di Lorenzo Marchese

[Col titolo Cosa significa tacere questo pezzo è uscito sul numero 11-12 della rivista “Il Ponte” (novembre-dicembre 2016), nella sezione Critica letteraria al tempo di internet, a cura di Luca Lenzini].

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In un dibattito sulla critica letteraria, le questioni sul tavolo (la critica è in crisi? Come esercitarla ed essere credibili? C’è qualche mandato? Qualcuno mi legge?) tornano ciclicamente e l’autoreferenzialità è quasi un dovere: ma più stretto è il giro dei bilanci, delle tavole rotonde, delle polemiche estive sulle pagine culturali, anno dopo anno più simili a un’eco dei dibattiti pregressi, progressivamente idealizzati e tenuti a irraggiungibile zuffa. Come darsi forza e trovare uno sviluppo, senza accondiscendere subito all’ipotesi, anche questa ritornante, che queste discussioni rivelino un fondo di inutilità? Ennio Flaiano scriveva, prima di un convegno su cinema e letteratura:

Non credevo alla crisi del cinema, comincio a crederci da qualche giorno: da quando hanno “indetto” un convegno sui rapporti tra Cinema e Letteratura. In genere, da noi – non rivelo un segreto – un convegno a cui partecipano i letterati è il segno della fine. Non saprei dire il perché: forse per la pigrizia che spinge i letterati a occuparsi delle questioni letterariamente. Un convegno sui rapporti tra i Buoi e la Letteratura si fa di solito quando i buoi sono scappati[1].

Col senno di poi, possiamo dire che Flaiano esagerava per virtù d’aforisma. La critica non accenna a finire, anche se di certo non ha più i tratti familiari che siamo soliti attribuirle pensando a una tradizione del Novecento ormai lontana. Prima di pronunciarsi, non sarebbe sbagliato rompere questo loop: guardare alla critica del passato ricordando a noi stessi cosa bisogna preservare per esercitare la critica oggi (senza porsi quasi mai la domanda inversa, meno usurata: cosa è inutilizzabile, da cosa ci dobbiamo congedare di quel modo d’essere studiosi, critici, pensatori?). Il passo seguente è concentrarsi non sulla fisionomia dell’esercizio critico, che finisce per suonare, agli occhi di chi scrive, prescrittiva nella sua astrazione, ma su quella del critico, cercando di isolarne la categoria che per esperienza si conosce meglio, quella dei nuovi entranti nel campo (mutuo l’espressione da Bourdieu, semplificandola)[2]. Farlo serve a liberarsi, seguendo Fortini, dalle false immagini che l’industria culturale proietta sulla condizione del lavoratore intellettuale[3]. È anche utile a impostare il discorso in termini generazionali: così la finestra sulla critica passa per le generazioni più recenti, per le quali forse parlare di lavoro intellettuale non ha molto senso, in quanto le condizioni per un lavoro propriamente detto (contratti, retribuzione, prospettive di carriera) sembrano evaporare giorno per giorno e un’identità di lavoratore salariato appare un’illusione creata da chi ci ha preceduto (figuriamoci, in un contesto simile, inquadrare il critico come attore protagonista del discorso simbolico, come uno che lotta per l’egemonia culturale).

Si consideri, nella fascia di chi solo da pochi anni s’interessa di critica letteraria, un tipo medio e non ideale, poco importa se uomo o donna, derivante da un’approssimazione di quanto, in questi anni, chi scrive ha osservato e/o vissuto in prima persona – non esente dunque da un rischio di autobiografismo caricaturale, nonostante la cautela della terza persona; un tipo che gira intorno alla boa dei trent’anni, che ha iniziato a interessarsi alla letteratura del Novecento perché ha creduto che essa lo portasse vicino alla concretezza dell’attualità da una specola privilegiata, che gli permettesse di fare storia del presente senza la fatica di appropriarsi dei materiali di epoche rese ormai estranee dal passare dei secoli; un tipo, riprendendo un termine che sottolinea l’ansia di essere preso sul serio tramite la patina di specializzazione, di “contemporaneista” nato e cresciuto in un contesto accademico (molto serio, addirittura sclerotizzato nelle convenzioni pratiche e comunicative invalse, in posizione tutto sommato confortevole, finché regge una qualche forma di donazione statale), con l’esperienza lavorativa esigua che lo apparenta alla «classe disagiata»[4] dei similbenestanti, disoccupati, suoi pazienti coetanei; uno che, in una schizofrenia pacifica perché in fin dei conti volontaria, usa gli attrezzi stilistici e filosofici correnti fra i suoi colleghi specializzati nelle rime minori di Dante e nella filologia pascoliana per essere preso sul serio dall’accademia, e che allo stesso tempo, per far esistere la propria parola nell’era della riproducibilità critica, deve continuamente produrre articoli, studi, interviste, playlist, minando alla base il presupposto di serietà che solo i tempi lunghi, le letture esaustive e i silenzi di sedimentazione del pensiero appagano. Al centro di questa forbice fra produrre qualcosa di valido e produrre di continuo, un equilibrio è rarissimo da trovare. Più di frequente, il tipo medio finisce per svolgere male l’uno e l’altro compito: la massa di recensioni nate già vecchie che finiscono per sembrare intercambiabili si accresce ogni giorno che passa e, sul versante opposto, compaiono saggi critici dotati di un corredo bibliografico eccessivamente generoso per l’ultimo romanzo di grido, che non merita il più delle volte grande attenzione nemmeno dal lettore da ombrellone.

Sarebbe eccessivo parlare di una scelta politica nella focalizzazione scelta sull’argomento. Nel 1957, Fortini scrive: «E si può forse dire che le grandi rivoluzioni culturali si preparano quando lo “specialista” scientifico, filosofico, artistico, assumendo una attitudine critica di fronte al proprio lavoro affronta gli interrogativi della propria “posizione” nella società e nel tempo[5]». Ma individuare la propria posizione nel campo del lavoro intellettuale non può portare, oggi, a una rivoluzione culturale in questa classe “giovane”, che mostra di avere troppo da perdere, troppi privilegi e una rete di appoggio familiare ancora in piedi – elementi che impediscono una rivoluzione se non metaforica, depotenziata di ogni ipotesi di conflitto. In aggiunta, il muro delle generazioni precedenti oppone compatto la propria opposizione, oggi più che in qualsiasi altra epoca. Ne è esempio magistrale il movimento della “Generazione TQ”, uno dei più rilevanti nel compiere (con l’inizio sancito da una riunione alla sede romana di Laterza il 29 aprile 2011) un tentativo di aggregazione politica dei lavoratori precari nel mondo della cultura[6]: dopo due anni, nel 2013, il movimento può dirsi sostanzialmente esaurito[7] anche grazie al mancato ascolto delle istanze TQ da parte delle generazioni più anziane. Non si capisce del resto perché dovrebbero, i nati nel dopoguerra dai baby boomers fino a chi aveva vent’anni negli anni ottanta, passare il testimone produttivo a figli e nipoti. Dal momento che, stando a una stima del 2016, la popolazione di chi oggi in Italia ha più di 55 anni sostanzialmente equivale al numero complessivo di chi è sotto i 34 (con la fascia 35-54 anni di gran lunga la più abbondante)[8], una politica che guardi con qualche favore ai giovani, non improntata alla pura conservazione, suona come una spinta utopistica. Meglio: un curioso atto di filantropia senza riscontri a breve termine, e che dunque è meglio non realizzare.

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Cosa resta da fare? Soluzioni politiche all’orizzonte, se ne vedono: ma entrerebbero nello spazio di un breve intervento sulla critica letteraria solo a patto di scadimenti retorici. Torniamo al tipo medio del critico trentenne. Se l’intelligenza, l’acume, la capacità dialettica e argomentativa, la sensibilità non gliela può conferire nessuna tavola rotonda, forse possono aiutarlo lo scambio e il dialogo, magari la lettura di libri davvero belli. Di sicuro l’unico rimedio immediato, per permettergli di sentirsi al di fuori della forbice fra iperproduzione effimera da blog e specialismo universitario, può essere appellarsi al diritto di tacere, ricordarsi che si può non intervenire. Michel Houellebecq, parlando di Prévert, scrive che «l’intelligenza non aiuta per nulla a scrivere buone poesie, ma può far evitare di scriverne di brutte»[9] (il titolo del suo intervento dice il resto circa la sua opinione su Prévert). Che valga anche, con le dovute proporzioni, per forme di scrittura a minore intensità espressiva della poesia, come il romanzo o, appunto, il saggio, la recensione, il commento? Tacere, nel contesto che si è cercato di delineare, è un diritto, o piuttosto l’espressione di un bisogno di “ecologia”, di ordine mentale? Dopotutto, la critica è un mestiere (quando pure) ma nasce in principio come un’attitudine, una scelta di campo. Se pensiamo al critico come a un soggetto di età di poco inferiore a quella pensionabile, la sua è una posizione da lavoratore precario e quasi sempre non pagato, all’interno di un mercato sovraccarico. Si viene giudicati principalmente per la quantità di prestazioni gratuite che si prestano, o si è disposti a prestare. In condizioni del genere, astenersi dal pubblicare è una scelta nell’immediato dannosa, nel momento in cui si è, in prima persona, la somma delle proprie pubblicazioni e delle proprie attività culturali.

Se restringiamo il campo ai concorsi universitari (rimanendo l’università una delle strade preferenziali per poter esercitare la critica letteraria senza essere ricchi di famiglia, come si sa), conta produrre articoli scientifici e interventi militanti in grande quantità. Bisogna superare le mediane, cioè produrre più di un tot, toccare un range ampio di argomenti, esprimersi di continuo. Poi, lontano (in tutti i sensi) dalla cattedra, conviene scrivere su piattaforme meno selettive e ad ampia diffusione, in modo di essere visti e crearsi una reputazione: è questa che permette, virtualmente, di accedere alla possibilità di collaborazioni esterne retribuite anzitutto con la moneta di una visibilità ulteriore. La retribuzione monetaria, ultimo step difficilissimo da conquistare, è lasciata ai quotidiani veri e propri, alle fondazioni, a collaborazioni più o meno improbabili e di breve respiro con enti e fondazioni di varia natura. Se restiamo al giornalismo, di fatto questo settore è avviato nelle sue forme attuali a una crisi che ha le fattezze di un declino, e vale anche per i suoi settori d’approfondimento culturale (ma sull’estinzione della terza pagina, sostituita dall’inserto culturale di solito adibito ad album di recensioni sempre più stringate, hanno già scritto in molti: è un’altra questione ciclica). I principali blog letterari collettivi in Italia, se prendiamo come riferimento iniziale la nascita di Nazione indiana nel 2003, si proponevano in fondo l’obiettivo di creare contenuti di qualità giornalieri, occupando lo spazio lasciato vuoto dalle terze pagine dei quotidiani: dare una piattaforma nuova, nelle mire dei litblog, era il primo passo per un linguaggio critico nuovo, senza i paludamenti del cartaceo e con la possibilità di dare voce a chi non era riuscito, fino agli anni Zero, a ottenere spazio. Il problema, tredici anni e parecchie iniziative dopo (fra i litblog più rilevanti e articolati di oggi: Doppiozero, minima&moralia, Le parole e le cose, 404 file not found), è che l’esperimento incorre nel dilemma accennato sopra a proposito del tipo medio. Chi gestisce un blog letterario è preso fra l’incudine dell’esigenza di pubblicare contributi di qualità, forniti per giunta gratis, e il martello di dover far uscire almeno un intervento al giorno per garantire visibilità e aggiornamento. Non può uscire dalla contraddizione che lo stesso medium crea, perché pubblicare interventi ogni giorno comporta la partecipazione del numero più alto possibile di aspiranti critici non ancora affermati (e spesso, com’è ovvio, di valore diseguale). Per colmare la domanda di contributi giorno per giorno, i litblog invitano i nuovi entranti a partecipare, a inviare più pezzi possibile, a collaborare alla gestione degli spazi telematici: ma lo sforzo è ripagato solo in termini di visibilità. La compensazione simbolica di un pubblico potenziale e aleatorio è una moneta evanescente: gli effetti di ciò che si scrive si scorgono confusamente nei mi piace, nelle ridiffusioni a opera di altri blogger, nei commenti in calce, ma i riscontri virtuali non portano molto lontano, non innescano nessun vero dibattito, rinchiudono produttore e destinatario in una circolarità che nei casi migliori finisce in dialogo, nei casi più eclatanti in rissa virtuale. Così, inconsapevolmente, i litblog hanno riprodotto una dinamica che un critico sotto i trent’anni, oggi, conosce bene dalla sua minima esperienza universitaria: essi richiedono una produzione intellettuale continua e non retribuita, selezionata e volontaria, ma si trovano impossibilitati a ripagarla in qualche forma che non sia la visibilità in sé. Ma perfino la (vaga) promessa di qualche collocazione universitaria, viene a mancare, dato che i contributi online “non fanno punteggio”.

Preso atto di ciò, se quanto si ottiene dalla collaborazione ai litblog collettivi è principalmente un ritorno di visibilità personale, a lungo andare si mostrano maggiormente adatte allo scopo le piattaforme autogestite, le pagine personali su social network come Facebook, dove, di fatto, il dibattito critico-letterario online è traslocato lentamente negli ultimi cinque anni, Tumblr e Academia.edu. Prendiamo Academia.edu. Com’è naturale che sia in un social, il criterio principale è la quantità di accessi che si ricevono sulla propria pagina: conta essere visti, letti, apprezzati dal maggior numero di utenti possibile (il proprio impact factor si può seguire dalle tabelle, aggiornate giorno per giorno, degli Analytics: un viatico eccellente per fantasie ombelicali). L’utente può pubblicare sul suo profilo tutto ciò che ha scritto, edito e inedito: in più, con la funzione Bookmark, una sorta di Mi piace di tono più sostenuto, può far vedere ai suoi follower non solo ciò che ha scritto, ma anche ciò che legge e si appunta. Persino l’atto della lettura, tassello solitamente non coperto per intero dal discorso critico (quando si scrive, non si dà conto di tutti i libri che si leggono: per fortuna), rifiuta così in linea potenziale la possibilità di tacere. I libri nascono nella solitudine e sono figli del silenzio, scrive Proust in un noto passaggio di Contro Saint-Beuve: una frase piuttosto inattuale, se a quanto pare il contributo critico oggi nasce in una specie di caotico riflusso di discorsi, s’inserisce in un dialogo affollato, cerca di sovrastare il rumore. Tuttavia, ogni discorso critico si presenta già irrelato apparendo in calce a pagine social profilate sul singolo utente, lontane dalla dimensione redazionale e plurale che i litblog, sulla scia delle riviste cartacee, hanno mantenuto[10]. Sulla propria pagina si gestisce quanto si scrive in autonomia, con la possibilità di selezionare il proprio pubblico tramite la gestione dei follower: il prezzo è un’autoreferenzialità manifesta, una preclusione a priori, finalmente esplicita, di ogni destinatario che non sia stato calcolato e previsto. Uno sviluppo che, con rapidità, sta cambiando il contesto (im)materiale della critica letteraria, rivelando uno scollamento dal contesto che mai era stato tanto aperto, lineare, logico.

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Restare in una zona d’ombra si trasforma pertanto in un’opzione attraente: dire “No, grazie. Perché dovrei?”, oltre a pensarlo di fronte all’ennesimo contributo non pagato che viene richiesto. Rifiutare di dire la propria ha le fattezze di un diritto, ma il sostrato di un’irritazione, davanti a un flusso di discorsi che della critica riprendono la scorza vuota, i residui, i luoghi comuni. Una spiacevole ambiguità prescrittiva è sottesa a questo discorso. Tacere è proprio ciò che un critico, un intellettuale, uno scrittore («uno che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace»»[11], lo definisce Pasolini nel Romanzo delle stragi) dovrebbe evitare secondo la lezione novecentesca. Emile Zola è il primo a inverare questo atteggiamento di uno scrittore che reagisce di fronte alle sollecitazioni della cronaca, della politica, della cultura dietro il pungolo dell’indignazione civile: dopo Zola, abbiamo imparato che un intellettuale è uno che reagisce e oltrepassa i tecnicismi delle proprie qualifiche per proporre un proprio discorso sul presente, polemico, contraddittorio, ambizioso. Eppure, questo compito di parlare può stare stretto, può essere sentito come una forzatura imposta da un potere politico-culturale all’intellettuale. Pasolini mostra di capirlo molto bene, nel passaggio prima citato, quando nota che: «All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici»[12]. Tacere può essere dunque, riprendendo oggi Pasolini, un tentativo di spostare il compito intellettuale dai soli problemi morali e ideologici a un ordine di problemi più concreto: l’espressione di un desiderio di non avvitarsi su questioni falsamente nobili e dibattute fino alla nausea (come appunto “il destino della critica”, “cosa devono fare i critici”), di non trascrivere attualizzandole le valutazioni di chi ci ha preceduto, di riconoscere la propria subalternità intellettuale, di inquadrarla correttamente e, pertanto, di non assecondarla.

Oggi che, in un contesto stravolto, risulta improprio credere a un «sistema di valori diverso da quello che ci dà la parola»[13] scegliere di tacere non è un atto di autolegittimazione del critico nuovo entrante, né un modo di differenziarsi, ma una delle poche scelte che gli appartengono del tutto: nessuno, all’infuori di noi stessi, può imporci il silenzio in campo aperto, giacché l’industria culturale mira ad azzittire grazie all’opposto di un eccesso di discorso. Tacere si mostra un ideale a cui tendere, senza scordare che raggiungerlo è un’utopia infeconda e anche abbastanza ridicola, che non porta a nulla. Si tratta di inventare un equilibrio che è insensato definire a priori e che, come ogni atto relativo alla produzione del pensiero, è una questione che ha un’origine strettamente privata, ma ricade al di fuori di noi come l’ennesima mostra di sé, sotto forma di un saggio o di un commentino, non riesce quasi mai a fare.

[1] Ennio Flaiano, La solitudine del satiro, Milano, Rizzoli, 1973, p. 107.

[2] Cfr. Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 105-106; Idem, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Milano, Il Saggiatore, 2005.

[3] Infatti, nell’inquadramento di Balicco, che condivido: «Senza nemmeno avere un’idea di come sia organizzato il proprio mestiere di tecnico del sapere, come è possibile impostare una discussione politica sul ruolo degli intellettuali e l’organizzazione della cultura? Come è possibile ignorare i condizionamenti materiali e politici che determinano la qualità della produzione del sapere e l’efficacia della sua distribuzione?», Daniele Balicco, Non parlo a tutti. Franco Fortini intellettuale politico, Roma, manifestolibri, 2006, p. 78.

[4] Cfr. Raffaele Alberto Ventura, che parla di quella parte del ceto medio «troppo ricca per rinunciare alle proprie aspirazioni, ma troppo povera per poterle realizzare», Teoria della classe disagiata, eschaton (eBook), 2015.

[5] Franco Fortini, Col senno di poi in Dieci inverni, Milano, Feltrinelli, 1957, p. 15.

[6] Cfr. per un sunto del dibattito sorto intorno a questo movimento generazionale il blog di TQ, qui: https://generazionetq.wordpress.com/.

[7] Vincenzo Ostuni, Che fine ha fatto TQ in «alfabeta2», 30, giugno 2013, leggibile anche sul web: https://www.alfabeta2.it/2013/06/04/che-fine-ha-fatto-tq/.

[8] Si può guardare questa tabella per un approccio sintetico: http://www.theodora.com/wfbcurrent/2016/it_popgraph_2015.bmp. Sul sito dell’ISTAT invece si trova il computo della popolazione per fasce d’età, in dettaglio: http://demo.istat.it/pop2016/index.html.

[9] Michel Houellebecq, Jacques Prévert est un con [1992] in Interventions, Flammarion, Parigi, 1998, p. 13 (traduzione mia).

[10] «Del resto, i blogger sono innocui perché fra loro non esiste un vero terreno di intesa. L’intesa, anzi, è mortale: il blogger scrive per distinguersi, ogni sua frase ha un valore di posizione», Raffaele Donnarumma, Aboliamo i blog letterari, uscito su Le parole e le cose il 14 ottobre 2011, qui: https://www.leparoleelecose.it/?p=1403.

[11] Pier Paolo Pasolini, Il romanzo delle stragi [Che cos’è questo golpe?, 14 novembre 1974] in Scritti corsari, poi in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, con uno scritto di Piergiorgio Bellocchio, cronologia di Nico Naldini, Milano, Mondadori, 1999, p. 363.

[12] Ivi, p. 364.

[13] Su questo, cfr. da ultimo Guido Mazzoni, I destini generali, Roma-Bari, Laterza 2015.

[Immagine: Jean-Louis Trintignant in Il grande silenzio (1968) di Sergio Corbucci (gs)]

11 thoughts on “Tacere. La critica letteraria al tempo di internet

  1. “ 10 luglio 1995 – Una delle ragioni per cui ci siamo lasciati è che voleva parlare sempre lei. La cosa andava così: conversavamo normalmente ma dopo un po’ lei cominciava a interrompermi. Non mi faceva finire un discorso, una frase, una parola. Come si fa a parlare in questo modo, allora tanto vale stare zitti. Infatti ho deciso di tacere. E allora ha cominciato a parlare lei. Bla bla bla bla. Ancora non ha smesso. (Era la stessa che arrivava sempre tardi agli appuntamenti) “.

  2. Io non so se ho capito. A me pare che si confondano le questioni. I dibattiti sulla critica sono poi sempre dannatamente astratti, e forse ha ragione Flaiano. Da una parte c’è il perché si scrive, e questo ognuno può risolverlo da solo. Dall’altra c’è il come riuscire a vivere di ciò che si scrive. È ovvio che più gente scrive, meno soldi ci sono per ognuno. Ma tacere non è una soluzione in merito a questo fatto. O meglio, è una soluzione per chi continua a scrivere, ma non penso che nessuno smetterà di scrivere per far posto ad altri. Un conto è se si scrive troppo dal punto di vista della pregnanza letteraria, per cui si pubblicano troppi libri inutili, troppi saggi inutili eccetera; e un conto è ritenere che l’aumento degli spazi in cui si scrive abbia portato alla precarietà dei critici letterari. Questo è il grosso equivoco di fondo. Il problema che vedo io è solo che ci sono troppi spazi gratuiti, non che gli spazi siano troppi. Bisogna aver chiaro che non c’è posto per tutti. Però la concorrenza è inevitaibile. Faccio un esempio con la musica, settore che conosco meglio. Ci sono oggi molti gruppi che si autoproducono il disco in edizioni di 500-1000 copie, con etichette indie che servono solo per avere visibilità, e che fanno concerti in giro per l’Europa riuscendo a rientrarci unicamente delle spese di viaggio. Però lo fanno lo stesso, perché è bello. Ma le band che riescono a vivere di questo sono per forza poche, non è una questione di politiche. Se a un concerto ci vanno venti persone, con un biglietto di cinque uro all’ingresso, non ci sono possibilità alternative. Però tutte le band e in generale nel mondo della musica si parla di crisi, e additano al download gratuito la colpa principale, come se ci potesse essere un’alternativa. Quando è ovvio che non tutti possono vivere con la musica. Se anche la gente smettesse di scaricare musica online, di ascoltarla su youtube e cominciasse a comprarne di più, comunque le band con poco successo non ci potrebbero vivere. È una questione di numeri, possibile che non lo capisce nessuno? Va bene che avete studiato lettere, però che diamine! Il lavoro letterario come tutti i lavori artistici, è per sua natura precario. In realtà qualsiasi lavoro è precario, è precaria la vita stessa.

  3. @ff vs ppp
    Grazie del commento. Quello che scrivi non è in contraddizione con il mio pezzo. So che l’allargamento democratico del bacino di scrittori e lettori ha portato a certe conseguenze materiali (che sono per giunta il retroterra del mio pezzo). Ho mirato per l’appunto a mettere al centro “la questione dei numeri”, con dati e attenzione alle circostanze concrete della precarietà intellettuale. Un saluto e buone feste

  4. @ff vs ppp

    in realtà se le band suddette la smettessero di suonare accettando di essere sottopagate e di non vedere un quattrino dei 5 euro del biglietto da te citato “perché è bello lo stesso” pure qualcosa si potrebbe recuperare.

    fififififi…

  5. @ Karlheinz

    ma queste band non sono sottopagate, sono pagate il giusto, essendo o agli inizi, o non avendo successo. Pure i Radiohead hanno cominciato così in qualche pub. Poi se fai successo, ai tuoi concerti ci vengono in migliaia e ci guadagni per vivere. Non ci sarebbe neanche bisogno di biglietti a 50-100 euro, se non per pagare tutti quelli che lavorano per organizzare un grande concerto. Quello che possono fare le band oggi è pretendere di più dai gestori dei locali, e in generale tutti gli appassionati di musica potrebbero riflettere su quanto ritengono importante la musica live, e quindi essere disposti a pagare il biglietto all’ingresso, e magari bere di meno per pagare i musicisti. Ma non c’è nulla di sbagliato nel suonare prima gratis, poi per rimborso spese, e poi se ti va bene riuscendo viverci. Tutto è legato a quante persone riesci a convincere a darti i loro soldi. Se a un tuo concerto ci vengono venti persone non è colpa di nessuno. E non si possono neanche biasimare quelli che preferiscono andare a vedere una cover band. Il punto di fondo insomma, è che nel mondo della musica e delle lettere c’è un malinteso di fondo per cui se non ti è dovuto il successo, quantomeno ti è dovuta la presenza, e questo è anzitutto infantile, prima ancora che sbagliato. Poi dato che in questi ambienti siamo tutti di sinistra vige il sottinteso che lo Stato e la politica dovrebbero fare qualcosa.

  6. Se Marchese considera prescrittiva anche la semplice descrizione dell’esercizio critico è ovvio che finisce per tacere come critico. Idem se considera la critica una “mostra di sé”. Idem se pensa che la società borghese ti azzittisca con “l’eccesso di discorso”. Ogni ragionamento fondato sulla coincidenza degli opposti porta inevitabilmente a un tacere che è solo nevrosi di autocastrazione. Un critico in salute parla e scrive perché provocato dalla realtà in cui vive. La metacritica è nevrotizzante.

  7. @luca nico. grazie della risposta. Cerco di essere sintetico:

    Se Marchese considera prescrittiva anche la semplice descrizione dell’esercizio critico

    no

    se considera la critica una “mostra di sé”

    no

    se pensa che la società borghese ti azzittisca con “l’eccesso di discorso”

    in parte sì, ma attenzione. Non è “la società borghese” il soggetto dell’azione nel mio pezzo.

    Ogni ragionamento fondato sulla coincidenza degli opposti porta inevitabilmente a un tacere che è solo nevrosi di autocastrazione

    non è esattamente quello che ho scritto. Difatti non parlo di tacere per sempre, sarebbe ridicolo; non è che io prescriva di stare zitti, dico solo che in certi casi, per certe fasce di scriventi, sarebbe (su un piano di convenienza materiale) più utile. Ma le soluzioni sono la parte più debole del mio pezzo, se ci penso bene.

    Un critico in salute parla e scrive perché provocato dalla realtà in cui vive. La metacritica è nevrotizzante.

    Sono assolutamente d’accordo su questo, c’è senza dubbio un po’ di nevrosi nella metacritica. Anche se non definirei il mio tentativo “metacritico”. Anzi, esprimo stanchezza e disagio per le domande rituali della metacritica (tipo “qual è il destino della critica?” “che deve fare l’intellettuale?”), e cerco di fare altro. Se vuole, definirei il mio esercizio “intorno” alla critica e alle sue condizioni materiali di formazione, e non su di essa.
    Dei “critici in salute” ho orrore, spero di non diventarlo mai, e di leggerne il meno possibile. Saluti e buone feste

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