errore (un errore solo di retorica, perché capisco benissimo che per te sia stato il punto di partenza della riflessione autobiografica) è stato cominciare con la questione della correzione politica della storia letteraria, che in fondo è la più caricaturale e la più semplice da risolvere, perché la si può affrontare con una banale operazione di storicizzazione del tutto analoga a quella che già compiamo quando ci confrontiamo, ad esempio, con la letteratura di origine e ideologia aristocratica. (Per ora mi limiterò a dire cosa penso di questo, appena avrò il tempo vorrei invece intervenire sulla questione, molto più delicata, che poni invece all’inizio quando ti interroghi sulle ragioni del «ritardo» con cui hai cominciato a diventare sensibile alla tua condizione di donna).
    Il problema della «critica femminista» e dei cultural studies mi sembra quello minore, e non lo identificherei con il femminismo tout court; al massimo lo definirei come un suo possibile corollario che, oltretutto, ogni bravo studioso e professore già pratica spontaneamente, quando esplicita la storicità e la relatività delle pratiche e dei valori rappresentati nelle opere che studia. (Per gli italiani, poi, che dalla scuola sono abituati ad affrontare tutto in chiave storica, dovrebbe essere particolarmente ovvio). Lo facciamo con il Gattopardo o con Proust senza che questo minacci il loro valore letterario; lo si può fare, credo, con Montale e la sua concezione stilnovistica dell’amore: una concezione che vede la donna più come oggetto di desiderio che come soggetto, che la concepisce (morta o lontana) soprattutto come un pretesto per poi parlare dei sentimenti e dei pensieri sublimi da lei suscitati nel poeta – e che certo poco ha a che fare con un vero rapporto intersoggettivo. Questo modello oggi è ancora familiare, perché viviamo in una società che ha ancora tratti patriarcali, ma forse un giorno ci diverrà estraneo e bisognoso di spiegazione storica come la pederastia dei greci… Non è difficile spiegare questo a una studentessa «femminista» perplessa come non è difficile spiegare a uno studente marxista altrettanto perplesso l’origine dello snobismo di Proust (noto tra l’altro che più di una volta mi è capitato di sentire le stesse persone che deridevano le letture femministe delle opere letterarie sdegnarsi per il modo in cui Françoise era rappresentata nella Recherche: perché la cultura marxista non riesce a capire che la questione femminile è solo una sua continuazione con altri mezzi?).
    Poi, accanto a questa storicizzazione, esattamente come facciamo con la letteratura dell’Ancien Régime e i suoi costumi aristocratici che ci sembrano oggi inaccettabili, possiamo e dobbiamo anche discutere criticamente dei valori veicolati dalla letteratura. A questo livello, è vero, lo studio della letteratura tende a sfociare nella critica culturale, e forse a perdere la sua natura puramente «letteraria» – ma non sono sicura di questa riduzione estetizzante. Dove sarebbe esattamente il confine tra la critica letteraria e la critica politica e morale? Se cambia massicciamente la componente sociale dei lettori è inevitabile che cambino anche il gusto e la sensibilità, che non sono criteri soltanto estetici (la storia della critica moderna, a partire dalla sua nascita con l’Illuminismo e il Romanticismo, è sempre stata legata a questa dimensione «totale», intimamente etico politica, della critica e del «giudizio»). E mi sembra naturale e in fondo giusto che un pubblico sempre più democratico, femminile, colored, con l’evolvere della storia e delle mœurs cominci ad apprezzare e difendere la rappresentazione di punti di vista diversi, più decentrati, rispetto alle forme culturali che i dominanti hanno reso egemoniche. L’errore, il solo gravissimo errore, è quello di difendere cattiva letteratura edificante al posto di buona letteratura disturbante, e pensare che lo scandalo della disuguaglianza si risolva con la dittatura delle quote nei manuali, che invece di plasmare la sensibilità e il gusto attraverso la critica, nel senso più alto di queste parole, e di aspettare che individui diversi producano grandi opere che difendono visioni del mondo diverse, cerca di spacciare roba mediocre già scritta per letteratura degna di essere antologizzata. Il solo modo di emendare la storia letteraria mi sembra quella di produrla e di discuterla dal vivo, non di riscriverla come in Orwell.

    Barbara (Femminista- finché ce ne sarà bisogno)

  23. FF vs PPP

    Sulle questioni toponomastiche e linguistiche. Per definizione non sono questioni economiche, ovvio dunque che per un materialista sembrino secondarie. Ma per chi crede all’esistenza di un potere simbolico, hanno una loro importanza (curioso piuttosto che siano definite «cazzate» proprio in un blog dove discettiamo tutti i giorni di Lacan e di Bourdieu). I nomi contribuiscono a plasmare il paesaggio in cui viviamo e l’atmosfera che respiriamo. Chiunque conosca la storia sa benissimo quanto il correggere e reinventare nomi, chiamarsi reciprocamente «compagni» e «compagne», o «cittadini», battezzare i mesi e gli anni di un nuovo calendario, abbia contato nella ricostruzione dell’ordine simbolico tentata dalle rivoluzioni. Anche in tempi meno utopici, il conflitto sui nomi è sempre stato al centro di battaglie politiche (consideriamo naturale emendare il vocabolario e la toponomastica fascista, ad esempio) e ha sempre fatto parte della costruzione dell’egemonia (sui nomi delle strade di Roma o delle fermate della metropolitana di Parigi si potrebbero scrivere trattati).
    Insomma, una volta che si consideri l’uguaglianza di genere degna di interesse politico, l’attenzione al linguaggio viene da sé. Il rischio che nelle mani degli imbecilli questa attenzione diventi ridicola correttezza politica non ha nulla di specificamente femminista. A meno di non ritenere che le donne siano naturalmente più stupide.

    Nb. L’istituzione per cui lavoro, l’EHESS, propone a tutte le nuove insegnanti il titolo di Maîtresse de conférences e Directrice d’études. All’inizio, maîtresse suonava orribile alle mie orecchie italiane, che lo associano a timide maestrine e a tenutarie di bordello – e molti colleghi francesi della vecchia generazione mi ripetevano di trovarlo ridicolo. Ho dunque risposto, inizialmente, che preferivo conservare il vecchio titolo maschile, ma sono stata dissuasa dai buoni argomenti delle mie colleghe «femministe»: la lingua ha già queste risorse, non si tratta nemmeno di inventare nuove parole, le abitudini percettive cambiano in fretta. Sono felice di essermi lasciata convincere. Già a tre anni di distanza la cosa sembra ormai del tutto naturale, non solo a me ma anche ai colleghi. Immagino che per la prossima generazione il problema non si porrà nemmeno più.

  24. @ Barbara

    Che gli atteggiamenti personali non possano pesare sul femminismo intero l’ho scritto anch’io, ma questo in fondo è inevitabile, succede pure per chi è veg, per tutti. Poi io non ho nulla contro questi interventi sulla lingua e la toponomastica, solo penso che siano irrilevanti, anche sul piano simbolico (un materialista misura anche l’effetto simbolico, e io sono un lettore del blog e penso che Proust era autorizzato a dire cazzate, in quanto romanziere; Lacan no, però non l’ho letto di prima mano e quindi non posso giudicare davvero, ma so che si è comportato da ciarlatano in certi casi, con folla adorante al seguito. I rivoluzionari sono spesso fanatici, per questo dànno così importanza all’ordine simbolico). Chiamarsi compagno e compagna oggi poi non significa niente. Così come è del tutto inutile la retorica della memoria, i giorni del ricordo eccetera. Se una persona ha bisogno di sapere cos’è stato il fascismo per non diventare fascista vuol dire che abbiamo un problema grosso. È evidentemente una cazzata, tanto più che nel resto del mondo allora come fanno? Sarebbe come pensare che dobbiamo demolire tutta l’architettura fascista. Trovo questi interventi inutili, perché non penso che cambino alcunché di simbolico. La disuguaglianza ha impedito in passato alle donne di accedere al mondo delle lettere, ma oggi non è più così, quindi che effetto dovrebbe ottenere la riscrittura del canone? Esistevano già maestra, dottoressa, scienziata, eccetera, quindi che cambia se abbiamo una desinenza femminile in più? Non ne faccio appunto una questione di orecchio, o di principio, perché non me frega nulla. È come per il crocifisso. In linea di principio non dovrebbe stare nelle scuole, ma la sua presenza è comunque irrilevante. La foga di coloro che lo vogliono togliere è ridicola. L’attenzione a questi simboli tirando in ballo le sensibilità religiose altrui è ridicola. Se una persona si sente a disagio di fronte al crocifisso ha un problema. Io sono ateo e non ho mai avuto alcun problema con la sua presenza. E pensiamo davvero che toglierlo da ogni aula cambierà qualcosa in questo paese? Bene ha fatto l’EHESS, e ovviamente in futuro tutti saranno abituati, ma cosa cambia? Se fosse stato rilevante tu non saresti stata assunta per quel ruolo.

    Poi vorrei che mi spiegassi il passaggio su Montale. Premetto che non ho letto Montale. Se Montale parla di donne in un certo modo non c’entra il modello patriarcale, allo stesso modo per cui una donna può servirsi sessualmente di un uomo, e parlarne in tali termini. A parte il fatto che questa distinzione tra oggetto e soggetto mi pare sempre più campata per aria, vorrei capire quando mai il desiderio sessuale considera la soggettività altrui. Presumo quindi, ma per questo ti chiedo se puoi spiegarmi meglio, che se Montale ha scritto cose rilevanti, non le ha scritte nonostante il suo maschilismo, ma le ha scritte perché non hanno nulla di maschilista o di patriarcale, ma molto di umano, e di vero, poiché i rapporti umani sono fatti anche di questo e non si può pretendere da nessuno che i propri sentimenti e desideri siano confacenti ai nostri gusti. Poi la studentessa femminista sarà legittimamente indifferente a Montale, ma ciò che pensa sul valore veicolato dalla sua poetica è irrilevante sulla bellezza della sua opera. La critica femminista applicata alla letteratura è inutile dal punto di vista letterario, come qualsiasi altra critica politica. Non c’è un confine, sono proprio piani diversi. Un pubblico diverso, e accademici provenienti da vari mondi, saranno più attenti ai vari punti di vista, ma la cattiva e la buona letteratura nulla hanno a che vedere con i punti di vista e con la democrazia. Altrimenti le opere del passato non sarebbero mai state grandi.

  25. FF vs PPP,

    mi fai dire delle cose che non ho detto. Non sono mai stata a favore della riscrittura dei manuali di letteratura o filosofia in base alle quote rosa. La risposta più intelligente alla domanda «perché non ci sono state più grandi scrittrici o filosofe donne nel passato?» l’ha data Virginia Woolf nella sua conferenza Una stanza tutta per sé: sono mancate le condizioni materiali e sociali perché questo potesse darsi (condizioni sintetizzate nella metafora della stanza, ossia dell’autonomia materiale e psicologica necessaria per dedicarsi all’attività intellettuale, detta altrimenti libertà o «scholè»: aggiungo che, trattandosi dell’espressione originaria della divisione sociale del lavoro, dovrebbe importare a qualsiasi persona di sinistra); se Shakespeare avesse avuto una sorella con altrettanto talento, continuava la Woolf, sicuramente la ragazza non avrebbe potuto esprimerlo liberamente come il fratello, e sarebbe morta sconosciuta e senz’opera. Questa disparità di destino tra uomini e donne, prolungatasi per secoli, è qualcosa di tragico con cui la storia letteraria e della cultura devono fare i conti. (L’argomento dovrebbe esserle familiare perché molto simile a quello che Fortini evoca nel saggio sulla sorella Paolina di Leopardi; George Eliot lo ha rappresentato nei suoi romanzi). Da questo punto di vista la storia non si riscrive, e provare a farlo imbottendo i canoni di scrittrici mediocri è un atto ideologico profondamente astorico oltre che una mistificazione letteraria. (Il che non toglie che si possano fare delle belle scoperte e riscoperte, e che eventuali grandi artiste ingiustamente misconosciute possano essere rivalutate e inserite legittimamente nel canone: ma questo è quello che già facciamo con tutti gli scrittori, ed è una delle poste in gioco più appassionanti della critica: recentemente ho visitato una mostra di Carol Rama, di cui non avevo mai sentito parlare, e sono stata folgorata. Questo è un caso riuscito di lotta per il canone estetico).

    Spero stavolta di essere stata chiara: un conto è il passato, che va studiato per quello è stato davvero, per la sua realtà effettuale, mi viene da dire con Machiavelli, e non per l’immaginazione che vogliamo averne (ma il passato può e deve essere discusso e criticato per le sue ingiustizie, tra cui il fatto che l’accesso al mondo della cultura sia stato per troppo tempo un privilegio esclusivo degli uomini, che se lo sono modellato a loro immagine e somiglianza, e in cui le donne, anche una volta entrate nello stesso mondo, non si sentono completamente legittime e a loro agio). Un conto è però il presente: intervenire in modo correttivo e preventivo sul mondo che ci circonda è un gesto politico fondamentale: in questo caso non si mistifica nulla, anzi, si usa l’immaginazione nel suo terreno di elezione: il possibile. E pazienza se alcune misure di parità anche linguistica per te suonano inutili o futili: per le dirette interessate non lo sono, e questa è la sola cosa che conti politicamente (se non fosse così, sarebbe paternalismo o dispotismo illuminato).

    La risposta su Montale era per Claudia Crocco, che aveva citato l’esempio. Credo che Claudia abbia capito cosa volevo dire, ma se necessario posso ritornarci. In ogni caso, è una considerazione laterale rispetto al problema che mi interessa.

    Sulla lotta per il canone culturale e per i modelli che ci rappresentano, o da cui vogliamo farci rappresentare, il modo in cui vedo la faccenda è sintetizzato in questa scena di Do The Right Thing, che mostra tutto, compreso il lato ridicolo e comico del conflitto (ma alla fine tragico: il film finisce con una rivolta, un morto, e una scena di linciaggio). È forse il più bel film che sia mai stato fatto sulla questione della violenza simbolica e della convivenza tra identità diverse, e se in questa scena sulla Hall of fame si sostituissero le donne ai neri – cosa che poi Spike Lee ha tentato di fare in altre opere, ma con molta meno efficacia – funzionerebbe lo stesso.

    https://www.youtube.com/watch?v=HbA1YOueC_A

    (Anche sulla soluzione, confesso di pensarla ambivalentemente come il regista, che ha concluso il film con due citazioni di Malcolm X e di Martin Luther King che dicono una il contrario dell’altra).

    Un’ultima precisazione, prima che arrivi l’accusa di differentismo: quando parlo di identità, parlo di habitus costruiti dalla storia e dall’accumulo di esperienze, non di differenze innate e naturali. Anche su questo ha l’ultima parola Virginia Woolf: l’utopia per me ha il volto universale dell’androgino (per la precisione, quello di David Bowie verso il 1974…).

  26. @ Barbara

    Scusami, non volevo intendere che fosse una tua idea (eri chiara anche nei commenti precedenti), dicevo anche nel caso in cui si facesse per motivi sensati, se ci sono cioè opere che vanno immesse, che effetti avrebbe sul presente? Nessuna donna ha oggi bisogno di ulteriori esempi femminili nelle lettere. Per cui il motivo è letterario, e come scrivi già si fa per qualunque scrittore, per cui non c’è bisogno di un approccio di genere. Se ci sono scrittori misconosciuti che non sono stati discriminati in quanto uomini è anche possibile che ci siano scrittrici misconosciute non discriminate; e in ogni caso che importanza ha? In letteratura conta come scrivi, quindi alla fine è quello che viene giudicato. Io sinceramente non capisco il concetto di fare i conti col passato. Non vedo che conti debba fare la storia della cultura (io poi FF l’ho cominciato a leggere da poco, grazie per il consiglio sul saggio). A me pare che i conti li abbia chiusi la Woolf. Però sono disposto a cambiare idea.

    Che il mio pensiero sui rimedi linguistici sia irrilevante lo capisco. Che non sia così per chi la pensa diversamente però non è l’unica cosa che conta. In politica, come in qualsiasi campo ogni idea viene discussa. Se alcune misure sono inutili, sono inutili a prescindere da quello che penso io.

  27. Povero Trucco (nomen omen?), non riesce a comprendere che io gli abbia solo detto ciò che è stato provato da migliaia di studi scientifici.

    Eh no, Trucco antepone i discorsi politici a quelli scientifici, si sa che i movimenti politici non mentono mai, vero Trucco?

  28. @Barbara Carnevali
    Anch’io come lei sono assolutamente convinto che la scelta stessa dei termini che usiamo sia fondamentale, il modo in cui il linguaggio si trasforma appartiene al piano ideologico e concorre in maniera determinante ai modi di convivenza sociale.
    Tuttavia, critico la maniera pianificata ed autoritaria mediante cui alcuni intendono intervenirvi.
    Metaforicamente, il fatto che le persone di cui ognuno di noi si circonda ci vogliano bene, è un fatto che credo tutti consideriamo fondamentale. Tuttavia, allo stesso modo, nessuno di noi pensa di andare con un coltello a costringere i propri figli a volergli bene.
    Est modus in rebus, nel linguaggio non esiste autorità istituzionale, neanche dell’Accademia della Crusca che pure vorrebbe spiegarci i vantaggi dell’abbandono del congiuntivo, esiste l’uso. Ogni parlante ha diritto a dare il proprio contributo, e capisco che alcuni possano desiderare una determinata evoluzione del linguaggio.
    Ciò tuttavia non li autorizza a imporre magari per decreto queste novità. Quando ciò avviene, siamo nel campo del totalitarismo, quando cioè un’ideologia non si limita a tentare di farsi strada con le sue argomentazioni e con consensi che gliene derivano, ma pretendendo che nessuna altra ideologia sia concepibile.
    Nel linguaggio, sta avvenendo la stessa operazione che avviene col politically correct, e io al contrario di FFvs.PPP non ci trovo nulla da ridere, la trovo un’operazione autoritaria che rende la nostra società sempre più totalitaria, malgrado le dichiarazioni di principio dell’ideologia dominante.

  29. Slogan di oggi per un domani radioso:

    “RIVOLUZIONE SOVRANISTA CONTRO IL TOTALITARISMO STRISCIANTE DELL’IDEOLOGIA DOMINANTE!!!!!!!!”

    (ma poi, lo troverete tutti il posto alla greppia del nuovo regime? Ci saranno dei delusi, vi avverto)

  30. @Vincenzo Cucinotta

    È vero che non possiamo costringere i nostri figli ad amarci, come non possiamo costringere i nostri amici e colleghi a trattarci con rispetto. Proprio per questo è bene che gli aggiustamenti di tiro linguistici siano promossi a livello istituzionale e non lasciati solo all’iniziativa dei singoli, in modo da ribadire il principio, far capire che politicamente lo stato si schiera. I titoli sono sempre oggetto di una decisione dall’alto, proprio perché trasmettono precise gerarchie e sistemi di valori. Non sto pensando a nulla di diverso da quanto si è già fatto con l’abolizione del Signorina o l’introduzione del Mrs per evitare di classificare, e indirettamente sminuire, le donne non sposate. Nel caso della femminilizzazione dei titoli, l’azione è più positiva ma simile nello spirito. Poi le persone, nell’uso quotidiano, sono libere di abituarsi nel tempo, conformemente a luoghi, ruoli e situazioni. Nessuno viene punito o multato se nella vita quotidiana usa una formula scorretta. Di certo però comunica qualcosa e deve accettare, a suo rischio e pericolo, l’idea di essere interpretato di conseguenza. Se uno dell’età di mio padre mi chiama signorina, sorrido perché so che è una forma di galanteria datata; se lo fa un commerciante sorrido uguale, ma perché penso che sia un po’ tendenzioso; se me lo dice un collega in Consiglio di facoltà dove gli uomini si chiamano tra loro Professore mi incazzo, perché è evidentemente un gesto paternalista e sessista (Cito esempi reali, quest’ultimo raccontatomi da colleghe italiane. In Francia dove vivo, il sessismo perdura ad altri livelli*: il paese che è riuscito a imporre l’uso di «ordinateur» al posto di computer non ha evidentemente alcuno scrupolo a intervenire politicamente sulla lingua).
    Insomma, anche condividendo la sua preoccupazione liberale di principio, ho due obiezioni: 1) quando si scontrano valori ultimi, come in questo caso libertà e uguaglianza, purtroppo bisogna scegliere, e io, almeno in questo caso, e anche per le ragioni del punto 2, sceglierei il secondo 2) mi fa ridere che nell’Italia che è di Salvini e che fu di Berlusconi si evochi lo spettro del totalitarismo femminista, o come fanno altri commenti, della paranoia puritana americana. La politica non è solo difesa di principi astratti ma anche capacità contestuale di giudizio in base alle situazioni specifiche. Ma ci rendiamo conto di dove viviamo? È evidente che dove a una rappresentante dello stato viene dato quotidianamente della puttana siamo ancora all’età della pietra in materia di parità e di genere, e abbiamo bisogno di fare molta pulizia. Ovviamente quella linguistica non basta, anzi, forse è solo l’epifenomeno di cose più gravi. Ma ben vengano le decisioni della Crusca e le iniziative di Laura Boldrini: non vedo alcuna controindicazione.
    *Nella stessa istituzione dove lavoro e che promuove il cambio dei titoli – e dove ha insegnato Bourdieu, l’autore del “Dominio maschile”! – la piramide delle carriere fa rabbrividire: se non sbaglio, secondo le utlime stime le donne sono tra il trenta e il quaranta per cento dei MCF (professori associati) e meno del dieci per cento dei Direttori di ricerca (professori ordinari). Non mi si risponda che è proprio perché si bada solo alle questioni simboliche che questo succede, perché non è vero (l’EHESS è comunque molto più avanzata sulla parità di genere rispetto alle università più tradizionali come la Sorbona). Ma di certo, almeno per me, questa è una delle priorità su cui lavorare, dopo la questione delle «morti bianche», ossia la rinuncia e autoesclusione spontanea delle ricercatrici dopo il dottorato, tra i trenta e i quarant’anni (ossia quando cominciano a presentarsi alcune scelte di vita decisive e cominciano, con la lotta di resistenza, a sentirsi maggiormente i «bias» e relativi sentimenti di illegittimità: problema che forse ha qualcosa a che fare con la presa di coscienza tardiva di cui parla Claudia Crocco. Magari ne riparliamo in un altro altro commento.

  31. “ Torino, novembre-dicembre 1973 – [Senza titolo] – Come al nauseato limitare / ottobrino / di un’estate / assillante / viene una nebbia e qualche / pioggia / costante / per suo muto disegno / indefettibilmente crudele picchia / sulle stupide orme / del ferragosto // così ci accoglie / e ci coglie / questa pietosa peste barocca / del movimento / delle donne // persuasore di morte // che è per sua natura / interamente distruttivo / dell’eccessivamente fatto / contro a natura // per questo lodo / in questa primavera della morte / il suo diritto a franare / gli esorbitanti mausolei / delle chiacchiere / densate di oppressione // lode dell’ammalarsi / poiché negli antri / delle lenzuola / girovaga / un cupido bollente // lode di Penelope / e del disfare / il già tessuto. “.

  32. @ B. Carnevali

    Il potere (vero) non lo cede (quasi, salvo folgorazioni) nessuno gratis et amore Dei. Lo si prende, organizzandosi politicamente. Mi pare che i provvedimenti istituzionali in materia di linguaggio di cui lei parla siano parte di una strategia politica del ceto al quale anche lei appartiene, come d’altronde la rivendicazione legittimante della “eguaglianza” o della “parità di genere”. Non ho obiezioni, così fan tutti/e.
    Però mi interesserebbe di più sapere in quali modi, secondo lei, questi provvedimenti mutino o muteranno i rapporti personali e intimi tra uomini e donne. Leggendo i suoi commenti mi è venuto da pensarci, la cosa mi sembra importante e mi incuriosisce, ma non so darmi una risposta (sono vecchio).
    Se vorrà rispondermi la ringrazio sin d’ora.

  33. Esattamente Trucco, studi scientifici (a migliaia)…e anche decine di capolavori dell’arte di ogni tempo.

    Tutte forme di conoscenza ben più complesse ed eleganti dei vostri superficiali tentativi di politicizzarne i contenuti.

  34. ‘Politicizzare i contenuti’, disse quello che usava ‘Arte’ e ‘Scienza’ come manganelli e parlava sempre e solo di politica e potere e chi è su e chi è giù.
    Tranquillo, nessuno toccherà il suo meschino piccolo potere. Anzi, il nuovo regime lo rafforzerà e la farà sentire più importante. Ancora pochi mesi e potrà anche lei, come gli altri onesti armati di studi scientifici e decine di capolavori dell’arte di ogni tempo potrà affondare il muso nella greppia.

    Davvero, avessi un po’ più di talento scriverei un nuovo ‘Oppio degli intellettuali’, con sovranismo, anti-imperialismo e maschiettismo al posto del marxismo, per parlare di gente come quella che occupa la sezione commenti di blog un tempo vivaci come Parole e Cose. Invece conosco troppo bene i miei limiti, tipo non essere Raymond Aron, a differenza dei Napoletani, dei Cucinotti, degli Icari e dei Buffagni e degli altri intellettuali organici.

  35. @ B. Carnevali
    Grazie della cortese risposta.
    Alcune precisazioni.
    Innanzitutto, quando parlo di totalitarismo, non mi riferisco certo specificamente al femminismo, ed in realtà il femminismo costituisce soltanto una parte di un generale fenomeno che intende modificare la realtà tramite il controllo del linguaggio.
    A me vedere Laura Boldrini che interrompe un deputato perchè egli si è rivolto a Maria Elena Boschi chiamandola ministro, costringendolo a pena di toglierli la parola a chiamarla ministra, una parola appena coniata, mi appare terribile e trovo preoccupante che tanti non si rendano conto della gravità di quanto sta avvenendo.
    Trovo preoccupante che una persona colta ed intelligente come lei possa non rendersi conto di ciò di fondamentale che mettiamo in gioco quando decidiamo che il linguaggio va normato da parte dell’autorità costituita.
    Lei dice che qui siamo in presenza di un tipico conflitto tra libertà ed eguaglianza.
    Mi permetta di farle notare che questo modo di impostare la questione è insufficiente. Il punto è che dietro la parola libertà si celano aspetti completamente differenti tra loro, che non esiste la libertà ma esistono le libertà. Dietro la questione del linguaggio, si cela una delle libertà fondamentali, quella di parola.
    In principio, vi fu il razzismo, la prima forma di censura del linguaggio, la prima volta in cui un’opinione per quanto spregevole, fosse sanzionata. Fu un’eccezione credo giustificata da un punto di vista storico, si usciva dalla tragedia del nazifascismo e delle sue leggi razziali, dei campi di concentramento. Forse, si sarebbe potuto dare termine a questa eccezione, forse andava mantenuta, ma che addirittura quella strada servisse da modello, da apripista per imporre censure ripetute del linguaggio, significa che il liberalismo palesa ormai la sua incapacità evidentemente intrinseca di conciliare libertà ed eguglianaza e prima ancora le differenti forme di libertà.
    Per me, questo è ormai chiaro, il liberalismo ha svolto il suo ruolo e dovrebbe essere abbandonato, ormai esso svolge un ruolo distruttivo, è divenuto un’arma puntata contro la stessa umanità, e quindi sarebbe il momento di raccoglierne i frutti, di conservare ciò che è buono e gettare via quanto è cattivo. Invece, devo assistere a questa agonia del liberalismo, in cui le varie istanze divenute ormai chiaramente tra loro antitetiche, vengono agitate per scopi per quanto in sè nobili, settoriali, e sembra che anche le menti più illuminate non si curino degli equilibri complessivi che ne risultano così determinati.
    Se l’autorità costituita di uno stato democratico usa la forza della legge per imbrigliare il mio discorso, per decidere preliminarmente ad esso cosa sia lecito e cosa non lo sia, significa che stiamo sacrificando la stessa libertà di parola, e non la stiamo sacrificando all’eguaglianza, no, mai il mondo occidentale in cui viviamo è stato più diseguale.
    Capisco l’aspetto paradossale, ma è proprio questo modo di gestire questa fase terminale del liberalismo che risulta liberticida, e di questo dovrebbero preoccuparsi tutti, e soprattutto i soggetti più consapevoli.
    Forse, una riflessione specifica ed approfondita su questi aspetti andrebbe fatta sia singolarmente che collettivamente. Per quanto mi riguarda, io la raccomando caldamente.

  36. Segnalo, perchè molto a proposito nonostante tratti di cosa diversa (la trasmissione televisiva “Stato civile” su due ragazze sarde unite civilmente), questo breve pezzo del sociologo Carlo Gambescia:
    http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2016/12/a-proposito-delle-polemiche-e-non.html

    “Dal punto di vista di una società dei diritti civili va benissimo, l’istituzione dei registri e quant’altro (per quel che ci riguarda siamo favorevoli anche alle adozioni), ciò che non va bene è lo sbattere in faccia a chi la pensi diversamente, come giusta in assoluto, l’identità tra legalità e giusto relativo (a un certo gruppo che condivide quei valori relativi), frutto avvelenato di una specie di riflesso carnivoro sociale, che evidentemente non si riesce a controllare neppure in alto: quel voler stravincere, fino al punto di umiliare e distruggere l’avversario, presentato come nemico assoluto. “

  37. @ Buffagni

    Qui non capisco. Qui non sono in discussione due posizioni entrambe legittime, mi spiace. Per me non c’è nessun problema se un cattolico pensa che gli omosessuali sono deviati e le coppie omosessuali non vanno bene, non sono famiglie, non dovrebbero crescere figli eccetera. Il problema è che i cattolici non si tengono le loro opinioni per sé, ma pretendono di farle contare in ambito politico, e civile. Il discoroso di Gambescia è relativista in senso cattivo. Certi valori morali non sono negoziabili, e i cattolici di adesso, Papa compreso, propongono valori morali intollerabili, per giunta in nome di una fede che deturpano con la loro idiozia. Inoltre qui non si sta facendo nessuna uguaglianza tra legalità e giusto relativo. I diritti civili allargati alle coppie omosessuali sono giusti sul piano morale (in senso assoluto se condiviamo la costituzione), da cui segue il loro riconoscimento legale.

  38. @ FF vs PPP

    Scusa, ma non hai capito il punto della questione sollevato da Gambescia. Gambescia dice che le classi dirigenti devono evitare che “le opposizioni ideali” si trasformino “in contrasti verbali e i contrasti in feroci conflitti reali”, perchè altrimenti la società si avvia verso la guerra civile. Le società, tutte, si reggono sulla forza e sul consenso, perchè in tutte le società ci sono conflitti e collaborazione. Senza consenso e collaborazione, la società si disgrega perchè restano solo i conflitti, che tendono a montare verso gli estremi, cioè a giungere al conflitto a morte.

    Nella nostra società, ci sono opinioni seriamente diverse in merito ai costumi, e in generale a ciò che è bene e male, giusto e sbagliato. Per evitare che queste differenze di persuasione finiscano per distruggere la coesione sociale, bisogna che chi ha l’egemonia culturale, sociale e politica NON imponga sistematicamente con la forza le proprie convinzioni a chi non le condivide, e che le classi dirigenti si adoperino con saggezza per non esasperare contrasti e conflitti.

    “Con la forza” significa anche “con la legge”, perchè dietro a un comando legale c’è sempre la forza: i carabinieri che ti vengono ad arrestare, la magistratura che ti manda in prigione o ti commina una multa, etc.

    Non so se ti rendi conto delle conseguenze di quel che scrivi: “Certi valori morali non sono negoziabili, e i cattolici di adesso, Papa compreso, propongono valori morali intollerabili, per giunta in nome di una fede che deturpano con la loro idiozia…Il problema è che i cattolici non si tengono le loro opinioni per sé, ma pretendono di farle contare in ambito politico, e civile.”
    Finchè lo scrivi tu, che non hai responsabilità pubbliche, in un dibattito culturale, niente di veramente grave. Sei sconsiderato, sei maleducato (perchè dai del malvagio e dell’idiota a tutti i cattolici, me compreso, che non mi arrabbio perchè ci ho fatto l’abitudine e perchè mi sta simpatica la tua ingenuità); però, le cosa finisce qui, anche se non giova alla comprensione reciproca e neanche a un migliore intendimento del merito della questione.

    Se invece la logica della tua affermazione viene impiegata politicamente (leggi, programmi scolastici, prese di posizione pubbliche di forze politiche o governi) si arriva a Sant Just: “Nessuna libertà per i nemici della libertà.” Segue ghigliottina, o suoi surrogati. Esempio: se i tuoi valori non sono negoziabili e dunque i cattolici sono malvagi e idioti, vogliamo lasciarli insegnare nella scuola pubblica? Certo che no. Vogliamo lasciargli allevare i figli perchè li educhino nella malvagità e nell’idiozia? Ci mancherebbe altro. Vogliamo lasciare che si presentino alle elezioni, in modo che, nel caso sventurato che ottenessero la maggioranza, possano varare leggi malvage e idiote? Senz’altro no. I cattolici, che in Italia sono una minoranza socialmente rilevante, di fronte a una situazione simile che cosa dovrebbero fare? Convertirsi o suicidarsi? Non pensi che reagirebbero, magari anche con la violenza? E guarda che questo non vale solo per i cattolici, ma per tutte le minoranze o maggioranze che non condividano i tuoi “valori non negoziabili” (o per te, nel caso in cui abbia l’egemonia una forza culturale e politica che, in base ai suoi valori non negoziabili, ritenga TE e i TUOI valori malvagi e idioti).
    Questa cosa si chiama guerra di religione, e non è una bella cosa.

    Le garanzie giuridiche all’individuo introdotte dal liberalismo classico, e i regimi politici di democrazia liberale, sono nati in società dove c’erano serie e profonde differenze filosofiche, politiche e morali (credenti e agnostici o atei, liberali e legittimisti e socialisti, etc.) ma un sostanziale accordo in merito all’etica pubblica, ai costumi, al modo di vivere (ai “valori”). Quando questo accordo sostanziale in merito all’etica pubblica e ai costumi non c’è più, i regimi politici di democrazia liberale diventano estremamente fragili. Il corpo sociale si divide in clan e tribù, ciascuna delle quali tende a ritenere “illegittime”, come fai ad esempio tu, le persuasioni e il modo di vivere degli altri, e a bollarle di malvagità e idiozia.
    Se queste differenze inconciliabili basate su “valori non negoziabili” si esprimono politicamente, per esempio in partiti che si presentano alle elezioni con un programma basato su “valori non negoziabili” incompatibili con i valori degli altri, chi vince sarà tentato di usare i poteri di cui dispone, che sono grandi e pericolosi (lo Stato è una macchina da guerra) per imbavagliare, punire, coartare, convertire a forza, addirittura uccidere i suoi avversari. E’ esattamente quello che succede negli Stati del Levante o dell’Africa dove le linee di faglia del conflitto sono profondissime e molteplici, perchè si basano su “valori non negoziabili” quali l’etnia, la religione, la tribù, il clan. Colà, un regime politico democratico è impossibile; per comporre i conflitti ed evitare l’anarchia e la guerra civile ci vuole un regime autoritario o dittatoriale.
    E’ quel che inizia a succedere anche qui, in Occidente. L’episodio (che non conoscevo) citato sopra da Cucinotta, della Presidente della Camera che zittisce un deputato perchè non chiama “ministra” un ministro donna, è da un canto ridicolo, dall’altro malaugurante e grave: perchè un deputato, chiunque sia, è un rappresentante della nazione (non del suo partito), e chi riveste una carica istituzionale non deve mai togliergli la parola per il semplice fatto che non aderisce alle sue persuasioni culturali. Prova a immaginare se la Presidente della Camera fosse una cattolica che zittisse un deputato perchè nomina il papa senza chiamarlo “Sua Santità”: tu cosa diresti? Saresti d’accordo?
    Va ricordato che quando si dice “è giusto” si dice sempre “è giusto secondo me”, nel doppio significato di “giusto secondo le mie persuasioni” e “giusto secondo i miei interessi”: perchè in ogni uomo c’è il “riflesso carnivoro”, come lo chiama Gambescia, cioè l’inclinazione a ritenere giusto e legittimo quel che gli conviene. Lo dice molto bene Simone Weil quando scrive (cito a memoria) che quando desideriamo con forza qualcosa, si sveglia in noi un geniale filosofo che ci fornisce tutte le giustificazioni morali per volerlo.

    E quanto precede, illustra la lungimirante saggezza di invitare a insediarsi nelle nostre società milioni di persone che appartengono a civiltà radicalmente diverse dalla nostra, e che hanno “valori non negoziabili” totalmente incompatibili con i nostri (sia i tuoi, sia i miei, sia quelli di tutti gli altri occidentali).

  39. @ Buffagni

    Quel punto l’ho capito, sono stato sintetico. Potrei anche essere d’accordo, ma non in questo caso. Sia perché la trasmissione di un film del genere non è un’opera di persuasione coatta, e sia perché questo è un principio che appunto non può essere negoziato. Che non vuol dire espulsione dal consesso civile di chi la pensa diversamente, ma che quelli che la pensano diversamente devono accettare di essere minoranza e riflettere sul perché la pensano diversamente. Se sono persone civili accettano l’eventualità di essere in errore. Io non ho detto che tutti i cattolici sono idioti, ho detto che è idiota avversare l’omosessualità, sia in quanto cattolici (laddove non vedo in quale momento Cristo abbia detto qualcosa in merito), e sia in quanto cittadini della Repubblica italiana. Si può dire questo? O si offende qualcuno? Oppure i valori morali sono relativi? Perché se sono relativi allora vale tutto: stupro, pedofilia, omicidio, tortura eccetera. Il fascismo è stato espulso, l’omofobia va espulsa. Nessuno manda i carabinieri a casa di un fascista, basta che non rompa le scatole. Lo stesso può e deve valere in politica per chi propone leggi omofobe, o voglia discriminare le persone omosessuali (non mandargli i carabinieri, ma mandarlo a quel paese). Tutto qua, non capisco dove starebbe il pericolo paventato da Sgambescia. E poi fino ad oggi sono stati i cattolici a imporre il loro credo a tutti, mentre le misure come le unioni civili interessano solo certe persone, e non intaccano per nulla le altre. Però nella nostra società i pregiudizi dei cattolici, e di tante persone stupide fanno ancora del male agli altri, per questo si pensa che ci sia bisogno di film del genere, e di un’educazione diversa a scuola. Io scrivo sinteticamente, ma mica ho mai pensato di arrivare allo scenario che proponi tu. Ciò che non è negoziabile è l’accettazione dell’omosessualità. I cattolici possono insegnare a scuola finché vogliono, però non insegnano quello che pare a loro, nella scuola pubblica. Cresceranno i figli come gli pare, se sono buoni cattolici li cresceranno bene, se seguiranno i cattolici fanatici li cresceranno fanatici; e si presenteranno alle elezioni. Va benissimo, io non ho nessun problema con i cattolici, non avrei neanche tolto il crocifisso dalle scuole. Il problema ce l’ho con coloro che non si rendono conto dei propri errori, e sono pronto e disponibile a spiegare quali sono questi errori (li chiamo errori, e non divergenze di pensiero: una persona cattolica non può essere omofoba e stare a posto con la coscienza), e pretendono di far valere il loro pensiero per tutti. E trovo paradossale che si paventi un totalitarismo contro i cattolici. Cioè non capisco dove starebbe questa forzatura dell’armonia sociale, visto che è stata tirata in ballo anche sul tema di questo post. Io per esempio ho detto di essere scettico circa la rilevanza di certe misure linguistiche, ma mica ci vedo un problema. Si facciano o meno, la ragione di fondo è buona e condivisibile. L’unica minoranza che si è incazzata in questi anni è quella dei maschilisti incalliti. Che dovremmo fare, tenerli in considerazione? L’episodio della Presidente della Camera è effettivamente deprecabile, ma più che altro ridicolo, però dimostra il latente fanatismo della Boldrini, non lo spirito dei tempi, credo. Però se invece il deputato avesse usato invece di “ministro” un appellativo sessista, allora bene avrebbe fatto la Boldrini a zittirlo. Non è che non capisco che nelle società ci sono equilibri sottili, e che ci vuole poco ad arrivare alle mani. O meglio, essendo nato in un posto tranquillo leggo le tue come esagerazioni, e probabilmente questo è un difetto di chi nasce in posti tranquilli, che forse non ha gli anti-corpi per certe cose. Però non vedo sinceramente la deriva in corso.

  40. Caro FF,
    va be’. Ho capito. A te sembra così chiaro di essere nel giusto, che “li chiamI errori, e non divergenze di pensiero”. Ma vedi: nel campo del pensiero, dei costumi, dei giudizi di valore, non esiste proprio l’esattezza matematica, il 2+2=4 sul quale è impossibile non convenire, e chi non ne conviene va invitato a starsene chiuso in casa a “riflettere sul perché la pensa diversamente” finchè non riconosce di essersi sbagliato.
    Non funziona così. Per esempio: ai mussulmani glielo faresti un discorsetto così? Tu probabilmente glielo faresti perchè sei sincero e ingenuo, ma avrai forse notato che le istituzioni europee se ne guardano bene. Perchè? Perchè i mussulmani reagiscono, e reagiscono con la violenza. “Charlie Hebdo” ha pubblicato infinite vignette gravemente offensive per i cristiani, e tranne qualche timida deprecazione non è successo niente. Ha pubblicato una vignetta offensiva per Maometto, e alcuni mussulmani hanno fatto fuori la redazione. Chiaro il concetto? L’uomo è un essere pericoloso, caro amico.
    Tu dici che forse, le mie ti paiono esagerazioni perchè “sei nato in posti tranquilli”. Penso proprio che sia così (e anche perchè nei decenni del dopoguerra, a tutti gli italiani è stata impartita una educazione pacifista).
    Negli anni precedenti la guerra civile jugoslava, sono andato spesso nei luoghi dove sarebbero avvenuti i peggiori massacri. Ti garantisco che era “un posto tranquillo”, un paese europeo dove diverse etnie e diverse religioni convivevano pacificamente, insomma un posto dove si viveva bene, e dove il principale problema sembrava l’eccessivo amore per lo slivovitz degli jugoslavi. Altro posto visto di persona, il Libano. Fino a cinque minuti prima della guerra civile, meritava senz’altro la definizione corrente di “Svizzera del Medio Oriente”. Cinque minuti dopo, decisamente no.

  41. Non conosco l’episodio di Laura Boldrini che minaccia di togliere la parola a un deputato.
    So però che la Boldrini (già, “Boldrini” o “la Boldrini”? Di questo un’altra volta) ha più volte invitato a declinare i nomi al femminile e un anno e mezzo fa ha scritto una lettera ai parlamentari su questo.

    http://www.adnkronos.com/fatti/politica/2015/03/05/appello-laura-boldrini-basta-parole-solo-maschile_8z2Y0erQG7WMSZKgTJhO9I.html

    Non credo che una lettera, sia pure della Presidente, abbia vincolo di regolamento. Ma magari i regolamenti parlamentari sono stati modificati in tal senso, può essere. Se così fosse, minacciando di togliere la parola al deputato, la Boldrini avrebbe semplicemente applicato una norma interna della Camera, come il rispetto dei minuti previsti per parlare.

    Ma non nascondiamoci dietro a un dito: la Boldrini cita la Crusca, ma come se fosse un’autorità normativa, cosa che non è più da un bel po’, semplicemente perché ormai anche i sassi sanno che la lingua è fatta da norme E uso (e anche – almeno un po’, proprio solo un po’ dai – da una categoria secondo me troppo facilmente liquidata oggi da alcuni linguisti molto socio e social: il gusto, che, si sa, è un po’ conservatore e altezzoso). Petaloso rispettava le norme dell’italiano, ma quanto all’uso le sue occorrenze in Rete sono solo metalinguistiche (fonte: Crusca), ovvero lo si usa solo nella forma della citazione del caso del famoso bambino. Insomma, non è mai entrato nell’uso, è solo una moda: la Crusca infatti non lo ha mai messo nei suoi dizionari, tanto meno si è sognata di “imporlo” (ma nemmeno di “suggerirlo”, se è per questo).

    Morale: vogliamo preparare un galateo di genere della lingua e invitare a usarlo? Ci sto. Vogliamo metterlo nei regolamenti e imporlo o suggerirlo con forza (sanzionando chi non ci sta)? Ecco, in questo caso non invocherei Orwell – esageruma nen, si dice a Torino – ma proprio bello a vedersi, e liberale, non è. Capisco che un luogo altamente formale come il Parlamento richieda un’etichetta, ma la lingua non è solo un vestito, una turno di parola, ecc…, ha a che fare con quel che penso, quel che sento, è la mia stessa personalità. E’ uno spazio di transizione e transazione con l’altro e il mondo, certo, non è di mio esclusivo dominio, intendiamoci: però zittire e sanzionare la lingua… no, non mi piace.

    Barbara Carnevali ha perfettamente ragione quando osserva che siamo un paese con Calderoli e patriarchi, ma a me pare possibilissima la coesistenza di questa arcaicità con una suscettibilità che, se è ancora ben lontana dal purismo americano, a volte un po’ comincia ad assomigliargli (mi viene in mente il caso di “cicciottelle”, su cui avevo fatto una piccolissima indagine e in cui il sessismo, IMHO, c’entrava poco: ricordiamo che un direttore di giornale ci ha rimesso il posto?).

    Io uso senza problemi “sindaca” e “ministra” e uso ormai per cortesia formale, per sincera convinzione, per dare un segnale “politico”, la formula “care e cari” nelle mail di lavoro e simili (ma dico no agli asterischi, di cui comincio a vedersi diffondere l’uso, e gli abusi: ricordo un curioso “car*” rivolto a una donna, al singolare).
    Però dobbiamo anche dirci che il rapporto tra parole e cose, lingua e referenza, è una cosa complicata, mai lineare e diretta e che cambiando le parole non si cambiano le cose (si cambia la percezione delle cose, questo sì, e ha una sua importanza: ecco perché dico sì a sindaca ecc… ma senza imposizioni).
    Se sento “direttore d’orchestra” penso immediatamente a un uomo, e non perché non sia diffuso il femminile del nome; se sento “insegnante” ho un’esitazione, penso subito a me stesso, a due professori (uomini) che mi hanno segnato, ma poi concludo “potrebbe essere più probabilmente una donna”; se sento “sono stato da un bravo medico o avvocato”, siccome ho avuto parecchie esperienze con medici sia uomo che donna e ho una cara amica che fa l’avvocato (o l’avvocatessa) io penso a una figura ancipite, forse uomo forse donna. Provate a fare l’esperimento mentale da voi.
    Anche in questo caso, morale: le parole non hanno solo una referenza semantica stretta, hanno confini aperti e sfrangiati e sono fondate sull’esperienza del mondo.

    (Sottinteso del mio commento: ci sono molte altri aspetti della questione femminile, oltre a quello linguistico, l’unico su cui mi sia espresso, e ciascuno di essi richiede di essere considerato partitamente).

    Saluti

  42. @ FF vs PP

    Per quanto riguarda Jeeg Robot ecc., sono d’accordo con quanto hai scritto.
    Tuttavia penso che il discorso di Barbara Carnevali, più generale, sulla letteratura e sul suo cambiamento in risposta a quello del pubblico colga nel segno più di quanto questo stesso post non faccia. Sono molto d’accordo, e ringrazio per questo commento, che arricchisce il dialogo.

    I rischi che vedo sono due (ormai ci sono e li scrivo qui, ma possiamo anche riprendere la questione in privato):

    – il primo è quello del quale parlate sia tu sia FF, ovvero “ difendere cattiva letteratura edificante al posto di buona letteratura disturbante, e pensare che lo scandalo della disuguaglianza si risolva con la dittatura delle quote nei manuali, che invece di plasmare la sensibilità e il gusto attraverso la critica, nel senso più alto di queste parole, e di aspettare che individui diversi producano grandi opere che difendono visioni del mondo diverse, cerca di spacciare roba mediocre già scritta per letteratura degna di essere antologizzata.” Da questo punto di vista, penso che l’università contribuisca a sclerotizzare il discorso e a scrivere di cose mediocri (soprattutto in ambito novecentesco o ipercontemporaneo), purché infarcite con poche parole d’ordine teoriche a fare da sostrato. Fra queste, la rappresentazione femminile del mondo.

    – Il secondo, più che un rischio, è un mio timore. Temo che continuare a rivendicare una diversa rappresentazione letteraria non solo del femminile, ma anche da parte di, rischi di appiattirla e di confermare il cliché per il quale solo gli uomini sono in grado di scrivere di cose serie e più generali. Provo a spiegarmi meglio. Ho l’impressione che proprio le persone e i luoghi (nel senso di istituzioni) più consapevoli dello scandalo della diseguaglianza e più impegnate a rimuoverlo o a evitarlo preventivamente, nello sforzo di dare una testimonianza della diseguaglianza stessa, incoraggino qualsiasi espressione estetica sia alternativa a quella maschile, considerata dominante, causando una bipartizione che a me sembra deterministica, e in fondo svantaggiosa per le donne.
    Mi riferisco, ad esempio, ai blog italiani che si professano femministi (softrevolution, abbattoimuri, in parte lavoroculturale). Quando leggo quel tipo di scrittura (intrinsecamente femminile) penso sempre che, se gli autori fossero uomini, non piacerebbe a nessuno. La trovo spesso vittimista, inconsistente. Penso lo stesso quando osservo il tipo di opere culturali, film e libri, che quei siti recensiscono e propongono: vale la pena di leggerli e guardarli, solo perché realizzati da donne coraggiose (è sempre così) o perché parlano di un mondo femminile? Indipendentemente da qualsiasi altro aspetto artistico? Se una visione del mondo solo maschile è limitata, perché una solo femminile, spesso incoraggiante buoni sentimenti e sensi di colpa, dovrebbe essere più interessante? Non sarebbe molto più efficace se una rappresentazione decentrata, come giustamente la definisci, perdesse il proprio carattere autoghetizzante, diventando solo una fra le possibili rappresentazioni del mondo?
    Ora, non ho bisogno di identificarmi con ciò che leggo (o guardo o ascolto) per apprezzare un’opera d’arte; ma non è detto che un libro in cui si parla di affetti, di vita quotidiana, di rapporti solidali tra donne, di senso del materno o di visceralità (attributo femminile per eccellenza nella vulgata critica, riproposto senza nessun pudore in una terribile antologia di poesia italiana femminile del 2012) debba interessarmi più, per dire, di un romanzo di Houellebecq, o di una qualsiasi altra opera nella quale i rapporti umani siano presentati in modo cinico, ma (per me) più autentico. Mi è stato spesso obiettato che mi interessano questi secondi aspetti, più dei primi, perché sono influenzata dagli sguardi dominanti maschili. Penso sia falso, e anzi trovo questa accusa sessista. Rivendico di potermi occupare delle stesse cose degli uomini, e in modo altrettanto serio.
    Analogamente, sono interessata a una rappresentazione dei rapporti umani e del desiderio erotico (e qui rispondo anche a FF) che molte femministe giudicano aggressiva o violenta: il fatto è che la natura umana lo è, e pochissime questioni serie sono risolvibili con giudizi assoluti. Non sto dicendo che mi piace guardare film in cui le donne vengono violentate o disprezzate (e soprattutto, eventualmente, non li guarderei per questo); ma l’anestetizzazione del desiderio o la censura della sua natura violenta mi sembrano ridicole. Non ho mai capito cosa ci guadagnino le donne, a mostrarsi sempre con un unico ruolo.
    Mi viene in mente il tuo esempio di Do the right thing. Quel film dà una rappresentazione cruda, ma complessa, delle discriminazioni razziali; buona parte dei prodotti culturali femministi che vedo danno, invece, una rappresentazione delle discriminazioni femminili a tinte nette, didascalica.

    Penso (spero) che tu capisca ciò che voglio dire, anche se forse sono considerazioni ingenue, o che ignorano opere d’arte e riflessioni più sofisticate di quelle che cito. Forse la mia visione dipende dal fatto che in Italia esistono pochi modelli del secondo tipo di rappresentazione del mondo, da parte di donne.

    La verità è anche che io vorrei che il sesso al quale appartengo non fosse l’unico aspetto che può determinare il mio sguardo. D’altronde, un problema simile riguarda non solo la rappresentazione letteraria del femminile, ma anche la prassi. Come ti ho già scritto in privato, a volte mi sembra che per il solo fatto di essere una donna io debba scegliere per forza una parte, un modo di essere in pubblico nel quale tratti caratteriali normali per gli uomini vengono percepiti in modo diverso (la determinazione diventa aggressività e non autorevolezza, ecc). Penso spesso che le battaglie femministe difendano ruoli che non sono mai i miei, banalmente, e che siano interessati a un tipo di femminilità monocorde, che sento molto distante. Ti ringrazio molto per essere intervenuta, perché è stato uno dei pochi interventi in grado di darmi un’impressione diversa, e perché mi hai dato molto da riflettere.

    Ancora in risposta a FF, mi fa piacere se tu non trovi inibenti le donne intelligenti, ambizione, decise; purtroppo temo che non siano in tanti a pensarla come te.

    Per quanto riguarda i discorsi sul valore simbolico dei nomi, infine, posso capire. Vivo in una città e in una regione in cui il valore simbolico è tutto. A volte mi chiedo cosa rimarrebbe della sua identità, tolte le lotte per i nomi di strade e piazze.

  43. Tenere un bias nel proprio lavoro critico mi pare importante ai fini del discorso letterario complessivo e probabilmente anche utile a fini di carriera / riconoscimento nel medio-lungo termine. Il problema sostanziale dell’inflazione dei titoli di studio molto alti, funzionali al sistema acchiappa fondi, e’ che si creano numerosissimi spunti di discorso che non portano a nulla perche’ non coagulano in massa critica sufficiente a generare trazione. Si rimane sostanzialmente dilettanti, magari di ottimo livello, ma fermi, e intanto gli anni passano. Intrupparsi nei discorsi di moda, invece, porta lavoro e quindi confronto dal di dentro col peso delle cose: scadenze, gestione dei rapporti e delle influenze, incombenze. Per un uomo e’ molto piu’ facile rimanere isolato venti, trenta, cinquant’anni e tuttavia coltivare una propria visione, magari nevrotica o paranoica. Per una donna, non so: le donne intelligenti ma non realizzate non inibiscono i maschietti, sono semplicemente intrattabili e quindi finiscono a collezionare gatti e chincaglierie.

  44. @ Buffagni

    Lutero a Erasmo: “Intendete forse insegnare la verità in modo tale che il papa non sollevi obiezioni, che Cesare non si adiri, che vescovi e principi non siano turbati e che, inoltre, nel mondo non si verifichino tumulti e turbolenze, per evitare di offendere chicchessia e peggiorare le cose?” (non lo so – tratto da Rising up rising down di Vollmann)

    “nella storia sono importanti tre cose: innanzitutto il numero, in secondo luogo il numero e, per finire, il numero. Ciò significa che i neri che vivono in Sudafrica finiranno certo per averla vinta, mentre è probabile che i neri nordamericani non riusciranno a venire a capo di niente. Ciò vuol dire anche che la storia non è una scienza morale; i diritti umani, la compassione, la stessa giustizia sono tutte nozioni estranee alla storia” (va bene, ma nel frattempo? Rémy – Il declino dell’impero americano)

    @ CC e BC

    coincidenze

    “Di nuovo, è in Spike Lee che possiamo trovare la più lucida rappresentazione di questa condizione paradossale. Un anno dopo il dibattito sul canone letterario lanciato a Stanford dalla Black Student Union, “Fa’ la cosa giusta” ci mostra il personaggio (nero) di Buggin’ Out protestare perché sui muri della pizzeria (italiana) di Sal non ci sono ritratti di afroamericani ma solo di mangiaspaghetti come Sinatra e De Niro”

    https://it-it.facebook.com/eschatonit/posts/1293975140625696:0

    e

    https://abbattoimuri.wordpress.com/2014/04/02/il-sesso-sporco-delle-donne-che-non-piace-alle-femministe-moraliste/

    @ Lo Vetere

    un * è per sempre :)

  45. Ero entusiasta di questo sito, ma da un po’ di tempo comincio a leggere articoli politici, letterari e sociologici del tutto retrogradi. Ci sono tante cose da dire sul femminismo (quasi un secolo di lotte) che si dovrebbero esaminare tante contraddizioni e errori con un metodo dialettico e non neoliberista. Ma la deriva è questa , il neoliberismo, il pensiero unico e, ,in questo caso, le donne al tempo del capitale finanziario.
    Perciò sento il dovere di ripoiratere la recensione di un libro di minimum fax, che analizza tutto il movimento, i temi e i problemi di società post-patriarcali o patriarcali.zullo,

    Spero di non leggere più articoli del genere, quando anche un giornalista come Cazzullo, con entusiasmo ,anche se con superficialità, scrive ?Le donne erediteranno la terra.
    Ecco l’articolo di Noi donne, che riporto per intero, scusatemi.

    Femminismo vuol dire libertà. La recensione di Isabella Peretti

    ‘Libere tutte. Dall’aborto al velo. Donne del nuovo millennio’ il libro di Cecilia D’Elia e Giorgia Serughetti (ed Minimum Fax)

    inserito da Redazione
    http://www.noidonne.org/files/articoli_rete/m/08234.jpg‘Libere tutte’ si dice con voce forte quando si gioca a nascondino e chi riesce a correre prima ‘di chi sta sotto’ e a ‘fare: tana libera tutti’ libera chi ancora stava nascosta/o. Ma la libertà ogni donna e le donne insieme se la devono sempre conquistare, non c’è nessuno che può far ‘tana’ al posto loro. Libere tutte: ha un bel titolo il libro – edito da minimum fax – di Cecilia D’Elia e Giorgia Serughetti, evocativo, giocoso, e al contempo impegnativo: “Dall’aborto al velo. Donne del nuovo millennio”, recita infatti il sottotitolo.

    La libertà delle donne è difficile e faticosa, ha nuovi nemici, si è prestata e si presta a un uso distorto:
    Dopo i decenni della liberazione sessuale, della critica all’autoritarismo e al patriarcato, della conquista di nuovi diritti la rivoluzione conservatrice traduce le domande di libertà che si erano espresse in quegli anni in una nuova ideologia del mercato” (pp.7-8).
    Siamo negli anni ’80, regnano le tv commerciali e Berlusconi, le ideologie individualistiche e neoliberiste.
    La libertà neoliberale si afferma esattamente in questa capacità di valorizzazione di sé, che si traduce nell’essere perennemente dediti alla produzione, al consumo, al godimento e alla competizione con gli altri (p.9). «Diversamente dai regimi autoritari, il neoliberalismo governa non contro, ma attraverso la libertà: non la sopprime né la reprime ma la usa, la incrementa e la consuma, nella forma dell’autoaffermazione individuale che convalida e rilancia il dispositivo che la produce» : quest’ultima è la voce di Ida Dominijanni, Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi,2014, p. 47).
    Ma in cosa consiste questa libertà delle donne alternativa all’individualismo liberale? La risposta è ancora una volta difficile, ma qui si gioca tutto il senso del femminismo oggi: “ il conflitto tra i sessi si gioca prevalentemente non più sul terreno dell’oppressione ma su quello della libertà” (Dominijanni, 2014, p. 206).
    “Il quadro è appunto, sostengono le autrici, quello di un conflitto aperto sul senso della libertà, i cui esiti non sono scontati” (p.12).
    E questo senso della libertà il femminismo lo costruisce e lo decostruisce sempre, è un’opera continua di costruzione del sé di ogni donna, è stata ed è un’opera collettiva delle donne nella storia del mondo. E allora si possono leggere i percorsi e le riflessioni di Giorgia e Cecilia anche immedesimandosi dal punto di vista personale, per chi questi percorsi e queste riflessioni li ha attraversati, li ha vissuti, insieme alle altre. Perché il femminismo sono le nostre vite, le nostre opere (Carla Lonzi). Ed emergono i ricordi.
    «Il patriarcato è finito, non ha più il credito femminile ed è finito. È durato quanto la sua capacità di significare qualcosa per la mente femminile. Adesso che l’ha perduta, ci accorgiamo che senza non può durare” scrivevano le autrici della Libreria di Milano nel Sottosopra rosso del 1996, citate come un momento di dibattito importante nel femminismo da Giorgia e Cecilia. E qui subito un ricordo flash: quante discussioni intorno a questa frase, che ancor’oggi sottoscrivo, tra chi la condivideva, la sentiva sua, e chi ci ricordava i delitti che ancora il patriarcato continuava ad infliggerci. Ed allora a dire: sì,ma sono colpi di coda, reazioni alla nostra libertà, terribili e violente, ma ormai il segno nella storia l’abbiamo impresso.
    “Le nuove frontiere del diritto”( 1988),”Diritto sessuato?” (1993), “La legge e il corpo” (1996), erano i titoli di Democrazia e diritto, alla cui redazione collaboravo, ed erano volumi “emozionanti” , anche se l’aggettivo non sembra appropriato, emozionanti perché affrontavamo con coraggio e spirito d’avanguardia tutti temi più complessi in termini nuovi, dall’eutanasia, alle nuove tecnologie riproduttive, alla gestazione per altri, dalla violenza sessuale all’aborto, dal diritto leggero ai limiti del diritto, tutti temi che oggi riprendono Cecilia e Giorgia, con lo stesso rispetto della loro complessità, e come allora, con lo stesso coraggio della chiarezza.
    Nell’affrontare le questioni spinose che trattiamo in questo libro, noi vorremmo mantenere aperto uno spazio di riflessione libera tra questi due estremi. Non crediamo né al mito neoliberale dell’individuo proprietario di sé, né alla prescrizione paternalista di qualche bene superiore per le donne. Potremmo anzi dire che tra il paternalismo dello Stato e il laissez-faire del mercato c’è di mezzo la libertà delle donne” (p.29)… Ma l’agire autonomo non è mai astratto o separato, ma sempre incarnato e sessuato, intersoggettivo… Quel che ci interessa, a partire da questa visione, è dare conto di condizionamenti, limitazioni e vincoli, ma insieme difendere la capacità delle singole donne di compiere scelte libere e responsabili per le loro vite (p.31). La legge deve consentire che vengano prese decisioni responsabili, senza mettere sotto tutela la competenza delle donne su se stesse e sul proprio corpo (p.42).
    Questo l’approdo teorico e politico delle autrici, che in tante condividiamo, frutto di ricerche, discussioni, elaborazioni, che in tante fin dagli anni 70 abbiamo costruito, perché il femminismo è questo, un’opera individuale e collettiva in costruzione.
    Questo approdo diviene per le autrici la bussola per affrontare le singole tematiche così espresse nell’indice del libro: Essere e non essere madri, Aspettando la cicogna, E vissero felici e contenti Per piacere, per amore, per denaro,. Bikini, burkini e scontri di civiltà.
    Senza entrare nel merito di tutte queste questioni, continuo con alcuni ricordi e riflessioni personali, che incrociano i percorsi di Cecilia e Giorgia, perché, come dicevo, questo libro si presta per chi lo legge a chiedersi: io c’ero, io allora dove stavo?, cosa pensavo su questo tema?, con chi condividevo pensieri e pratiche?. E’ così che un libro diventa nostro.
    Aborto
    Ma perché è così difficile accettare questa competenza delle donne su se stesse e sulla gravidanza? Perché l’aborto è il campo di una contesa sempre aperta? Cos’è che inquieta tanto nella possibilità delle donne di decidere se portare avanti una gravidanza? Certo ci sono convincimenti etici e religiosi, che vanno rispettati, ma tenuti distinti dalla legislazione di uno Stato laico…Ma com’è possibile pensare che il processo che porterà a una nuova vita debba compiersi nel corpo di una donna anche contro la sua volontà e il suo desiderio? Che non si affidi a lei e alla sua coscienza libera e responsabile la decisione, che non sia la sua «la prima parola e l’ultima»? Quanto è fragile il cambiamento realizzato nei quarant’anni alle nostre spalle? (pp.49-50).
    Hanno ragione le due autrici: quanto è fragile il cambiamento, basti pensare alla diffusione distorta dell’obiezione di coscienza, ben documentata nel libro, intesa non solo come problema “di organizzazione del servizio e di reclutamento del personale, ma della cultura che esprime il servizio sanitario nei confronti delle donne” (p.59). Ancora e forse più di ieri è diffuso “lo stigma che avvolge il fenomeno abortivo, come conseguenza di un giudizio morale negativo che dall’aborto in sé si trasferisce, forse inconsapevolmente, sulla donna che vi ricorre e sul medico che lo pratica» , è la voce di Livia Turco, Per non tornare al buio. Dialoghi sull’aborto (2016, p.41) citata dalle autrici.
    Ma quella dell’aborto è stata e sarà sempre una storia tormentata. Ricordo all’inizio della discussione legislativa quando la prima proposta del PCI prevedeva che a giudicare la possibilità di una donna di abortire fosse una commissione di esperti e di medici cui la donna doveva sottoporsi!! Ci fu una rivolta delle donne del Pci, che segnò un cambio di rotta verso l’autodeterminazione. Ma ancora, a legge approvata, giudizi contrastanti su quello che autorevoli femministe definirono un cattivo compromesso.
    Quello che viene riconosciuto nella 194 è il diritto alla propria salute psicofisica. Principio in equilibrio con quello della tutela di chi persona deve ancora diventare. Secondo l’articolo 4 la donna deve accusare «circostante per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito» (p.58).
    Non proprio un riconoscimento dell’autodeterminazione! Tant’è che la 194 ha funzionato malgrado il suo testo, si è detto in questi anni. Meglio allora solo la depenalizzazione, come si sostenne da diversi fronti negli anni 70 e poi negli anni 90, meglio semplicemente cancellare la parola aborto dal Codice penale (vedi la ricostruzione di tutte le diverse posizioni nelle pagine 55-61).
    Liberazione sessuale
    Una generazione visse davvero quella “congiuntura Sessantotto-femminismo” di cui parlano le autrici, contrapponendosi a chi oggi la mette sotto accusa (p.134 sgg). Per me e per la mia generazione il ‘68 fu scoperta del mondo, alternativa di vita, liberazione sessuale; il femminismo per me non fu rivolta delle oppresse, ma riconoscimento e approfondimento di quella libertà. Qualche anno dopo, nel referendum sul divorzio del 1974 si espresse poi un femminismo diffuso, fu un emergere nello spazio pubblico delle nuove soggettività delle donne. Il ‘68 provocò un’onda lunga e benefica che percorse tutti gli anni 70, nonostante il terrorismo; in quell’onda si svilupparono movimenti e soggetti in tutti gli ambiti, dalle carceri ai manicomi, dalla scuola all’ambiente. “Militanza senza appartenenza” fu un volumetto che pubblicammo su questi nuovi movimenti al Crs, un luogo particolare di ricerca e confronto. Particolare anche per il femminismo, che qui trovò una sede feconda di elaborazione e discussione animata da Maria Luisa Boccia, che si riflesse nella rivista Democrazia e diritto, nei materiali quali “Il genere della rappresentanza” e “Voce e silenzio”.
    La legge 40
    La legge sulla procreazione medicalmente assistita, la n. 40 del 2004, è figlia di un dibattito che, negli anni Novanta e all’inizio del nuovo millennio, si è avvitato attorno alla presunta emergenza di quello che veniva definito «Far West procreativo» (p.80).
    Ricordo bene quanto scandalistica fu quella campagna di stampa sul Far west procreativo, mamme-nonne, mamme in affitto, mamme irresponsabili e egoiste, mamme contronatura, ecc., che documentammo nel convegno “Il potere di generare – Il limite della legge – Ordine e norme per le tecnologie di riproduzione assistita (maggio 1995) in cui emersero tutti i temi che oggi riprendono Cecilia e Giorgia, e che furono e sono oggetto di una approfondita letteratura femminista in materia.
    L’eclissi della madre, come l’hanno definita Maria Luisa Boccia e Grazia Zuffa (1998), fa perdere la bussola che dà senso al viaggio del venire al mondo. Oscura i corpi pensanti, contrappone embrione e donna, come nella grammatica dei diritti soggettivi. Nella tensione a ristabilire un ordine di fronte alla frantumazione dei processi riproduttivi che le tecnologie consentono,si fa fuori proprio la soggettività e il corpo vivente protagonista della nascita. Il corpo femminile è ridotto alla sola funzione biologica di garantire lo sviluppo dell’embrione. La legge 40 era una legge manifesto, che chiaramente intendeva mettere in discussione anche la 194, e nel 2005 fu sottoposta a referendum popolare. .. La campagna referendaria fu un’occasione sprecata di alfabetizzazione ed elaborazione di uno sguardo condiviso, un discorso pubblico competente (p.82).
    E qui di nuovo un ricordo collettivo delle trasmissioni televisive durante la campagna referendaria: mai fu invitata una donna che partisse da sé, dalla riflessione su di sé in rapporto alle problematiche della riproduzione assistita; mai fu invitata una femminista esperta e competente. Sempre uomini a parlare di biologia, di tecniche, di morale, di religione, in modo ideologico e astratto, come se non riguardassero soggettività incarnate, corpi generanti, vite reali.
    Gestazione per altri
    A differenza della procreazione assistita, la Gpa non è una tecnica, ma una relazione tra più soggetti, tra una donna disposta a portare avanti una gravidanza e una coppia – eterosessuale
    o omosessuale – o una singola single, che desidera avere un figlio. In questa relazione sono spesso coinvolti anche donatori e donatrici di gameti. Inoltre, nei paesi in cui la pratica è legale e i contratti di surrogazione di maternità sono riconosciuti, sono spesso attive agenzie di intermediazione che facilitano l’incontro e l’accordo tra le donne che si offrono come «portatrici» e i «genitori intenzionali». Ci troviamo nel bel mezzo di una crisi delle categorie tradizionali di lettura della realtà. Il punto principale di difficoltà è la moltiplicazione delle figure che concorrono all’evento procreativo: madri surrogate, madri donatrici (ovodonatrici), madri intenzionali, madri biologiche, madri giuridiche, che vedono un quasi corrispondente numero di padri (p.85-86).
    Senza semplificare questa problematica, le autrici danno conto delle profonde divisioni se non lacerazioni in seno al femminismo, fino alla proposta di alcune associazioni e singole donne di un divieto universale perché si esproprierebbero le donne dei loro corpi – presi “ in affitto” – e dei loro figli , “sotto pressioni multiple: i rapporti di dominazione, familiari, sessisti, economici, geopolitici» (dalla Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata).
    “Ma è possibile”, si chiedono le autrici, “che una donna si dia liberamente disponibile a portare avanti una gestazione per altri, o non lo è? E se lo -è, di che tipo di libertà si tratta?”(p.91). E così rispondono:
    il fatto che le donne nel business della Gpa possano essere oggetto di abusi non dovrebbe essere una ragione sufficiente per introdurre un divieto generalizzato di realizzarla in qualsiasi forma… In molti interventi critici sulla surrogacy, la parte da attribuire allo sfruttamento è invece presa per il tutto, così da negare che possa esserci autonomia e consapevolezza nella scelta di chi decide di portare avanti la gravidanza per qualcun altro (p.94).
    Condannare tout court questa pratica come asservimento della capacità riproduttiva delle donne non tiene conto delle volontà singole, del limite che ognuna, se non è costretta da altri ed esercita pienamente la sua autodeterminazione, può e sa responsabilmente individuare per se stessa nell’uso del proprio corpo (p.97).
    Condivido pienamente, ma a di là di questo quello che vorrei sottolineare ancora è quanto il femminismo sia composto di soggettività vive e ricche, pur se in alcuni casi contrapposte, ma in nessun altro movimento il dibattito è così vissuto e sofferto. In pochi mesi molti documenti, libri, ricerche sull’argomento; da ultimo vorrei citare Mamma non mamma, a cura del gruppo del mercoledì, supplemento al numero 123/2017 di Legendaria.
    Altri temi da sempre laceranti nel femminismo trattati in questo volume: la prostituzione, emblema del potere patriarcale per alcune, per altre è giusto invece il riconoscimento della soggettività di chi si prostituisce e la decriminalizzazione delle forme di scambio consensuale di sesso per denaro. Ma il capitolo che tratta questo tema è molto ampio: dalla legge Merlin alle posizioni del Comitato delle prostitute e di Roberta Tatafiore; alla pervasività del rapporto sesso-denaro nei rapporti tra i sessi, nei media, nella pubblicità, nella politica. Anche qui, quante discussioni appassionate, quante divisioni sofferte!
    Il violento ha le chiavi di casa
    ‘La violenza non è amore’, è il titolo di un progetto della Polizia di Stato rivolto ai ragazzi e alle ragazze delle scuole superiori…Se è giusto distinguere tra amore e violenza, educare a questa distinzione, è altrettanto importante sapere che veniamo da una storia che ha reso possibile quel legame. Una storia in cui la violenza maschile contro le donne non era riconosciuta e nominata come tale. E torniamo sempre lì, alla seconda metà del secolo scorso, allo scompiglio portato nel mondo dal femminismo della seconda ondata. Non si può non partire da questo, dalla soggettività femminile che nasce e cambia tutto, compresa la vita degli uomini. Ma un cambiamento così grande non è un battito di ciglia … La violenza contro le donne, la sua natura culturale e strutturale, evidenzia nella sua drammaticità la questione maschile (pp.127-129).

    Anche su questo tema un capitolo molto documentato sia rispetto alle dimensioni e alle forme del fenomeno della violenza maschile contro le donne, sia rispetto all’iter legislativo: quasi mezzo secolo di discussioni, di proposte di associazioni e di parlamentari. Dalle firme in calce a una proposta di legge di iniziativa popolare per lo spostamento nel codice penale della collocazione del reato di violenza sessuale dal capitolo dei reati contro “la moralità pubblica e il buon costume”, al capitolo dei “delitti contro la persona”; alla legge del 1996, alla Convenzione di Istanbul e ai successivi testi normativi; dal superamento dell’istinto di vendetta – che comporta la logica dell’inasprimento delle pene – alla libertà di elaborazione e personale dell’offesa subita da parte della vittima ( da qui la questione se inscrivere nella legge la procedibilità d’ufficio o la querela di parte), alle tutele durante il processo (cfr. da ultimo: Ilaria Boiano, Femminismo e processo penale): tutte questioni affrontate ma ancora aperte.
    Nel capitolo si parla anche del difficile lavoro dei Centri antiviolenza:
    Dunque il lavoro delle operatrici è sostenere la donna per liberarla da una dipendenza affettiva insana, lavorare sulla relazione, attente a non far scattare la colpevolizzazione della donna, giudicata incapace di scappare da una simile situazione di violenza. (pp.127-128)
    E della nuova, anche se ancora molto ristretta, coscienza maschile.
    L’indipendenza del soggetto maschile, che ne fonda la presunta superiorità rispetto al femminile, è considerata nella nostra cultura una caratteristica positiva, ma la rimozione di ogni debolezza e dipendenza è anche un’amputazione, una distanza rispetto al proprio stesso corpo, che genera varie forme di sofferenza, precludendo la possibilità di relazioni libere, tra uomini e tra uomini e donne (Ciccone, Essere maschi,2009). In particolare, l’incapacità di elaborare il distacco o l’abbandono da parte di una moglie o una fidanzata, di fare i conti con la propria dipendenza, è per molti uomini fonte di tale frustrazione e senso di impotenza da generare, appunto, violenza.
    Intanto continuano e si intensificano le violenze contro le donne, gli stupri, i femminicidi.
    “Femminismo e razzismo non dovrebbero essere mai compatibili” (p.197)
    E’ un’affermazione forte, che condivido in pieno, un’altra bussola che il libro ci offre verso chi, anche nel femminismo, in nome dei valori occidentali vorrebbe ‘salvare’ le donne musulmane dall’oppressione, anche attraverso norme contro la loro libertà.
    Serve invece riconoscere l’agency (sostiene Renata Pepicelli, Il velo nell’Islam, 2012), la capacità delle donne di agire a partire dai propri desideri e bisogni, pur all’interno dei condizionamenti della cultura e della società in cui ognuna si trova a vivere.
    Per evitare quel “relativismo pigro che finisce per sfociare nell’indifferenza e per giustificare violazioni dei diritti umani delle donne” (p.191) nel femminismo più che un confronto tra culture abbiamo promosso l’incontro tra soggetti, in particolare con le donne immigrate in Italia, per relativizzare le nostre stesse culture e rifuggire da identità stereotipate che impediscono il confronto.
    Le donne che figurano come «altre», perché musulmane e velate, si trovano spesso schiacciate fra due sistemi patriarcali che pretendono di usarle ognuno a proprio piacimento: da un lato, il fondamentalismo islamico che vuole condannarle a una posizione subalterna al maschile, dall’altro un Occidente che le compatisce come povere vittime e ne fa strumenti di una battaglia contro lo straniero.196
    Ricordo le prime manifestazioni “Non in nostro nome” (24 novembre 2008) quando si volle con l’omicidio di Giovanna Reggiani perseguire con il decreto sicurezza una presunta emergenza criminale rumena e rom, etnicizzare il crimine, come se il mostro fosse solo fuori di noi. E ricordo, tantopiù, la manifestazione più difficile, quella dopo i fatti di Colonia: “ mentre sui media italiani tanti osservatori accusavano le femministe di tacere colpevolmente sulle violenze, queste in realtà erano già in piazza, contro il sessismo e contro il razzismo» come recitava uno dei tanti cartelli alzati durante le manifestazioni” (pp.197-198).
    Il femminismo e la storia
    Ho riattraversato questo libro e ogni femminista lo potrebbe fare perché le vicende narrate riguardano tutte noi. Ma non parla solo al femminismo, anzi il femminismo, nelle sue diverse posizioni, lo fa parlare, perché la sua voce può raggiungere anche altri ambienti, altre donne, altri uomini. La ricostruzione delle vicende delle donne in Occidente, e in Italia in particolare, delle loro riflessioni politiche, delle loro pratiche, delle loro lotte, fa parte infatti della storia, della storia di tutte e tutti. E la storia, dunque, si potrebbe scriverla così come la scrivono le storiche femministe e le autrici stesse di questo libro:
    È solo nella seconda metà del 1700 che si afferma l’idea della responsabilità genitoriale.
    Cambia così il ruolo della madre e la sua importanza, ma nasce anche il mito dell’istinto materno, e per le donne questo diventa un dovere e un destino, dall’alto valore civile e sociale, per tutto l’Ottocento e gran parte del Novecento. Sono del resto anche i secoli in cui si sviluppa l’interesse delle nazioni per la crescita demografica della popolazione. Moralisti, uomini di Stato e di Chiesa «prometteranno meraviglie alle madri perché assolvano le loro funzioni: “Siate buone madri e sarete felici e rispettate. Rendetevi indispensabili alla famiglia e otterrete diritto alla cittadinanza”» (Badinter, L’amore in più, 2012, p. 155). La cittadinanza delle donne è stata quindi legata, per secoli, alla loro funzione di madri. E le donne che non potevano o volevano essere madri? E le madri che non acconsentivano a dedicarsi solo e interamente ai figli? Naturalmente, hanno subito la condanna morale e il disprezzo sociale dei loro contemporanei (p.51).
    Cittadine in quanto madri
    Fu proprio nei periodi delle grandi rivoluzioni borghesi dell’epoca moderna e contemporanea, delle nuove –seppur parziali- aperture alle istanze democratiche, che si verificò l’emarginazione delle donne. Nel passaggio dall’Ancien Régime agli Stati moderni, infatti, le sfere del mercato e della politica furono separate dalla sfera privata e familiare. Ciò determinò ancora una volta l’esclusione delle donne, in ragione della loro appartenenza alla sfera domestica, dalla politica e dalla cittadinanza. Pur se tempestive nel richiedere l’uguaglianza tra i sessi, furono escluse dalle nuove libertà e dai nuovi diritti. La loro esclusione dai diritti politici deve essere vista non come semplice omissione, ma come momento obbligato nell’edificazione della società contemporanea in cui, se la sfera pubblica si ridefinisce nel passaggio da sudditi a cittadini, la sfera privata si struttura facendo perno su una nuova figura di donna: moglie e madre garante dell’ordine domestico e familiare. L’amore coniugale e l’amore materno diventano tratti considerati costitutivi della ‘ natura femminile’ e, quindi, dell’identità individuale e sociale delle donne. ‘L’enfasi sulla sfera familiare come luogo della cura diviene essenziale alla definizione della sfera pubblica come luogo di potere’ ( cfr.Annarita Buttafuoco, Questioni di cittadinanza,1977, pp.11-15. Ma vedi anche le citazioni di Annarita Buttafuoco del libro di Gabriella Bonacchi e Angela Groppi, Il dilemma della cittadinanza, 1993,)
    Se lo Stato concesse alle donne prima dei diritti civili e politici, i diritti sociali, fu per diverse ragioni: a) perché attribuì al “genere femminile” diritti sociali specifici, riferiti non tanto alle donne come persone, ma alla loro funzione materna. E fu il movimento stesso delle donne – d’altra parte – costretto a dover trascendere l’identità femminile per partecipare ad una cittadinanza neutra, a riaffermare questa stessa identità, fondandola sul materno, a chiedere questi diritti specifici, queste tutele, a ritenerle prioritarie. ‘Ma la costruzione del femminile come specificità della cittadinanza ha avuto l’ effetto di ribadire la posizione secondaria delle donne nella sfera pubblica’ (Maria Luisa Boccia, La differenza politica, 2002); b) perché la concessione dei diritti civili e politici avrebbe sovvertito l’ordine familiare; c) perché la riproduzione non deve corrispondere all’autonomia femminile, ma deve rientrare nell’ambito dei poteri legislativi dello stato, deve essere sottomessa al potere normativo delle scienze e della medicina.
    In Italia il risultato fu “lo squilibrio tra i diritti pubblici e privati delle donne nel testo costituzionale” come sostengono le autrici, citando Anna Rossi Doria (p. 110), e un grande ritardo nell’ottenere i diritti civili, come le autrici stesse documentano nelle loro pagine.
    “In Italia bisognerà aspettare gli anni Settanta per ottenere le leggi che invereranno gli importanti principi egualitari che le nostre madri costituenti erano riuscite a scrivere nel testo costituzionale” (p.111): dal divorzio (1970) al diritto di famiglia (1975),alle unioni civili (2016!) mentre la possibilità del cognome materno – siamo nel 2017!- non è ancora legge e giace al Senato.
    Questa recensione è stata già pubblicata dal sito del Crs (Centro riforma dello Stato
    Badinter Élisabeth, L’amore in più, Fandango, Roma 2012.
    Boccia Maria Luisa e Zuffa Grazia, L’eclissi della madre, Pratiche, Parma 1998.
    Boccia Maria Luisa, La differenza politica. Donne e cittadinanza, il Saggiatore, Milano 2002.
    Boiano Ilaria, Femminismo e processo penale. Come può cambiare il discorso giuridico sulla violenza maschile contro le donne, Ediesse, Roma, 2015.
    Buttafuoco Annarita, Questioni di cittadinanza. Donne e diritti sociali nell’Italia liberale, Protagon Editori Toscani, 1997.
    Ciccone Stefano, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg& Sellier, Torino 2009.
    Dominijanni Ida, Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, Ediesse,Roma, 2014,
    Pepicelli Renata, Il velo nell’Islam. Storia, politica, estetica, Carocci, Roma, 2012
    Rossi-Doria Anna, Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Viella, Roma, 2007.
    Turco Livia, Per non tornare al buio. Dialoghi sull’aborto, Ediesse, Roma,2016
    | 07 Agosto 2017

    Gloria Gaetano Il l

    ibro affronta tutti i temi e problemi della società post-patriarcale, analizzando ancne le contraddizioni del movimento che data quasi un secolo, o, se vogliamo risalire ancora più indietro, dalle scrittrici dell’800 , quando le donne scrittrici artiste dovevano nascondere le loro pagine alla famiglia, al loro ambiente sociale, quando si davano ddizioni e gli errori del movimento, che data quasi un secolo, o, se vogliamo risalire ancora più indietro, dalle scrittrici dell’800 , quando le donne scrittrici artiste dovevano nascondere i loro

    scritti. Ma la coscienza del movimenta inizia con le suffragette, fino ai giorni. Non è questione del velo o del bikini, . Noi occidentali abbiamo problemi ben più gravi col neoliberismo e la vendita del corpo. E’ un’ideologia che domina che s’insinua, che ci fa sempre disprezzare il nostro corpo se non risponde ai canoni del capitalismo finanziario, o, se, in un modo o in un altro, non si mette in vendita.. E’ quetso un libro dotato di una sottile dialettica, che non tralascia alcun aspetto della storia delle donne…

  46. L ” Italia è un paese femminista e matriarcale con annessa misandria femminile spesso delirante e criminale molto diffusa ovunque e dovunque !
    La delirante e spesso propaganda schifosa femminista dipinge l ” Italia come fosse un paese maschilista dove le donne sono sottomesse per legge e per cultura della società italiana agli uomini !
    Addirittura ci sono donne femministe squilibrate e sceme afflitte da delirante misandria che si inventano di sana pianta che ci sono dei tribunali italiani maschilisti !
    Questa è pura follia femminista !
    La realtà è molto diversa ed è esattamente il contrario di quello che dice la propaganda femminista italiana e che dicono le donne femministe malate di mente poiché dal lontano 1970 l ” Italia a tutti gli effetti è un paese femminista matriarcale in maniera molto evidente dove l ” uomo italiano è sottomesso ovunque dalle donne perfino dalla legge penale .
    Una donna italiana se compie una violenza fisica ,psicologica o anche una violenza sessuale anche grave un stupro femminile a danno di un uomo che subisce pure danni irreversibili sessuali al suo apparato maschile nei tribunali sessisti femministi dove la misandria femminile è di casa è impossibile che la donna criminale gli sia inflitta la stessa pena che avrebbe un uomo imputato di identiche violenze !
    Ci sono le violenze maschili a danno del sesso femminile che devono essere sempre severamente punite anche se l ” imputato uomo è innocente oppure ha delle circostanze attenuanti per esempio l” uomo era stato molestato ,provocato ripetutamente dalla donna sua vittima !
    Nei tribunali italiani femministi da 50 anni un uomo non gode più di tali circostanze attenuanti !
    Queste sono considerate dalla società femminista matriarcale italiana non paritaria violenze di serie A .
    Poi ci sono le violenze femminili a danno degli uomini che dalla società femminista matriarcale da 50 anni sono considerate violenze femminili da serie C .
    Perciò a parità di reato penale commesso la donna criminale che ha usato violenza nei confronti di un uomo tutti i reati penali compiuti dalla donna vengono declassati per legge a piccoli reati di poco conto dai tribunali femministi italiani ed inoltre la donna imputata può sempre godere delle famose circostanze attenuanti ( se l ” uomo la ha provocata è logico che la donna abbia fatto questo reato o quel” altro reato penale a danno del ” uomo sua vittima ) .
    Questo è quello che accade in Italia da 50 anni paese sessista femminista matriarcale non paritario !

  47. “Chi ha problemi con il politicamente corretto è chi non è svantaggiato dal politicamente scorretto (o comunque non percepisce tale cosa).”
    Non ‘ assolutamente vero.
    Il politicamente corretto a tutti i costi ha una sfumatura ipocrita che sa molto piu’ di “pulirsi la coscienza” che di effettiva accettazione di una minoranza o diversita’ come tratti individuali ugualmente degni di esistere ed essere apprezzati.
    E in effetti, questo politicamente corretto e’ professato proprio da quelle persone che, in fin dei conti, si sentono migliori di coloro che difendono.
    Molto esplicativo e’ l’esempio in cui una persona riservi particolari attenzioni, ai limiti del pietismo, o non si senta libera di parlare apertamente e di non essere d’accordo con un’altra, solo perche’ l’altra appartiene ad una “categoria protetta” quale quella dei disabili o delle donne.
    Questo paradossalmente svantaggia molto di piu’ la categoria, aumentando l’idea che essa debba avere “un trattamento speciale” e “abbia bisogno di essere protetta” perche’, in fondo, inferiore. E spostando l’attenzione da dove invece dovrebbe essere: l’uguaglianza di diritti di un individuo.

  48. Alice, “E in effetti, questo politicamente corretto e’ professato proprio da quelle persone che, in fin dei conti, si sentono migliori di coloro che difendono.”
    Come dire, allora ‘questo politicamente scorretto è professato da quelle persone che, in fin dei conti, si sentono peggiori di coloro che attaccano’? Ne sei proprio sicura? Tipo che gli eterosessuali si sentono inferiori agli omosessuali, o i bianchi ai neri, o gli uomini alle donne? Hai delle prove empiriche che questo sia vero?

  49. Che il femminismo sia pervaso dal “double standard” (due pesi e due misure) è un dato di fatto. Basta vedere la pubblicazione del libro “IO ODIO GLI UOMINI”. Da uomo mi chiedo se sia possibile pubblicare un libro dal titolo “IO ODIO LE DONNE” con la stessa attenzione mediatica a favore e senza nessuna conseguenza penale e di carriera rovinata per lo scrittore.
    Invito le donne a stare attente alle conseguenze del continuo attacco mediatico sugli uomini bollati di avere una “Mascolinità Tossica” e del mal bashing (colpisci il maschio). Ciò che ottenete, come genere femminile, è l’esatto contrario, invece di inclusione, comprensione e dialogo state ottenendo prese di distanza e perdita di credibilità del femminismo come movimento che si batte per le pari opportunità. Oramai il genere maschile ha definitivamente bollato la parola femminismo come movimento misandrico , suprematista e, addirittura, criminale per propaganda di sterminio di massa di tutti i maschi della terra. Basta leggere cosa ha scritto una certa femminista, Sally Miller Gearhart, (anche di un certo peso e influenza) “Gli uomini devono essere ridotti e mantenuti ad una percentuale di circa il 10% della razza umana” — Sally Miller Gearhart – Docente e attivista Femminista della seconda ondata.
    Capite bene che con dichiarazioni del genere, che non sono un caso isolato, ce ne sono di molto peggio e in numero rilevante, il genere maschile non può che reagire nello stesso modo in cui reagirebbe una donna se un attivista importante del movimento per la difesa dei diritti maschili dicesse la stessa frase rivolta contro le donne.
    Una attenzione particolare vorrei rivolgere alla pericolosissima frase “Mascolinità Tossica”.
    La Mascolinità appartiene a tutti i maschi della terra, così come la femminilità appartiene a tutte le femmine della terra.
    La Mascolinità come la Femminilità sono rispettivamente l’anima del maschio e della femmina.
    Affermare tutti i santi giorni, 365 giorni all’anno su tutti i giornali, TV, riviste, spot pubblicitari, film al cinema, meeting, convegni, a Scuola, che esiste una mascolinità tossica è come affermare che tutti gli uomini della terra sono tossici.
    Equivale a dare una pugnalata all’anima del genere maschile e il sentimento che si prova a sentirsi dire una frase del genere, non è per niente piacevole, è una frase sessista, misandrica, razzista e generalista che nulla ha a che fare con una sana ed equilibrata visione delle cose, men che meno con l’obiettivo di un raggiungimento di parità di genere.
    Pensate poi a quali conseguenze porta nei ragazzi di 8-16 anni sentirsi bollati come persone tossiche che hanno nella loro anima mascolina il seme della tossicità.
    Io penso che sia più tossica, ma di gran lunga, la persona che vomita violenza e misandria tutti i santi giorni nel dire che esiste una “mascolinità tossica” e che riceverà, per forza di cose, sentimenti di presa di distanza e contrapposti al livello di denigrazione sparsa.
    Gli uomini hanno perso tutta la fiducia nei confronti del femminismo e, mi dispiace dirlo, verso molte donne, che non si oppongono con la giusta energia contro questo tipo di femminismo misandrico e criminale.
    Il risultato è che gli uomini si allontanano dalle Donne, non si sposano più, non vogliono più rapporti di medio e lungo termine e non vogliono figli. Solo rapporti occasionali per soddisfare le esigenze sessuali. La cosa paradossale è che il femminismo, con la liberazione sessuale, ha concesso agli uomini un Arem infinito e gratis (quasi). C’è da chiedersi se questo giova alla figura della donna, con il proprio corpo quasi nudo sempre più in mostra sui social. Nessuno costringe le ragazze e le donne a fare questo, lo fanno di loro spontanea volontà forse per cercare il genere maschile migliore sul mercato. Non so.
    Un approfondimento meritano poi le incredibili leggi sulla separazione dei congiunti.
    Colpa anche le leggi sul divorzio tutte a favore delle donne, ci ritroviamo quasi sempre con i figli alienati dai padri con false accuse che raggiungono percentuali dell’80% e studiate a tavolino per mettere i padri in difficoltà economica e psicologica.
    Il risultato è che oggi si suicidano circa 300 padri separati all’anno in Italia causa dell’alienazione dai loro figli, inoltre si suicidano circa 250 ragazzi di sesso maschile in età compresa tra i 12 e i 18 anni perchè alienati dai loro padri e perchè gli stiamo rubando il futuro e i media tutti i santi giorni, 365 giorno all’anno, gridano l’inutilità del genere maschile con il Mal Bashing, tra cui la pericolosissima frase “Mascolinità Tossica”.
    Mi dispiace dirlo, ma il femminismo misandrico, per me, è già macchiato del sangue dei padri e dei figli rovinati da questo attacco d’odio verso il genere maschile.
    La filosofia di vita MGTOW (Men Going Their Owen Way – che tradotto vuole dire Gli uomini se ne vanno per la loro strada) è oramai dirompente, gli uomini che hanno preso consapevolezza sono oramai milioni e milioni e infatti i risultati si vedono.
    In USA nel 2020 le nascite sono crollate di 4 punti, i matrimoni sono crollati del 34% . Le donne sole che non avranno maternità e figli hanno raggiunto percentuali ben oltre il 50% e sono in fortissimo aumento.
    Questo femminismo, trasformatosi nell’esatto opposto (anzi molto peggio) del maschilismo, un femminismo suprematista e criminale, ha portato alle conseguenza di una contrapposizione tra i due sessi che sta distruggendo le fondamenta della nostra società e i risultati già si vedono.
    Molti si pongono una domanda ancora più preoccupante: E’ forse una azione globalmente voluta dall’Establishient mondiale?
    Vogliono disgregare e distruggere la famiglia per indebolire l’individuo, renderlo un single permanente in modo da controllare meglio i consumatori?
    Ciò che è certo è che la reazione del genere maschile, solo ed esclusivamente per auto difesa e non per odio verso le donne, condannerà moltissime donne ad una vita senza famiglia, senza affetti e senza maternità. Il materialismo ha vinto.
    Era questo l’obiettivo della liberazione della Donna nella mente delle donne? Non credo.
    Lorenzo Casesa
    CEO
    World Trade Center
    Rimini San Marino

  50. A Lore’, se sia una mossa dell’establishment mondiale o no lo sai tu meglio di tutti gli altri, se fail il CEO del World Trade Center (a Rimini?). Per il resto: le femministe vogliono che gli uomini s’a passino male per i prossimi tremila anni, tanto per compensare. Ognuno infligge agli altri tutto quello che può. So’ cazzi!

  51. Caro “Er Patata”, ti ringrazio per l’enorme considerazione che mi hai dato, purtroppo devo deluderti, non sono così potente come credi.
    Il privilegio che ho e’ quello di avere accesso a molti dati sul “sociale” che mi permettono di vedere cosa accadrà nell’immediato futuro nella Società.
    La tua risposta non la commento, il contenuto è di livello troppo alto per me.

  52. Buongiorno Lorenzo, la mia risposta giunge in ritardo e probabilmente non è neppure necessaria , in quanto il tuo intervento non è neppure degno di un commento serio ma ci provo comunque.

    Non amo le etichette e tutti gli ismi, però, mio malgrado da adolescente (io sono nata nel 1969) ho dovuto per forza abbracciare il femminismo e usarlo come arma e scudo in una società in cui le donne, o meglio le femmine, contavano ancora molto poco e soprattutto non godevano della stessa libertà sessuale e di movimento sociale dei maschi.
    Il Femminismo è stato Necessario in un mondo costruito ad uso e consumo solo per la metà del genere umano, dove gli uomini spadroneggiavano e trattavano (trattano?) le donne come esseri decisamente inferiori. Personalmente non posso che provare gratitudine per tutte le donne che prima di me hanno lottato e portato avanti un pensiero certamente radicale ma che doveva spezzare degli schemi e un’ingiustizia pervasiva in ogni settore della vita sociale e intima. Sono grata a queste donne e mi addolora il prezzo che hanno dovuto pagare a livello personale perché credo che la loro radicalizzazione le abbia portate spesso ad una rinuncia della relazione col maschile e della famiglia. Molte di loro infatti hanno sacrificato (e sacrificano tutt’ora) la maternità e la famiglia per farsi strada in un mondo del lavoro, prettamente maschile, che non credeva nelle loro capacità.
    Ora per fortuna i tempi duri del femminismo che, come ogni ismo, applica certamente dei filtri vigorosi nella visione delle cose, sono passati ma, purtroppo c’è ancora tanto lavoro da svolgere.
    Ma questo lavoro lo dobbiamo compiere insieme, uomini e donne, per costruire una società più pacifica e giusta dove siano rispettate le differenze di genere e qualsiasi orientamento sessuale e dove Femminile e Maschile si compenetrino non solo a letto ma soprattutto ad altri livelli.
    Tra l’altro noi tutti al di là del genere biologico abbiamo caratteristiche femminili o maschili, il nostro DNA tra l’altro deriva da entrambi i generi. E certamente può esistere una “mascolinità tossica” così come può esistere una “femminilità tossica” di cui possono essere portatori sia uomini che donne. E forse è proprio l’estremismo di certe posizioni che produce questa tossicità. E alimentarla è molto pericoloso.
    Sì, io sono ancora femminista e sono ben fiera di esserlo, anch’io mi sento rappresentata da quel femminismo intersezionale e aperto di cui parla Marzia D’Amico. C’è stato un periodo nella mia vita in cui non sono stata femminista, ma ora mi sono resa conto che c’è ancora un enorme bisogno di un pensiero di questo tipo (e se ne ha bisogno la nostra società occidentale figuriamoci il resto del mondo). Ma vorrei che non fosse più necessario esserlo, significherebbe che vivo in una società più sana, inclusiva ed equilibrata, invece, purtroppo, c’è ancora bisogna di un’ottica femminista per rendere giustizia ai misfatti che ha prodotto e continua a produrre la storia.
    Lungi da me l’intento di produrre sofferenza al maschile, non vorrei mai infliggere al maschile ciò che il femminile ha dovuto subire nel corso di tre millenni, anzi voglio l’uomo compagno e alleato in questa battaglia. Ringrazio Carlo Antonicelli. Sarei infatti felice di vedere più uomini femministi e per fortuna ce ne sono, soprattutto fra i giovani. Questo sì è un ottimo segno di una mascolinità sana che non teme nulla da una società in cui i diritti e la libertà delle donne non siano lesi in alcun modo e in cui uomini e donne possano incontrarsi liberamente senza temere soprusi reciproci, facendo fruttare la loro mascolinità e femminilità sane in uno scambio prezioso.
    Daniela (Femminista- finché ce ne sarà bisogno)

  53. Sottoscrivo il commento di Lorenzo fino a prima della parte complottista. Negli ultimi anni ho visto il movimento femminista trasformare le donne in persone colme di risentimento e odio al punto che la gentilezza di tenere aperta la porta – cortesia che faccio anche agli uomini – è diventata un terribile affronto figlio del patriarkato. Abbiamo donne – di oggi – che credono di essere vittime di chissà quali soprusi, ma se gli si prova a spiegare che anche la vita dei maschi è dura non vogliono nemmeno ascoltare. Tenete conto che fino a qualche anno fa io stesso mi definivo femmisista, perché voglio vivere in una società dove il genere (o la razza) non abbiano nessuna rilevanza, il femminismo attuale mi pare invece l’estatto contrario, l’esaltazione del sessismo

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