di Lorenzo Marchese
[Oggi alle 17, presso l’Accademia Lunigianese di Scienze “Giovanni Capellini” della Spezia, Carlo Ossola presenta Giovanni Giudici. I versi e la vita (2016). Il volume raccoglie gli Atti del Convegno tenutosi alla Spezia il 13 settembre 2013, a cura di Paola Polito e Antonio Zollino. Il seguente intervento è uscito, in una forma ridotta e modificata, negli Atti].
Introduzione
Giovanni Giudici è in larga parte, anche se non solo, un poeta-narratore. Per lunghi segmenti della sua produzione in versi, Giudici ha raccontato storie. Mettere «in versi la vita», trascrivere «fedelmente, senza tacere / particolare alcuno, l’evidenza dei vivi»[1] significa prima di tutto registrare le vicende varie e particolari che il poeta vive, o vede vivere ad altri, e riversarle poi sulla pagina, con il beneficio della rielaborazione poetica, quando non della reinvenzione fantastica, in ossequio a una fedeltà non documentaria ma letteraria. Lo stile poetico di Giudici, secondo tale prospettiva, si adatta a seconda dell’oggetto raccontato e descritto, ossia esprime la visione del mondo da parte del poeta, che a sua volta sceglie, a seconda dei casi, la forma della lirica breve, talvolta con inserti dialogici e meditativi (è il caso di molte poesie della Vita in versi)[2], talaltra con poesie di più ampio respiro, che si propongono come registrazioni di esperienze ricordate o forse solo sognate (come da La vita in versi in poi molto spesso accade)[3]. È innegabile che la poesia di Giudici cerchi sovente il manierismo, la ridiscussione comica dei suoi oggetti nonché, con più decisione da Autobiologia in poi, la polifonia (risultando, solo in tal senso, anti-lirica e “romanzesca”). Non si può ignorare la sua vocazione teatrale, la tendenza soliloquiale di molti componimenti, o la sperimentazione sottilmente manieristica su forme e contenuti della tradizione illustre italiana: è il caso magistrale di Salutz, 1984. Quanto al Giudici successivo, da Fortezza a Eresia della sera, se di narrazione si dovesse parlare, sarebbe una narrazione concentrata ed ellittica insieme, in perpetuo sfuggire fra le allusioni e l’indicibile. Tuttavia, percorrendo un quarantennio di esercizio poetico, il tentativo di narrare in versi una quotidianità sfaccettata assume per Giudici un ruolo decisivo. Ha notato Carlo Ossola nella prefazione a VV: «Il Novecento, secolo pur grande di poesia, sembra chiudersi irrisolto tra le tentazioni del “serrare” e dello “sciogliere” il canto, tra le misure strette dell’aforisma (l’ultimo Montale) e il fluire del poema (Ungaretti, Luzi)»[4]. La scrittura in versi di Giudici sembra, a partire da simili premesse, porsi come continuo tentativo di sintesi delle opposte tendenze dei referenti poetici, nel tentativo di unire dizione poetica e rappresentazione storica, prosa e poesia.
Spinto da riflessioni di questo genere, ho scientemente evitato di addentrarmi nella questione della poesia narrativa di Giudici, la quale, a giudicare soltanto dal paragrafo qui sopra, si presentava come una sfida critica troppo gravosa per me, e la giro volentieri ad altri. Trovavo invece di un certo interesse aggirare il problema: se la poesia narrativa di Giudici presenta al lettore aspetti di grande attrattiva sia sul piano formale che su quello delle idee (per non parlare di riflessioni ancor più “teoriche” sul destino di una poesia, non solo italiana, che sempre più nel Novecento va verso la prosa)[5], cosa si può ricavare invece da una lettura della prosa narrativa di Giudici, nettamente inferiore per quantità e per finitezza? Ho cercato di impostare la mia ricerca appoggiandomi alla raccolta Frau Doktor (Milano, 1989), mai più ristampata da allora, a quanto ne so, a indicazione della poca risonanza avuta da questa miscellanea eterogenea di narrazioni in prosa e, forse, della non eccessiva considerazione del Giudici anziano per le sue prose. Ho seguito due direttive: dapprima, individuare le specificità e le potenzialità di una scrittura narrativa in prosa che ha assunto dignità autonoma a partire dagli anni ’60 (la tendenza successiva, soprattutto negli anni ’80, è ai racconti d’occasione); poi, mettere le prose in relazione alle poesie coeve, cioè, nella circostanza, le poesie che vanno dal 1964 al 1969 circa, collocate fra La vita in versi e Autobiologia, nel tentativo spero fruttuoso di indicare reciproche influenze o, al contrario, distanze.
I tentativi di narrazione di Giudici risalgono a un periodo antico, in contemporanea alla scrittura delle prime liriche, per quanto sappiamo. Nell’Archivio Giovanni Giudici[6] presente al Centro Apice di Milano sono contenuti, fra gli altri materiali, otto racconti giovanili dell’autore, scritti fra il 1943 e il 1945[7]. Questi racconti in larga parte inediti contengono già, allo stadio embrionale, alcuni temi del Giudici più maturo in prosa e in versi. Traspare dagli inediti la fascinazione erotica per figure evanescenti, i cui tratti si confondono e confluiscono nel gioco di un’immaginazione poetica considerevole (ad es. Figure bionde e brune), e che sarà propria di tante figure femminili scritte dall’autore. Sono inoltre significative due tipologie di racconto che emergono dalle carte: la prima è quella di un raccontare “kafkiano”, per via di situazioni di angoscia esistenziale intorno a vicende apparentemente insignificanti (ad es. L’odore d’acetilene). Qui ritorna sotto altre forme la fascinazione erotica, che sfocia però nell’ansia persecutoria di chi si sente sempre di fronte a un tribunale (come si sa, è un sentimento costante nel personaggio poetico di Giudici dalla Vita in versi in poi, e anche in certe prose, vedremo più avanti). La seconda tipologia, che pure ritornerà trasformata nelle narrazioni più mature degli anni ’60, è quella del racconto di viaggio, in cui un protagonista riconoscibile come l’autore gira paesi sconosciuti e fa incontri dai più vari esiti, come se fosse in cerca di qualcosa e fosse consapevole di non poterne ricavare nulla tranne, a volte, un accrescimento di conoscenze, o una diversa cognizione data dal confronto problematico tra popoli e lingue diverse (ad es. in Bust).
L’esordio narrativo, benché immaturo e spesso scarsamente originale, non deve far dimenticare la presenza dei temi sopra descritti, che torneranno, profondamente cambiati e arricchiti, negli scritti creativi dei decenni successivi. Soprattutto, va tenuto presente che i racconti attestano il tentativo precoce di Giudici di formarsi come narratore: un’attività ritenuta preferibile, per questioni di imprecisato decoro, allo scrivere poesie, sentito invece come vergognoso. Lo mostra una riconsiderazione a posteriori dell’autore, contenuta in una nota acclusa alla copia dattiloscritta di Il colore blu della morte e indirizzata nel 1999 alla rivista «Diario» diretta da Enrico Deaglio[8]. Giudici scrive, con notevole lucidità:
Nel nostro interminabile cercare di mettere in ordine i cassetti della nostra vita può sempre capitare di imbatterci in qualcosa che avremmo voluto o potuto dimenticare. Nel caso specifico, e tenuto presente che allora ritenevo probabilmente che dichiarare un’aspirazione a scrivere racconti o romanzi fosse meno imbarazzante del confessare velleità di natura poetica, quel negletto “qualcosa” si è stranamente ricordato di me lasciandosi trovare sotto una specie di ingiallito dattiloscritto. Nell’affidarlo agli amici di “Diario” avrei osato dunque confidare che almeno qualcuna delle mie poesie valesse a mandarmi almeno semi-assolto da questo giovanile peccato di prosa.
G.G.[9]
Effettivamente, l’aspirazione alla prosa permane anche dopo gli anni ’40 e percorre sotto traccia il lavoro creativo di Giudici, come attestano i quaderni degli anni ’50. Alcuni propositi di narrazione vengono considerati con una certa serietà da Giudici, che non molto di frequente stende abbozzi di racconti, va per progetti e ipotesi. In questi zibaldoni disordinati, che precorrono la forma consueta delle agende dagli anni ’60 in poi, vanno a confluire pagine di diario, riflessioni politiche, poesie proprie e altrui (compaiono i primi tentativi, copiati in pulito da altri fogli, di alcune poesie da Fiorì d’improvviso), trascrizioni di brani letterari e filosofici, notazioni sulle lingue straniere. Inoltre, appaiono riflessioni di questo tipo:
26 marzo
Idea per il racconto di Tina. Si potrebbe far scaturire la narrazione da una confessione diretta una confessione puramente cattolica in prima persona? C’è il pericolo di far apparire come letterata una figura di protagonista illetterata. Secondo me dovrem –[10]
Da vero romanziere, Giudici si pone il problema della credibilità dei suoi personaggi, dimostrando un certo interesse per i risvolti etici della veridicità e per la teoria del romanzo in generale – interesse riconfermato, nel 1963, dalla lettura e la riflessione scritta, nelle agende, di Teoria del romanzo di Lukàcs. E che il suo interesse per il romanzo contenga in questi anni una spinta “politica” diretta, peccante magari di ingenuità, lo dimostra un successivo abbozzo di una certa estensione, che qui riporto:
3 agosto 1952
I nemici della giostra
Uno o più racconti. Il primo con questo titolo; il secondo col titolo i “Benefattori”; un terzo forse ci assalirà lungo il cammino (“Là dentro al caffè”?)
Certamente non si potrà prescindere dal motivo cronistico di una vera giostra che si accampa in una cittadina, né prescindere dagli episodi “particolari” che attorno ad essa si intrecciano. La “panoramica” fieristica – qualcosa tipo “La [illeggibile] est d’or” di Renoir: c’è una serie di piccole felicità che si intrecciano attorno a questi motivi. Il finale è un temporale [sovrascritto sul precedente, cancellato “incendio”] che distrugge la giostra; non messo in atto, non provocato, dai “nemici”, ma pertanto accolto con estrema soddisfazione da loro. Gli “amici” piangono, è una tristezza tranquilla la loro. Avevano questa giostra, la sua, e adesso non c’è più. Ma i divertimenti dei nemici sono ancora più belli: potrebbe esserci un farmacista schierato moralmente dalla parte degli “amici” e trascinato dal formalismo [illeggibile] sul fronte dei “nemici”. I nemici, dopo l’incendio, faranno una pubblica sottoscrizione, capeggiata dal giornaletto locale (tipo “Cuori di Roma”). Nessuno darà una promessa di lavoro a Ra[illeggibile], Nicola e Carmen (i tre fratelli padroni) e a Vincenzo, cacciato una volta dal suo padrone “nemico della giostra” e poi accolto dai tre e sposato a Carmen (ella attenderà un bambino). Possiamo far fare a Ra[illeggibile] la parte del tipo che innamorare una ragazza del luogo – Maria (?) – figlia del proprietario di un albergo: “La luna rossa”. Ma la Maria non sa “scegliere la libertà” e passare dalla parte della giostra; a Ra[illeggibile] non gliene importa molto. Poi la giostra se ne va dalla città lasciando tutto uno strascico di animosità: non si devono mettere automaticamente tutti i ricchi dalla parte dei “nemici” e i poveri dalla parte degli amici. “I nemici della giostra” è un racconto interclassista. La novità è appunto nel fatto di far diventare motivo di conflitto sociale non un fatto positivo, economico o politico che sia, ma un fatto poetico la giostra. È un po’ una lotta di classe sul piano dei sentimenti. Un “marxismo” della poesia. Perché si deve lottare per la “democrazia popolare” e non per una giostra? Perché si devono difendere solo i diritti dell’Uomo e non la meraviglia dei bambini? A metà del racconto [sovrascritto sul precedente cancellato “libro”] la “giostra” conoscerà la sua [illeggibile] giornata. Sarà una specie di inferno per i suoi “nemici”: ci sarà una sfilata di amici attraverso la città. (Episodio iniziale: Nicola va dall’impiegato comunale cav. Nardi a chiedere il permesso e questo lo facilita tutto contento per una giostra. Bambini? Sì, uno: ne avevo tre, una volta. Moglie? Sì. Bene, tre biglietti omaggio – uno per il piccolo e gli altri due … per lei e sua moglie.[11]
Emerge con chiarezza dal progetto narrativo la volontà di scrivere un racconto di stampo neorealista con ambizioni allegoriche e politiche. Ci si potrebbe addirittura spingere a ipotizzare cosa Giudici avesse in mente, non disponendo del testo: una narrazione polifonica («c’è una serie di piccole felicità che si intrecciano attorno a questi motivi»)? C’è già dall’abbozzo un chiaro sapore insieme impegnato e naïf («lotta di classe sul piano dei sentimenti», «”marxismo” della poesia»), a conferire un messaggio politico fin troppo edificante e programmatico per dare da principio motivi di interesse. Più stimolante è il fatto che, almeno per il tempo di un ripensamento e una cancellatura, Giudici pensa a un libro di una certa consistenza su «I nemici della giostra, e anche a una raccolta di racconti che lo comprenda. All’epoca (1952) non è ancora un poeta edito, ma nel pensare a se stesso come narratore si prende con serietà programmatica, tenta di dare una giustificazione teorica al suo lavoro: un aspetto che sarà mitigato nelle prove degli anni ’60, finalmente mature.
Gli anni ’60 sono un decennio decisivo per l’evoluzione e il compimento di Giudici come poeta. Da prosatore, la sua maturazione è sotterranea e difficile da rintracciare, rendendo quindi necessario, una volta di più, ricorrere alle agende private, che documentano alcuni passaggi del suo itinerario[12].
Il primo elemento determinante è dato dalle letture, di cui il poeta scrive nelle agende: nel 1961 sta leggendo l’Ulisse di Joyce («21 febbraio / Adesso mi impongo, prima di dormire, almeno qualche pagina dell’Ulysses»)[13], nel 1962 comincia a leggere la Recherche di Proust, di cui trascrive, da ora in avanti, corposi brani nei suoi appunti, dal gennaio 1963 inizia Teoria del romanzo per una lettura collettiva sotto la guida di Franco Fortini. È una lettura che gli lascia parecchi motivi di riflessione e può tornare utile per interpretare un esercizio di prosa che occupa Giudici per un certo periodo a metà degli anni ’60, il primo a essere pubblicato, più di venti anni dopo, certificando così l’ambizione del tentativo di romanzo a questa altezza cronologica: Sunny Scandinavia[14].
Lo spunto iniziale per SS viene dalla tipologia del racconto di viaggio. Come riportato da Carlo Di Alesio nella sua Cronologia relativa al 1964: «In giugno compie con la moglie un viaggio in Scandinavia, dal quale trarrà ispirazione la prosa Sunny Scandinavia del 1965»[15]. Al 1965 Di Alesio riconduce la fase di composizione del testo: «Tra marzo e aprile abbozza la prosa parodistica di viaggio Sunny Scandinavia, che conclude in settembre. Allo stesso periodo risale l’ideazione o la composizione delle prime poesie di Autobiologia»[16]. Sotto questa breve descrizione, si cela una fase di scrittura complessa, che porta a un vero e proprio tentativo di romanzo dotato, oltre che di ambizioni teoriche, di un’intrinseca dignità estetica e di alcune soluzioni formali rilevanti, se confrontate con la produzione poetica coeva (l’Autobiologia citata da Di Alesio).
Pur composto nel 1965, SS non vide la luce in quel decennio, ma solo, con molto ritardo, nel 1989, nell’unico volume di prose narrative licenziato dall’autore, cioè Frau Doktor[17]. Si tratta di un testo che non ha ricevuto particolare attenzione dalla critica, se si esclude l’Introduzione al volume a cura di Edoardo Esposito e un articolo di Simona Morando del 1995[18], di cui si terrà conto. La scarsa considerazione va forse imputata al carattere della raccolta, in larga parte una miscellanea di scritti occasionali, brevi e circoscritti, peraltro già pubblicati su riviste e quotidiani[19]. Gli scritti, equamente divisi fra due sezioni intitolate Propositi di narrazione e Diari, itinerari, appartengono alla categoria del reportage o al ricordo d’infanzia, di giovinezza, mentre, nota Esposito: «A un intento narrativo propriamente detto sono anzitutto da riportarsi brani come Frau Doktor, Metamorfosi del Mega-Mega, Svuotare il vuoto, che sviluppano del tutto fantasticamente elementi della reale esperienza»[20]. Eppure, Sunny Scandinavia (1965) e Frau Doktor (1968), le due prose di maggiore estensione e fra le più antiche, sono all’altezza del 1989 inedite e di una rilevanza non trascurabile, visto che, almeno a lunghezza, occupano all’incirca il trenta per cento del volume. Né si può dire che, alla lettura, non diano motivi di interesse. Concentriamoci per ora su SS, abbozzo nel quale si coglie con più evidenza la vena sperimentale e l’aspirazione (fallita) al romanzo.
Sunny Scandinavia
In SS, l’esperienza di viaggio di Giudici viene trasfigurata pesantemente. Senza una precisa e ordinata scansione spazio-temporale, che rende il filtro dell’esperienza interamente soggettivo e arbitrario, sì da determinare un certo spaesamento del lettore (che dovrebbe riflettere quello del personaggio-viaggiatore) di fronte a una realtà pasticciata («Passati alcuni minuti da quando io. Ma più passato o meno passato non fa differenza, tutto in calderone gran cioccolata finisce», SS, p. 50), la penisola scandinava è attraversata da un soggetto (Giudici stesso) che si fa cassa di risonanza di violenti stimoli esterni e ricettacolo disordinato di pensieri paranoico-umoristici, memorie polverizzate, citazioni letterarie (il più scolastiche possibile) e spezzoni di dialoghi forse solo immaginati. La finzione immessa nel resoconto del viaggio è tanto alta da impedire di parlare di un reportage, né il personaggio Giudici[21] ci appare troppo degno di fede. Sembra anzi che il poeta voglia dare di sé un’immagine da italiano medio, caciarone approssimativo venuto da un imprecisato sud del mondo[22], o meglio un «laido turista» (SS, p. 31) che dell’italiano ha i caratteri più comici e stereotipati: odia la cucina straniera, è provinciale all’ennesima potenza, dedica molta colpevole attenzione a sbirciare le donne per strada[23]. Per inciso, la notazione sulla massiccia fascinazione femminile di Giovanni in SS induce a riflettere sulla portata della finzione romanzesca sull’esperienza di viaggio, a partire dalla mancanza più grossa: in SS non c’è traccia della moglie di Giudici, Marina, che pure aveva fatto il viaggio con lui nel 1964. Anzi, la donna risulta del tutto assente dall’orizzonte mentale del narratore[24].
L’intero viaggio scandinavo è compiuto in uno stato di veglia assonnata, in un confuso misto di eccitazione e depressione trascritto sulla pagina secondo una modalità discorsiva che richiama lo stream of consciousness teorizzato da William James e originalmente applicato da James Joyce, proprio nell’Ulisse che Giudici, sappiamo, aveva letto all’altezza del 1965. La voce del narratore, le voci degli altri personaggi, le scritte, i luoghi comuni più frusti si accavallano in un disordine studiato, memore della lezione del Modernismo internazionale, anche se non trascurerei l’esempio italiano (da Giudici studiatissimo) delle poesie di Guido Gozzano[25]. La narrazione, dunque, si impernia sulla voce di un soggetto prevalentemente passivo, quanto a ricezione degli stimoli ma anche ad attitudine verso il mondo esterno. All’accoglimento passivo consegue però un’immaginazione vorace e attivissima, che procede per strappi e analogie di memoria quasi surrealista. Ecco un esempio dall’inizio del racconto, quando Giovanni si trova all’aeroporto di Copenhaghen:
Tabacchi, chiuso. In fondo sono le sei e un quarto del mattino. Where’s the toilet? Prendete l’ascensore. Si scende. Asettico. Automatic. Ladies and gentlemen. Meravigliosa teoria di ritirate. (Brutalità delle stazioncine ferroviarie, massime in Toscana: cessi, uomini, donne. Mai un eufemismo. Che diamine. Che cosa costerebbe scrivere gabinetti. Il solito purismo. Coprofilo. Freud. Avarizia. Umanisti di provincia.) (SS, p. 20)
Dallo spunto banale di una sosta al gabinetto, s’innesca una spirale di concetti collegati da analogie labili: un processo frequente lungo il racconto. Tale espediente analogico si ripete, mischiandosi alla confusione delle voci in dialogo, anche per un altro fine, vale a dire quello politico. In SS Giudici non ha abbandonato l’aspirazione a fare della prosa d’invenzione, come espresso in certi appunti degli anni ’50, un veicolo di velata critica sociale e politica. Non mancano i confronti divertiti fra il «riformismo scandinavo» e il fascismo (SS, p. 25), fra il «Terzomondo anima nera» (cui si annette, ironicamente, il narratore ormai «aegyptian») e la cultura occidentale capitalista (SS, pp. 44-5). Neppure la penisola scandinava, vista come un blocco in cui le somiglianze prevalgono sulle specificità, confermando così la fascinazione del narratore per l’indistinto, si sottrae allo sguardo umoristico ma mordente di chi racconta. «Sunny Scandinavia è il titolo di un opuscolo turistico», nota Giovanni. In effetti, l’ambiente descritto è fatto di superfici traslucide, ambienti ordinati e persone cordiali fino alla freddezza, luoghi privi di calore umano e puliti fino alla carineria, che reprime a fatica un Todestrieb temperato dall’umorismo di Giudici, salvo significative eccezioni, connesso a una solarità tutt’altro che rassicurante:
Solstizio d’estate inaugurazione della morte dell’anno. Mercato variopinto di varie mercanzie. Al coperto le carni, gli insaccati. Prosciutto cotto dall’ottima ciera, e pensare che invece. Che invece è un maiale morto. Noi che mangiamo allegramente i morti. Anche i vegetariani: mangiano piante morte. Breve intervallo per la nostra saprofagia: fiori animali piante noi divoriamo fra un tempo di morte e un tempo di putrefazioni. Già morti, non ancora putrefatti. (SS, p. 52)
Dai pochi accenni fatti, si può intuire un testo in primis godibile e divertente almeno quanto è affollato di presenze e concitato nell’espressione. Si è indicato, in nota, la presenza di endecasillabi camuffati nella prosa di Giudici, posti nei passaggi più ironici o, al contrario, più seri. Come minima aggiunta, si potrebbe porre l’accento sul ritmo serrato del discorso: SS è costruito in uno stile paratattico quando non nominale, che fa pensare alle poesie di Giudici vent’anni dopo (l’ultima fase, da Fortezza in poi), privo però di risvolti tragici e lirici. Senza guardare gli endecasillabi, spesso e volentieri il discorso in SS pare costruito per unità melodiche ristrette[26] che danno un andamento concitato a un viaggio frenetico, più inflitto che agito da Giovanni, pur entro i toni di una mediocrità consapevole. Il finale di SS, ambientato in una sauna, ribadisce tale condizione e sancisce la tinta complessiva del racconto: «Ma niente di straordinario. Quasi si direbbe né caldo né freddo, se non fosse caldo. Niente di eroico» (SS, p. 54).
Eppure, dopo una simile presentazione, esigua per un testo lungo 35 pagine, ci sono due termini che finora ho dato per scontati, ma che vorrei ridiscutere: “racconto” e “finale”. I due termini sono concatenati: si può parlare di un finale per SS? Secondo me, a guardare l’agenda 1965 di Giudici, si trovano chiari riscontri che indicano il contrario, cioè che SS è, per quanto rifinito e lavorato, un tentativo mai portato a conclusione. Anzi, un tentativo di una forma più estesa del semplice racconto lungo: un vero e proprio romanzo. Ne fanno fede alcuni appunti dell’agenda 1965[27], che di seguito riporto e commento. La prima notizia su SS risale al 26 marzo («Idea di riprendere “Sunny Scandinavia”», appunta Giudici) e indica con una certa chiarezza che il poeta stava lavorando alla prosa da qualche tempo, non si sa esattamente quanto, su altri fogli di cui non siamo a conoscenza. Alla nota del 26 marzo seguono alcune riflessioni sulla lingua, riguardanti da vicino il lavoro che Giudici sta svolgendo con SS. Sulla pagina del 27 marzo scrive: «La gestione ironica è una via d’uscita. Provare a scrivere un racconto strettamente naturalista (fino alla parodia), tutto prevedibile in ogni particolare: per modo che ne resti come solo margine fruibile l’eventuale giustificazione (o non-giustificazione) dell’averlo scritto» (AG, Ibidem). Il giorno dopo, il 28 marzo, Giudici riprende la riflessione spostandola su un testo narrativo, che ritiene uno strumento più efficace per le sue sperimentazioni: «Mi sollecita peraltro l’idea di scritture estremamente scritte. La vera applicazione delle “forme logore”. Ma sarebbe meglio esercitarsi su un testo narrativo» (Ibidem). Non si può non pensare al lavoro contemporaneo che sta svolgendo su SS, il quale offre un campionario nutrito di «forme logore» con funzione ironica o parodistica. L’idea gli resta dentro per un mese e, forse, continua a lavorarci («Sono sicuro che le forme logore sono state un’intuizione giusta. Ma non ho ancora avuto la coerenza, il coraggio di [illeggibile] se non per puro caso»)[28], insieme alle poesie. Da fine marzo in poi, per esempio, Giudici lavora alla poesia Euridice[29], che con SS ha in comune la tendenza alla sintassi nominale e spezzata, il linguaggio ironico unito a un linguaggio più disinvolto e colloquiale di quanto fosse nella Vita in versi. Nel frattempo, si propone di continuare a lavorare sulla prosa , con una certa ambizione («Andare avanti col romanzo svedese», 29 aprile)[30], a cui subentra lo sconforto. In questo periodo, Giudici è preso da timori di vario genere circa il suo lavoro, non ultimo quello della leggibilità e dell’accessibilità a un pubblico più vasto di quello dei circuiti poetici tradizionali, un problema che lo affligge durante la stesura della Vita in versi prima, e poi nei due anni che intercorrono fra la firma del contratto con l’editore (1963) e l’uscita del volume (1965). Tale preoccupazione, sia detto per inciso, conferma la coscienza politica del suo autore e pone sotto una luce etica la sua aspirazione temporanea alla forma-romanzo, capace in sé di una diffusione di pubblico che la poesia difficilmente può raggiungere. Una nota di luglio rende bene il suo dilemma:
11 luglio
Una delle solite domeniche estive, rientro dalle Grazie, cupo cielo temporalesco, ossessioni nella mente, nervosismo, non-speranza senza saggezza. Lavoro da finire, senza volontà, nessuna proposta di lavoro interiore, frustrazione. Anch’io dovrei scrivere un romanzo? Ma perché? A quale scopo? Con l’intento di dire che cosa? Un semplice cedimento alla tentazione della notorietà. Alcuni pensieri mi vengono in mente, poi spariscono senza tracce. Xxx (…) xxx Bisognerà che io restringa i limiti del mio lavoro letterario. Ovvero che mi rassegni alla malinconica (illeggibile) di chi punta tutto sulla poesia. (AG, Ibidem)
Così, la stesura di SS assume un risvolto cruciale per la costruzione di un’identità autoriale diversa –più ampia, forse – da quella di semplice poeta, almeno in potenza, giacché il tentativo del «romanzo svedese» pare destinato ad arenarsi. Da un lato, la stesura si arresta, come prima detto, a 35 pagine, manca una vera conclusione e una fisionomia propriamente romanzesca all’insieme. Dall’altro, Giudici manca l’obiettivo di essere letto a più ampio raggio che per i suoi versi, visto che SS rimane inedito. Scrive il 15 settembre: «Dovrei adesso sistemare almeno una parte di “Sunny Scandinavia” per pubblicarla sulla rivista “Paragone”. Ma sono stanco, distrutto dalle bozze che devo correggere, dallo squallore del mio impiego.» (Ibidem). Nonostante il processo di editing vada avanti fino a un certo punto («Grazia mi telefona annunciandomi di aver tagliato pochissimo ecc. “Sunny Scandinavia” va forse meglio del previsto.», 21 settembre, Ibidem)[31], il «romanzo svedese» si arena nel giro dello stesso anno. In mancanza delle carte manoscritte del racconto, si può almeno affermare con certezza che SS sulla rivista «Paragone» non uscì mai, rimanendo inedito[32] fino al 1989, quando uscì come “racconto”. In Frau Doktor, la forma chiaramente incompleta di SS poteva dare adito a interrogativi sul suo stadio di completezza: dubbi destinati a rimanere insoluti, in mancanza di un background di informazioni che evidenziassero l’aspetto di SS come aspirazione frustrata al romanzo. A giochi fatti, nel novembre 1965, Giudici sembra riconsiderare le sue precedenti annotazioni, e giunge a un compromesso complessivo che gli fa concludere di essere costretto, per il momento, a rimanere entro il perimetro ristretto di quello che, dieci anni dopo, si sarebbe chiamato «il pubblico della poesia»[33]:
13 novembre
Sto meglio, ma non ancora abbastanza bene. La fosca assenza di prospettive, l’insensatezza della vita, sono indubbiamente accentuate dall’autunno e dalle giornate piovose. Il sole, come dice il poeta Bandini, è il toccasana del mondo: o qualcosa di simile. Ma ieri ho creduto di capire che è la dicotomia del mio lavoro, sono le mie giornate senza riposo (e il rimorso del non fare è una fatica ancora più feroce) a rendermi intollerabile il mondo e l’improbabilità di avvenimenti trasformatori. Risulta dunque vero che il lavoro non gradito mortifica ancora di più. E non è dunque senza ragioni la mia aspirazione a diventare scrittore di qualcosa che si venda: la vendibilità delle mie poesie è probabilmente notevole, ma soffre di un handicap comune a tutto il genere. Pure desidero continuare a scrivere poesie. E, dopo “Euridice”, ne scriverò forse nei prossimi giorni. Ma vorrei scrivere un romanzo: nonostante i cattivi romanzi sempre più numerosi. Forse per questo – come negli amori infelici, non corrisposti – con tanta cordialità e curiosità si accolgono (salvo la delusione del poi): mai prodotti del genere. Particolare tenerezza per i romanzi scritti da poeti: esiti ben superiori (Volponi insegni) al resto della mediocre produzione.[34]
Si tratta di un compromesso tutt’altro che pacifico, in un momento di sconforto creativo notevole. La vita in versi è uscito nel maggio 1965, ma sembra non dare i riscontri che Giudici si aspetta, e la scarsità di successo amplifica le angosce esistenziali che, nelle agende private degli anni ’60, costellano la pagina privata di Giudici senza molti contraltari di gioia. Il giorno dopo il 13 novembre, la riflessione si acuisce in direzione di un pessimismo “accidioso”, la riflessione sulla forma-romanzo rimane, ma non presenta per il momento grandi spunti o sbocchi, né li rivelerà, a quanto sappiamo allo stato attuale, nel decennio successivo. Giudici scrive:
14 novembre
Altri due giorni di vacanza senza combinare nulla, tranne un tentativo velleitario di riordinare i miei articoli per farne un libro. Ma sono svogliato e senza fiducia nell’avvenire. Non mi giunge alcun segno di riconoscimento esterno, non una sollecitazione, un invito, se non ad iniziative scarsamente qualificate o anche più modeste. Bisogna convincersi della inutilità e della vanità di certi desideri. Per scrivere poesie occorrono scatti di volontà, decisioni, momenti di felice disperazione alla macchina da scrivere. Non ho molto da dire. Volevo scrivere per un certo tipo di lettore e ancora potrei persistere nel tentativo. Ma sono stanco e avvilito, sempre timoroso di burrasche familiari o di lutti, delle insoddisfazioni che esplodono. Invidio le organizzate, formalizzate esistenze di altri. Ho una moglie ineccepibile sotto molti aspetti, ma in molti altri di una innocente ferocia. Adesso dovrò organizzare la vacanza invernale. Proverò. Ho il rimorso della mia accidia. Ho il rimorso della mia accidia. Devo cominciare a scrivere un romanzo o qualcosa di simile? O insistere sui versi nella speranza di proporli a un pubblico più largo? Eccetera. E urli. (Ibidem)
Come la storia dimostra, Giudici uscirà dallo stato di paralisi creativa: l’impasse sarà superato volgendosi decisamente, come e più di prima, alla scrittura in versi e alla scrittura saggistica.
Frau Doktor
Alla scrittura narrativa è orientato ancora il racconto Frau Doktor (1968), anch’esso inedito fino alla pubblicazione dell’omonimo volume, vent’anni dopo[35], e anch’esso di notevole interesse per vari motivi: Fd segna una prosecuzione originale nell’officina del racconto di Giudici, ma ne segna al contempo una sorta di stallo, le cui ragioni, oltre a essere auto-evidenti nella cronologia posteriore (sarà l’ultimo racconto di una certa lunghezza composto da Giudici, a quanto sappiamo, e uno degli ultimi ad avere una struttura narrativa oltre a Un caso estivo e Svuotare il vuoto[36]) stanno nella struttura aggrovigliata di una storia d’amore probabilmente più sognata che vera, nel «monco e simbolico atteggiarsi» delle evanescenti figure protagoniste, molto vicine alle corrispondenti apparizioni (per lo più femminili) della poesia di quegli anni. Precisamente, è ad Autobiologia (1969) che Fd guarda, essendo sorta negli stessi anni di composizione della raccolta poetica (1964-1969) e condividendone anzitutto l’ambientazione immaginaria di Meclemburgo, città dell’Europa dell’Est in cui il protagonista autobiografico d’invenzione (non riconducibile dunque tout court alla figura di Giovanni Giudici, come invece avveniva in SS) di nome Antonio viene ad atterrare dopo un lungo viaggio in aereo, fra situazioni comiche e blandamente persecutorie che pure ripetono i moduli di SS:
Impossibile farla franca in questi sterminati aeroporti, fin che vuoi sterminati, ma zàc d’improvvise strettoie, cortesi, cortesissimi, ma zàc che ti si chiudono come certe griglie nella metropolitana di Mosca se non hai messo giù la moneta o tenti di passare troppo in fretta, prima che l’apposito segnale luminoso indichi. (Fd, p. 63)
Diversamente dal protagonista di SS Antonio è presentato costantemente alla terza persona singolare, benché l’indiretto libero compaia spesso e volentieri a coinvolgere il lettore nei procedimenti mentali di Antonio e spezzare, comicamente, il pericolo di un’eccessiva distanza del narratore dal suo oggetto[37], e la storia è condotta al tempo presente (ma scarseggiano qui, a differenza che in SS, gli infiniti narrativi). La somiglianza fra i protagonisti dei due maggiori tentativi in prosa di Giudici andrà cercata nel paranoico bisogno di contatto umano, nell’ansia di essere riconosciuto nella propria umanità anche da semplici passanti o compagni di volo, contraltare dello spaesamento alienato che nella poesia di Giudici assume spesso caratteri politici[38], ma qui sfuma in un’atmosfera rarefatta. Così, in volo verso Meclemburgo in compagnia di due meclemburghesi, Antonio
sbircia, resiste alla tentazione di procombere in ginocchio, offrire ai due ogni suo avere, ogni suo servizio, ogni volontà di riforma, ogni patrio o materno affetto, ogni sua occasione di piacevoli ore per l’eternità della vita, ogni tradimento, ogni fedeltà, per un moi je vous connais a cui un mais oui c’est vous, mon vieux, rispondesse. (Fd, p. 66)
L’astrazione della prosa, che rende la pagina comica ma anche stranamente povera di risonanze rispetto al medium poetico, passa per il binario di un linguaggio tendenzialmente aulico-formale («volontà di riforma», «patrio e materno affetto») in funzione di straniante ironia, contornato da citazioni della letteratura più scolastica («procombere», da Leopardi)[39], da arcaismi o parole desuete («foriere», «tristo istrumento», «la scolta», «guata», forse dantesco, «voltolarsi», «transeunti accoliti»)[40], da figure retoriche dell’ordine del discorso (anastrofe e iperbato)[41]. Il contrappeso dell’illustre, ancora una volta, è l’adozione di un gergo triviale e di un lessico basso («uno delle disposizioni deve fottersene, per non essere fottuto dalle disposizioni», «infanti sorridenti e piscioni», Fd, p. 65), meno insistito che in SS a causa dell’andamento più serio e malinconico, rispetto alla comicità raggelata del racconto sulla Scandinavia. Il linguaggio manierista accompagna la storia, ma più spesso rischia di soffocarla fra una manifestazione e l’altra dell’interiorità del protagonista, o delle voci che concorrono a formare una polifonia appena accennata, di vaga memoria joyciana. La sintassi, al contrario, si complica rispetto a SS, e nonostante la polifonia e il ritmo concitato aprano la strada a una struttura a ritmo binario o ternario, e talvolta all’elenco, il discorso diviene più fluido. Ricompaiono le virgole e le sequenze ipotattiche, le progressioni e le proposizioni dichiarative, che pure, a volte, si strozzano in sospensioni improvvise e incisi nominali, come nel finale: «A domani Laszlo, grazie Kentrup, buonanotte paní Kentrupová (in cucina che riassetta). Ma poi» (Fd, p. 86). Sono da segnalare due sequenze anaforiche piuttosto lunghe, che si collocano in punti strategici. Il primo segnala una stasi della distanza di Antonio da Frau Doktor, e la noia di lui nella solitudine dell’abitazione di Meclemburgo, riflessa nel presagio di lei e conchiusa da una struttura circolare – riporto il brano sfrondando la parte centrale:
E poi nel niente. Niente di sera d’autunno. Niente di bus. Niente di sobborgo. Niente di oscurità. Niente di scale. Niente di ascensore. Niente di convenevoli. Niente di commenti col vicino. Niente di familiari futilità. Niente di lavori serali. Niente di niente nella camera unica dove unica muore ogni notte. Niente di convivenze rifiutate. Niente di impossibilità caparbiamente volute. Niente di pagine di diario. Niente di lettere, mon cher je n’ai rien à te dire pour ce qui concerne ma vie (…) E poi nel niente. E poi nel buio con gli occhi aperti al telefono che di tanto in tanto squilla nel corridoio ma per altri. E nemmeno più il telefono quando la notte è decisamente notte e il niente è niente senza rimedio e stesa sul letto lei aspetta il regalo del sonno da un attimo di distrazione. (Fd, p. 74)
La seconda sequenza di anafore si presenta nel momento culminante dell’incontro, stavolta reale, fra Antonio e Frau Doktor all’ambulatorio. Nel vedere il «gentile arcangelo» (Fd, p. 84), l’euforia dell’elenco vocativo è sfumata dalle antinomie della figura amata, dal suo concretarsi come donna possibile, tutt’altro che sublimata (ma non manca, nel finale del brano, un rimando ribassato al giorno della resurrezione) e anticipa le soluzioni contenute in O beatrice (1971) in componimenti come Alla beatrice (la cui datazione è però incerta fra un presumibile 1968 e il 1970) o Ode a una misteriosa dama di nome Maria (1970):
(lettera di lei, lei che appare nel vano della porta, lei sulla spiaggia, lei con te in un confortevole albergo di San Pellegrino, lei professorale, lei che ride, lei incazzata, lei vecchia strega e civetta, lei impaurita, lei in lacrime che vuol fare l’ironica, lei che vuol stupirti e che tu ti stupisca con lei, lei che telefona da una stazione, lei in sogno che grida: corri, lei che gioca e sempre lei, semper eadem, per secoli di secoli); perché già fosse il giorno che ancora prima di lei aspettavi (ma chi poteva immaginarlo, lei Frau Doktor!); perché già fosse il giorno che sarebbe stato semplicemente il primo dopo il giorno ultimo della vita. (Ibidem)
Al di là delle possibili anticipazioni di più riconoscibili realizzazioni in poesia, e delle influenze da Joyce, rimane Kafka l’autore modernista che si percepisce più d’immediato a livello tematico: la sensazione inemendabile di essere fuori posto passa per l’estrema ordinarietà del protagonista, di cui viene taciuta la professione o anche qualsiasi altra informazione sul passato (altro tratto comune a SS), e il suo essere un uomo come tanti sia nelle abitudini che nelle trasgressioni è avvertito dal narratore, posto appena dietro la spalla di Antonio, con un misto di ironia bonaria e colpevole insofferenza trattenuta («egli cerca soltanto qualche eccezione alla regola, egli zampilla talvolta, egli rientrerà nell’alveo sempre», Fd, p. 66). Se la sua paranoia, nella situazione di partenza dell’aereo, è tratteggiata con chiarezza, essa si raddoppia di fronte alla prima visione di Frau Doktor, la donna amata, per le strade di Meclemburgo. Di più, essa costituisce il nerbo del racconto, incentrato sull’amore a distanza di Antonio per questa figura insieme assolutamente ordinaria (come suggerisce la spigolosa formula onomastica di «Frau Doktor», il lavoro di routine allo studio medico e l’aspetto dimesso con «occhiali, camice bianco, occhi grigi», Fd, p. 71) ed elusiva apparizione, che si dilegua e si ripresenta nelle molteplici formule manierate dalla poesia provenzale (una prima traccia di Salutz, 1986?): Frau Doktor, che apprendiamo essere una donna divorziata solo nelle ultime righe del racconto, è la «Buona Signora» contrapposta al giovanile amore della «proterva Euridice»(Fd, p. 75) – che pure ha qualcosa a che fare con i racconti di Giudici, come sarà precisato – e poi, all’opposto, la «Dama Criminale, e nella sintesi la «Buona Perfida Signora», e infine la «Ridicola Dama» (Fd, pp. 75-6). La donna esiste in un’oscillazione di mascheramenti sovrapposti che la fa apparire ben più vera nelle fantasie cangianti di Antonio che non nella realtà, dove si dà un solo incontro infausto e poco brillante, all’ambulatorio, per un malore prima simulato da Antonio e poi effettivamente sopraggiunto. Così, dopo la prima visione di Frau Doktor per le strade di Meclemburgo, ella tornerà onirica e due volte reale in varie scene. Dapprima, in una fantasia folle e infantile:
Antonio ha seguito sulla carta l’itinerario che sarebbe stato quello inevitabilmente seguito dalla Figura qualora fortunosamente liquidato il Baffetto, scuoiatolo debitamente e rivestitosi della sua pelle con guance più glabre che mai (Fd, p. 70)[42]
Successivamente, si immagina che Frau Doktor parli attraverso una ricetrasmittente, che possa consentire ad Antonio di seguire meglio gli spostamenti di lei. Il clou onirico è collocato nel centro del racconto, nella dodicesima pagina (Fd ne è lungo 23), e presenta anzitutto un raddoppiamento di Frau Doktor nelle sue due maschere di presenza femminile perturbante e di anonima dottoressa d’ambulatorio. Le due immagini erotiche vanno a comporre una scena macabra e stregonesca, in cui la figura sensuale e nerissima della Dama Criminale porta legata in una scatola di cellofan, come una bambola inerme, il suo doppio ordinario di medico d’ambulatorio, «emergente ma disperata a causa del malefizio che a tali sconvenienti proporzioni l’ha ridotta» (Fd, p. 75). In questa scena onirica e ovattata, che sarebbe arduo ricondurre a criteri di decifrazione simbolica o allegorica, eros e violenza si sovrappongono nell’attimo in cui Antonio, per liberare la bambola di Frau Doktor, non può fare a meno di «afferrare una roncola vibrarla sulla nuca della Buona Perfida Signora» (Ibidem), ma la sua aggressività sognante, che solo qui pare sfuggire al suo controllo, permette di rivelare in Frau Doktor una malizia tutt’altro che inconsapevole: la donna, da mostro e vittima, diviene smagata e perplessa seduttrice, come chiarisce un monologo interiore della donna lungo circa dieci righe su come e quando spogliarsi per Antonio, collocato temporalmente «in quel solo attimo che, tra roncola e nuca, sussiste uno spazio d’aria, e zàc il colpo» (Fd, p. 76). Come si vede, il rapporto erotico è prevalentemente sognato da Antonio, che fa vivere Frau Doktor nella sua immaginazione, e arriva a pensare di determinarne il destino attraverso gesti di umoristica paranoia, come quando s’illude che vincendo una partita a biliardino contro alcuni meclemburghesi potrà determinarne la salvezza («se vado bene, pensa, ella è salva», e ancora «”Lei pensa a te”, dice la congiuntura delle sfere. Ma perché non dà un segno?», Fd, p. 77). Ma anche questa, direbbe il Kafka di Alberi, è un’apparenza: il sogno omicida di Antonio termina con l’apparizione di Frau Doktor in abito da cocktail, disincantata e chic, a sdrammatizzare la tensione nervosa del protagonista con la rassicurazione che «non c’è nemmeno bisogno di stendere l’atto di morte, per una capocchia di spillo» (Fd, p. 76). Dopo l’unico incontro reale fra i due, di cui s’è già detto, rimane l’ipotesi di un successivo incontro stavolta sensuale, nella richiesta imbarazzata di Antonio al suo affittacamere per avere la stanza per altre due ore «senza far caso a chi ci porto» (Fd, p. 85): eppure, il presagio resta troncato dall’estraneità di Frau Doktor al «delizioso marchingegno che Antonio sta allestendo pezzo a pezzo» (Fd, p. 86), dato nel breve tratteggio della donna dormiente, a casa sua, palesemente estranea alle architetture di Antonio, come sottolinea bene sia il repentino cambio di scena con focalizzazione esterna sia l’inciso sospeso «Ma poi.», che fa sospettare che la camera del protagonista rimarrà vuota. Il perfetto scenario di questo intrico di apparenze in cui nulla è come sembra (persino «il portiere giunto in sostituzione del portiere dimissionario non sembrava un vero portiere», Fd, p. 77) sarà perciò Meclemburgo, città immaginaria e trasognata in cui «tutto fluisce, scivola, smotta» (Fd, p. 79), nonché ambiente familiare alla poesia di Giudici, come ha fatto notare Edoardo Esposito nella sua Introduzione a FD[43]. Al tempo stesso, al pari di Frau Doktor, Meclemburgo ha un risvolto concretissimo che ci ricollega all’anno della stesura, il 1968, e alla città che Giudici visitò proprio l’anno prima rimanendone fortemente colpito: Praga, città anche di Kafka. Pochi dubbi sussistono sulla corrispondenza delle due città: potrebbe essere utile fare un confronto fra la mancanza di nome e di riferimenti di Meclemburgo («Meclemburgo non è un nome che appare sulle carte», Fd, p. 69), che la contraddistingue quale città del sogno, e la descrizione di Praga in una prosa parallela di Giudici di carattere più lirico-digressivo, iniziata nel 1967 e finita solo vent’anni dopo, che s’intitola in modo eloquente Quella città non aveva un nome. Qui Giudici parla di una città labirintica ed estranea, dove la lingua ceca è «liscia parete di pietra nera, senza percepibile appiglio a cui tenersi»[44], una metropoli che esiste dapprima nei suoi sogni e poi s’impone, una volta visitata, come sospetto di poesia, anch’essa elusiva e amata apparizione, ben più che un fondale in Fd. Questo secondo racconto, insomma, per quanto inedito e abbandonato a favore di scelte di scrittura più sentite, è in stretto collegamento con la produzione di Giudici di quegli anni, ne costituisce quasi un banco di prova e insieme un contrappeso essenziale sul piano stilistico, un laboratorio temporaneo abbandonato ben presto. Ciò è evidente soprattutto sul piano linguistico, per il quale vorrei tornare a SS e compiere una conclusiva digressione.
Ipotesi sul rapporto fra prosa e poesia intorno al 1965
Anche se Giudici la pensava diversamente, e la sua opera ha concorso a far risaltare ciò, mi pare che il fallimento di SS non sia integrale, ma che invece l’esperimento del romanzo funzioni in maniera egregia se lo ricontestualizziamo nell’ambito del laboratorio formale di Giudici in quel periodo del 1965. Vale a dire, mi pare che lo sperimentalismo linguistico e sintattico di Giudici in SS sia condotto con una spregiudicatezza che il Giudici poeta ancora non dimostra, nel 1964-65, con altrettanta convinzione. Il plurilinguismo, la confusione di voci dialoganti, la commistione raffinata di «entrambi i sensi / del sublime – l’infame, l’illustre»[45], la tendenza al turpiloquio e al dialettalismo (anche in forme disfemiche) sono tutte presenti in SS. Esse sono sì anticipate, in qualche modo, da alcune poesie che si muovono in un’ottica anticlassicista più decisa, risalenti al 1964[46]. Ne sono esempio due poesie contenute nell’Educazione cattolica, sezione della Vita in versi. In Arrivò sulla spiaggia con un sandolino Giudici commenta un suo stesso ricordo utilizzando l’inglese: «Really ‘twas the first Englishman I saw / -ed era un certo capitano Sullivan, / sailing alone to Australia in a small boat, / a few months before the war …»[47], mentre sul lato dell’aiscrologia la poesia immediatamente successiva si pone su un registro umile e “volgare” sin dall’incipit che ne costituisce il titolo: Governoladro ioboia – più spesso con tutta la D[48], o la più nota Port-Royal, sempre in La vita in versi, che propone una ripetuta commistione di, in questo caso, italiano e francese, con effetti ribassanti che preludono, oltre che alle narrazioni in versi più libere degli anni successivi, alla prosa di SS.
L’influsso di SS sulle poesie coeve è ancora più forte, mi pare, per le prime poesie scritte nel 1965, che troveranno posto in Autobiologia: una su tutte, Euridice. La poesia, iniziata, come testimonia l’agenda, a fine marzo 1965 e pubblicata sui «Quaderni piacentini»[49], è una delle più antiche della raccolta del 1969. Sin dalle prime battute, spicca il carattere anti-idealistico dell’apparizione femminile custodita nella memoria del poeta:
Ridicola mitologia,
quando ognuno capisce
che tu fosti la mia
giovanile occasione,
sprecata da coglione!
(…)
-con poche tette e niente pansa e cul
e senza l’altra cosa che non dice
la canzone de la dona del Friûl,
o mia vecchia Euridice![50]
Nel ricordo, caricato di brama concretissima e piena di risvolti comici, la figura di Euridice condivide il suo destino con le molte figure femminili che popolano la Scandinavia del tentativo di romanzo di Giudici. È significativo, a tale proposito, che almeno il primo abbozzo di Euridice sia orientato alla scrittura in prosa, e non alla composizione in versi, come riporta l’Agenda 1965. All’altezza del 30 marzo, Giudici pensa a una «fiaba moderna centrata sul mito (sulla seconda parte del mito) di Euridice»[51], e un appunto di tre giorni dopo, datato al 2 aprile, chiarisce che almeno il progetto iniziale era incentrato su una narrazione:
Anche l’Euridice moderna che volevo tratteggiare nel racconto può ben prendere corpo nella poesia. Senza voler strafare. Non connotarla necessariamente in senso moderno. vedere cosa succede. Penso se non sia il caso di tentare la stesura in prosa narrativa. (AG, Ibidem)
A prescindere dalla notazione, il mio parere è che vi siano delle soluzioni, sul piano linguistico come su quello sintattico, che vanno in direzione anti-classicistica e plurilinguista e compaiono con maggiore evidenza e frequenza in SS, e molto meno nelle poesie coeve, o appena precedenti, confluite a seconda dei casi in La vita in versi o in Autobiologia, mentre da O beatrice (1971) in avanti lo sperimentalismo poetico di Giudici acquisirà caratteri autonomi, capaci di distinguerlo non solo dalla sua precedente produzione ma anche, con decisione, dagli altri grandi poeti della sua generazione (da Zanzotto, il grande amico a distanza, come da altri grandi eversori della forma monolinguista). Ha notato giustamente Simona Morando:
In questa intensa dialettica, la prosa – luogo privilegiato, secondo i canoni, della narrazione – fa la sua presenza di volta in volta con diverso accento e con l’intento, affatto secondario, di fungere da indispensabile punteggiatura dei momenti di svolta – e in poesia i momenti di svolta sono sempre momenti di tensione linguistica – sostenendo la tesi di una ricerca di stile. Un luogo dove affilare con pazienza i propri strumenti (…)[52]
Aggiungo alla sua riflessione concisa solo un punto: sulla scorta della nota di lettura per Il colore blu della morte, racconto inviato a «Diario» nel 1999, sembra che Giudici provi meno impaccio a forzare la prosa con la sua ironia linguistica, e si permetta quindi cose che nel medium poetico, sentito ancora nel suo carattere illustre, non si permetterebbe. Una volta utilizzate le «forme logore» nella prosa per i suoi scopi, e constatata l’impossibilità di raggiungere il pubblico dei romanzi “commerciali” a causa dell’inefficacia di un impianto narrativo modernista e comicamente manieristico, ma poco originale, Giudici non avrebbe avuto problemi ad abbandonare sostanzialmente la prosa per la poesia, ritenendosi (a ragione) molto più versato in quest’ultima[53]. O, chissà, potrebbero esserci state anche ragioni più profonde di cui per ora non siamo a conoscenza. Forse, parafrasando la poesia incipitaria di O beatrice: «Mi piacerebbe ma non vorrei essere un romanziere»[54].
***
Desidero ringraziare i figli di Giovanni Giudici, Corrado e Gino Alberto Giudici, per avermi autorizzato a consultare i racconti inediti e le agende del padre, conservati presso l’Archivio Giudici al Centro Apice di Milano, nonché a pubblicarne dei brevi estratti. Ringrazio inoltre tutti gli archivisti del Centro per la premura e la disponibilità.
[1] G. Giudici, La vita in versi (1965) in I versi della vita (d’ora in avanti VV), a cura di R. Zucco, con un saggio introduttivo di C. Ossola, cronologia a cura di C. Di Alesio, Milano, 2000, p. 115, vv. 1-3.
[2] Ovviamente, gli esempi primari di tale tendenza vanno collocati all’origine della poesia di Giudici. V. per esempio, nella prima raccolta edita Fiorì d’improvviso (Roma, 1953) Cartoline italiane (ora in VV, pp. 1262-1263). Né trascurerei la raccolta L’intelligenza col nemico (Milano, 1957), in cui però domina la voce dell’io.
[3] Con più decisione da Autobiologia (1969) in poi; si potrebbero citare Teatro o la sezione Pantomime di Praga, in particolare la conclusiva Le cose, le spine, ma gli esempi sono numerosi.
[4] C. Ossola, Giovanni Giudici: «L’anima e il nome» in VV, p. XLIII. A questi nomi aggiungerei almeno quelli di Saba e Gozzano. Il primo ha spesso oscillato, a seconda dell’occasione, fra forma chiusa o breve (come in Parole, 1934) e narrazione in versi (un po’ ovunque nel Canzoniere), il secondo è stato, sulla traccia di d’Annunzio, un originale rielaboratore della forma-poema in chiave prosastica.
[5] V. almeno A. Berardinelli, La poesia verso la prosa: controversie sulla lirica moderna, Torino 1994. Non è casuale che Berardinelli sia fra i critici più sensibili verso la poesia di Giudici, dagli anni ’80 in poi.
[6] D’ora in avanti AG.
[7] AG, Racconti degli anni ’40, s. 3, b8 UA1. I racconti sono manoscritti (a meno di diverse indicazioni), datati e firmati, li menziono in ordine di catalogazione (da 1/1 a 1/8): Figure bionde e brune (1943, 4 pp.), La burrasca (agosto 1943, 4 pp.), Bust (Oslo) (3-4 settembre 1943, 4 pp.), NIK alla festa (settembre 1943, 5 pp.), Un inventore (novembre 1943, 5 pp.), L’odore d’acetilene (luglio 1944, 4 pp.), Il colore blu della morte (luglio-agosto 1945, dattiloscritto, 5 pp.), Uomini a gara (settembre 1945, dattiloscritto, 1 p.).
[8] Il racconto e la nota di sotto riportata furono pubblicati in «Diario», 18, IV, 5-11 maggio 1999. Ringrazio Carlo Di Alesio per i chiarimenti datimi in merito.
[9] AG, s. 3 b8 UA1, 1/7 Il colore blu della morte. Il racconto è conservato in duplice copia. La prima, datata luglio-agosto 1945, è la fotocopia di un testo dattiloscritto di 5 facciate (solo recto) numerate. Sul verso del primo foglio c’è scritto a penna: «Caro Giovanni, / eccoti la fotocopia del racconto -/ A presto – [illeggibile] / Carlo». Sopra il titolo del racconto, a p. 1, si legge una scritta a mano fotocopiata: «19030 La serra di Lerici». Il “Carlo” è verosimilmente Carlo Di Alesio. La seconda copia, appare scritta al computer, reca il titolo: IL COLORE BLU DELLA MORTE (x Diario). È numerata sia a macchina (al computer) che a matita in alto a destra, non presenta correzioni ma solo un’aggiunta a matita sopra il titolo: «X dai Giudici per Jacchia». Il racconto è di 6 pagine (solo recto), più settima pagina scritta a macchina verosimilmente da Giudici stesso, contenente la citazione che ho riportato a testo.
[10] AG, Quaderno / Giovanni Giudici in Taccuini e quaderni anni ’50, s. 6. 2 b9 UA3. Quaderno di medio formato con copertina in pelle nera, a quadretti con 94 facciate non numerate scritte in corsivo a penna blu (prevalentemente) e penna nera, cinque pagine scritte con un pennarello verde mela. Le ultime cinque pagine sono bianche. La citazione riportata è a p. 8 e non è datata, anche se verosimilmente risale al 1949 o al 1950. È interessante notare che dopo «Secondo me dovrem-» il discorso si interrompe a fine pagina perché le tre successive sono state strappate, non abbastanza però da non far vedere che esse erano scritte e, forse, proseguivano il discorso.
[11] Ibidem, pp. 52-54. Le parentesi quadre sono mie, indicano le cancellature e i passi di ardua decifrazione. Sottolineature di Giudici.
[12] Si prendono perciò a riferimento le Agende 1960-1989 in AG, s. 6. 3, b9 UA 17-26.
[13] Agenda 1961 in Agende 1960-1989, cit., UA 18. Agenda di marca («Agenda Italia 1961»), come saranno quelle del 1963 (UA 21), 1964 (UA 23) e 1965 (UA 24).
[14] D’ora in avanti SS.
[15] C. Di Alesio, Cronologia in VV, p. LXXII.
[16] Ibidem, p. LXXIII.
[17] G. Giudici, Frau Doktor, Milano, 1989.
[18] S. Morando, Memoria, invenzione, viaggio: propositi di narrazione di Giovanni Giudici in «Hortus», 18, 1995.
[19] L’elenco ordinato dei testi editi, con luogo e data di pubblicazione, è contenuto nella succitata introduzione a Frau Doktor (d’ora in avanti FD), p. 13.
[20] E. Esposito, Introduzione a FD, p. 5.
[21] D’ora in poi, il personaggio sarà chiamato Giovanni, anche se nel racconto, narrato in prima persona, il nome non viene mai menzionato. Uso tale dicitura per distinguere il personaggio dall’autore Giudici ed evitare confusioni.
[22] A un certo punto nel racconto, Giovanni viene preso per spagnolo da una guida svedese, e invece di dissipare l’equivoco lo rimarca, evidenziando così il suo straniamento di identità: «Io no spagnolo, io aegyptian», SS, p. 26.
[23] In un monologo interiore per strada, Giovanni pensa: «Bambine si sa. Non vorresti mica pensare. No. Ma ti pare. D’altra parte così giovani e così callipigie. Poi anche più grandi. Facciamo quindici. Vergogna. Una bambina. Piantiamola con queste storie della bambina. Sagra del culo scandinavo. Meglio che sagra musicale umbra», SS, p. 31. La dialogicità interna si volge qui a intenti comici a un elegante limite fra trivialità e reticenza.
[24] Solo in un passaggio, quando Giovanni dialoga con una coppia di italiani a Stoccolma, si esprime alla prima persona plurale lasciando intendere di essere con la moglie: «Ah meraviglia. Italiani. Di dove. Milano. Anche noi. Oh che bella festa. Sembrare anche loro coniugi», SS, p. 32.
[25] Mi sembra significativo che Gozzano sia citato proprio all’inizio di SS. Si sta parlando di alcune hostess sul jet dove viaggia Giovanni: «Scarpe senza tacco. Sole sesso e sport. Altri versi di Gozzano in proposito: ben si difende con le mani tozze – del pugilato esperte. Sorridenti pazienti premurose. La non giovane signorina che va ad Aarhus la città più antica della Danimarca per una vacanza di due giorni vomita sul sedile», SS, p. 19. Il discorso joyciano ingloba e camuffa le citazioni fra i pensieri e i discorsi, con un uso della punteggiatura legato a criteri più espressivi che logico-grammaticali.
[26] Con «unità melodica» intendo una porzione minima del discorso con forma musicale determinata, secondo la definizione di G. L. Beccaria, Ritmo e melodia nella prosa italiana: studi e ricerche sulla prosa d’arte, Firenze, 1964.
[27] AG, Agenda 1965, UA 24. Quaderno di medio formato a righe, scritto in corsivo, con la penna blu.
[28] Nota dell’8 aprile in Ibidem.
[29] Poi riportata in Autobiologia, VV, p. 157.
[30] La frase è contenuta in un paragrafo di buoni propositi, sempre nell’Agenda 1965 in AG.
[31] La «Grazia» citata è verosimilmente Grazia Cherchi, amica e lettrice di Giudici.
[32] Ringrazio Simona Morando per aver ricontrollato la correttezza di questa informazione.
[33] V. Il pubblico della poesia, a cura di A. Berardinelli, F. Cordelli, Cosenza, 1975.
[34] Agenda 1965 in AG.
[35] Per distinguerlo dalla raccolta omonima, il racconto andrà sotto la sigla Fd.
[36] Il primo uscito su «L’illustrazione italiana» nel numero di dicembre 1981-gennaio 1982, il secondo col titolo Dente per dente su «L’Espresso», 16 agosto 1987. Informazioni reperite in FD, p. 13; in questo volume sono ripubblicate.
[37] «Egli, babbeo, a commuoversi dentro perché ha veduto due tipi di Meclemburgo, a pensare chissà voleranno con me, mi siederanno a fianco, sigaretta permette, oppure un disinvolto commento, sardonico, in inglese, per il brusco decollo, per il brusco atterraggio», Fd, pp. 64-65.
[38] V. la programmatica Mi chiedi cosa vuol dire, sull’alienazione in senso marxista, o la più celebre Una sera come tante, entrambe in VV.
[39] Ma v. poco più avanti il para-manzoniano addio ai compagni di volo che ricalca l’”addio ai monti” del capitolo VIII dei Promessi sposi: «si fa strada a furor di gomiti verso la prima porta di vetro, egli non volerà con loro, addio conversazione casuale, addio commento sui cattivi cibi che oggidì si ammanniscono sugli aerei», Fd, p. 66; nonché la citazione “figurale” dei «due monatti a tutto pronti in caso di bisogna» che accompagnano Antonio a una visita medica dall’amata Frau Doktor; v. anche la descrizione di una busta da lettere di un ufficio medico, con il consueto disegno esculapico, che diventa una baudelairiana «foresta di simboli» ribassata (Fd, p. 80) e il sussurro shakespeariano che giunge alle orecchie di Antonio in una sua fantasia («E alle sue spalle una voce: How much ado for nothing!», Fd, p. 76). Unica eccezione è la citazione dal contemporaneo Queneau (Fd, p. 64), la cui fonte è esplicitata a testo tramite una parentesi quadra.
[40] Fd, pp. 71, 75, 77, 79, 80, 81.
[41] V. per l’iperbato «La piccola ma pulita si fa per dire locanda» (Fd, p. 71) e, fra i vari esempi di anastrofe, per esempio, «gli occhi suoi grigi» (Fd, p. 77),
[42] Il Baffetto è un passeggero dell’aereo con cui Antonio è atterrato a Meclemburgo, che ricorda comicamente Hitler per il suo aspetto.
[43] Meclemburgo, o Meklemburgo, compare difatti in Versi (poesia di Autobiologia) e Contrappasso (nella raccolta Lume dei tuoi misteri, 1984).
[44] G. Giudici, Quella città non aveva nome in FD, p. 171 (apparsa in una prima versione in Idem, Omaggio a Praga, Milano, 1968, e poi rimaneggiata in «l’Unità» del 10 settembre 1987).
[45] Riprendo la coppia antinomica di La vita in versi in VV, p. 115, vv. 11-12.
[46] Alcune sporadiche formule colloquiali o volgari, è chiaro, sono presenti anche nella produzione precedente. V. per es. Tanto giovane, caso comunque abbastanza isolato: «”Tanto giovane e tanto puttana”: / ciài la nomina e forse non è / colpa tua – è la maglia di lana / nera e stretta che sparla di te», in La vita in versi, VV, p. 28, vv. 1-4.
[47] XI. Arrivò sulla spiaggia con un sandolino in VV, p. 86, vv. 15-18.
[48] XII, in VV, p. 87, v. 1. Da notare anche il discorso diretto riportato al verso 9: «Un culo è sempre un culo e il duce è un fesso», v. 9.
[49] Precisamente in «Quaderni piacentini», IV, 25, dicembre 1965, p. 97. Ricavo questa informazione dall’Apparato critico a VV, a cura di R. Zucco, p. 1423.
[50] Euridice in VV, pp. 157-158, vv. 6-10, 26-29.
[51] Agenda 1965 in AG. Alla data del 30 marzo risale la prima notizia su Euridice.
[52] S. Morando, art. cit., p. 25.
[53] Morando, ancora, nota: «la prosa resta un passaggio, spesso luminoso, di una transitoria ispirazione», Ibidem.
[54] Mi riferisco ovviamente alla poesia Mi piacerebbe ma non vorrei essere un poeta tragico in VV, p. 241, datata al 1968.
[Giovanni Giudici]
bellissimo intervento; è sempre un autore da rileggere, un saggista che
illumina e un poeta che rilancia il senso della vita, con il peso del quotidiano
Caro Marchese,
Grazie: ho letto molto volentieri, ripensando meglio anche la poesia di Giudici.
Quando si trascrive la lettera datata 3 agosto 1952, al quinto rigo, la parola illeggibile dell’opera di Renoir mi pare che potrebbe essere “carrosse”: si tratterebbe del film “LaCarrosse d’or” (1952), con Anna Magnani: una fantasia all’Italiana, che potrebbe del resto arricchire l’aggettivo neorealista, oltre che di risonanze allegoriche e politiche, di un respiro fantasioso e, come dice lo stesso Giudici, poetico.
grazie mille a Lotierzo e Brogi per i commenti. In particolare, la precisazione su “La Carrosse d’or”, che non conoscevo, mi sembra quanto mai opportuna, e si accorda con l’intento misto che, mi pare, Giudici voleva dare al romanzo abbozzato: fiabesco e politico, sognante e di denuncia. Avrei potuto in effetti sciogliere l’illeggibilità della grafia di Giudici (a tratti bloccante) dando una scorsa all’opera di Renoir. Grazie davvero, un’osservazione preziosa.