di Paolo Gervasi

Cesare Garboli è stato un avaro custode della propria scrittura: solo una piccola porzione dei suoi articoli e interventi, o degli scritti legati all’attività editoriale, ha superato l’occasionalità ed è stata raccolta in volume. Il libro recentemente pubblicato da Adelphi e curato da Laura Desideri e Domenico Scarpa, La gioia della partita. Scritti 1950-1977, restituisce la conoscenza di una parte significativa di questa produzione sommersa, del lavoro quotidiano che non è andato a coagularsi nell’opera saggistica. Ma che dell’opera è parte integrante, se è vero che nel caso di Garboli il senso dell’opera consiste proprio nel rovesciare il carattere secondario, funzionale e paratestuale, servile e occasionale, dello scrivere critico. La critica assume su di sé, come Sganarello di fronte a Don Giovanni, tutte le domande del testo, e non solo: dell’esperienza umana che il testo trasfigura. Il lavoro diventa creazione, il critico si scopre scrittore, e la sua produzione acquista un significato autonomo. Anche per questo La gioia della partita non è un volume apocrifo o postumo: è un libro di Garboli, che come i libri di Garboli pubblicati in vita afferma la ragione di leggere un critico – questo critico – di per sé, staccando i suoi testi dalle loro occasioni.

Questo primo volume di un dittico che restituirà una parte degli scritti dispersi dell’intera carriera di Garboli, poi, ha il merito supplementare di offrire un ritratto del critico da giovane, di restaurare, con parsimonia e oculatezza, un periodo che la severa selezione d’autore aveva più vigorosamente inabissato: il periodo incipitario, quello degli anni Cinquanta e Sessanta. Del quale fa parte anche la scrittura più propriamente editoriale, sempre citata quasi come mitologica attività di Garboli, e ora concretamente verificabile grazie alla selezione di risvolti e presentazioni pubblicata nella sezione del libro intitolata allo «scrittore-editore», secondo l’autodefinizione che Garboli utilizzava, non senza il gusto della sprezzatura, per sottolineare la natura gregaria della propria ispirazione.

Dagli scritti appartenenti ai «brevi anni Cinquanta», come da titolo della prima sezione, emerge il testo che apre il libro, e lo intona, collocando da subito Garboli in una posizione assolutamente anomala nel paesaggio intellettuale del nostro Novecento. Garboli commenta la morte di Pavese strappandola alle interpretazioni ideologiche, alle forzature operate per esorcizzare lo scandalo del rifiuto di vivere, e la inserisce in una dimensione esistenziale che le restituisce tutta la sua disperata vitalità: «voler anche soltanto spiegare una morte», scrive Garboli allontanandosi dal «chiacchierio» suscitato dal suicidio, «trovarne la storia segreta non risponde che alla paura e allo sgomento di doverne altrimenti comprendere più profondamente il significato». Garboli va a cercare nei libri di Pavese le ragioni umane che lo hanno messo di fronte non alla vanità della vita, ma al suo «limite». La pagina letteraria, investita dal peso della morte, si ispessisce, e va letta «non come una parola da discutere o giudicare, ma come una confessione da comprendere». Nell’opera di Pavese, proprio nel momento in cui intorno a lui infuria il dibattito ideologico, Garboli rintraccia la forma del «problema umano», ritrova al fondo dell’esigenza narrativa il sentimeno della «solitudine naturale, primitiva» che diventa la «struttura stessa del personaggio e dell’uomo». Garboli, anticipando una mossa che diventerà ricorrente nella sua critica, scopre un «Pavese segreto», il rovescio dell’intellettuale engagée che piega la propria scrittura alle esigenze di una «causa». Si tratta, come nei Dialoghi con Leucò, di uno scrittore che elabora «un senso così struggente delle cose che vengono e vanno per nessun’altra ragione che questa». Garboli spara in chiesa, letteralmente: sottrae la letteratura ai chierici che si fronteggiano all’inizio dei plumbei anni Cinquanta. E non sorprende, da parte di chi, anni dopo, potrà scrivere: «Sono comunista, ma anche Sagittario», opponendo alla rigidità degli schieramenti ideologici l’umoralità umbratile e misteriosa del carattere.

Lo stesso rifiuto di griglie interpretative aprioristiche Garboli pratica in un articolo dedicato a Limelight di Charlie Chaplin, scritto in riposta a un intervento di Carlo Muscetta che del film aveva dato un’interpretazione severamente ideologica, rispolverando l’accusa di «decadentismo» nei confronti di un’opera che sembra ignorare, scriveva Muscetta, le «vittorie irrevocabili» ottenute dalla «ideologia del materialismo». All’intellettualizzazione e moralizzazione della lettura ideologica, Garboli oppone la ricerca di significati radicati nel «vivo del nostro tempo», che reagiscono e danno forma a un «sentimento popolare», e lo fanno asportando dal film «ogni possibile senso letterario»: è per questo, insinua Garboli, che l’«umanista» Muscetta non può comprenderlo, non riuscendo, al netto dei filtri culturali, a «guardare dritto in faccia a quel che vuole dire».

Garboli, al contrario, spoglia il film di ogni armatura estetica o intellettuale, e punta dritto al cuore della sua vitalità, alle sue strategie di rappresentazione di un altro «problema umano» fondamentale: l’amore, inteso come pulsione istintiva, «magnetismo», e come compenetrazione fisica, filamentosa, cellulare di due esistenze. Al materialismo dialettico Garboli contrappone un materialismo biologico.

La storia d’amore della ballerina Terry e del clown Calvero emerge dalle profondità della «solitudine di ciascuno», e innesca una rinascita che è letteralmente rifondazione radicale dei circuiti vitali. Attraverso l’amore Limelight arriva a rappresentare la vita nella sua scabra potenza originaria: «La macchina da presa isola fin dall’inizio la persona fisica di Calvero e non la lascia un istante, se non compare sullo schermo c’è un vuoto e tutto morrebbe intorno a Terry senza quella figura in cui si concentra il senso della vita stessa; così come muore tutto intorno al clown che assiste all’agonia di Colombina perché da Colombina gli vengono il respiro e i suoi scherzi e niente più conta, né il prossimo, né il mondo, né Dio, forme e cose vane: conta la vita di lei, la vita schietta e nuda, e basta».

Questa frase senza respiro, che restituisce sintatticamente l’esigenza fisica della presenza dell’altro, mettendo in evidenza le qualità stilistiche della scrittura di Garboli, afferma l’importanza di una rappresentazione artistica della «nuda vita», dell’esistenza inerte che resiste ai discorsi, alle mistificazioni ideologiche, alle pratiche del potere, all’estetizzazione, e perfino, in qualche misura, alla critica. Garboli intuisce una dimensione dell’umano che parla una lingua imprevedibile, non irregimentabile, la lingua universale dei fatti interiori, e che può esprimersi anche attraverso stereotipi, con il «vocabolo della lingua che tutti parlano»: proprio nella forma semplice dell’espressione si cela una verità essenziale, la rappresentazione del quid indivisibile dell’esistenza, dell’«elemento inqualificabile che spinge una pietra a stare in un modo, a fiorire la rosa in un altro».

Nell’individuazione di questo «naturalismo estremo», in questo «umanesimo integrale» che supera quello culturale e intellettuale, sta il senso della ricerca critica di Garboli. Il gioco della partita ci consente di vederlo formulato così lucidamente già nel 1953.

La storia critica di Garboli è una fuga dalle dialettiche bloccate della tarda modernità, un sottrarsi alla mistica delle teorie, dei metodi, delle scienze, per sostare nella irriducibilità del fatto individuo, nella traccia corporea che la scrittura trattiene, nel residuo di vita che sfugge alla concettualizzazione e alla ideologizzazione. Come residuo, appunto, come sopravvivenza inattuale di un mondo che non esiste più, spesso Garboli rappresenta anche se stesso. Ma la sensibilità verso fenomeni impercettibili ai grandi apparati di cattura dei significati della modernità dimostra soprattutto che Garboli ha presentito i sommovimenti che stavano spingendo il mondo, culturale e non solo, lontano dall’infrastruttura umanistica, fondata sul logos, che lo ha fasciato per secoli.

L’ostinata esplorazione da parte di Garboli dei margini del testo, e delle zone liminari della creazione, segue quella stessa «fuga dalla parola» segnalata da George Steiner, una immane trasformazione antropologica che mette in questione le strutture stesse del linguaggio umano e il sistema di saperi che il linguaggio ha edificato. Attraverso la sua indagine del fuori, di ciò che precede il fatto letterario, del bordo della pagina che sempre aderisce al bordo della biografia, Garboli forza i limiti della letteratura come istituzione, sistema di contenimento, dispositivo di sublimazione dei fatti essenziali della vita, e incurva il linguaggio per impiegarlo nell’analisi di fenomeni non linguistici.

Garboli non è allora soltanto l’ultimo saggista, l’estremo interprete di una lunga tradizione di scrittori di secondo grado, di critici-creativi: è anche il primo, o tra i primi, interpreti di un pesaggio mutato, di un universo semiotico che richiede nuove strategie di comprensione. Tuttavia, di fronte al rischio di esplosione del sistema letterario, di diluizione della letteratura all’interno di un ambiente mediale in espansione, Garboli non decide di disertare la pagina per assumere punti di vista esterni al fatto letterario, sociologici, antropologici, culturalisti. Non cerca nell’assunzione di linguaggi divergenti la soluzione alla perdita di potere della parola. Al contrario, si rituffa nel fatto letterario, si immerge nella parola, per mostrare, contro la crisi dei loro significati e della loro funzione sociale, che le forme scritte si orginano dalla vita, dalle sue radici sporche, informi. Afferma che la letteratura riguarda l’umanità in modo viscerale, indagando il punto in cui la biografia diventa bio-grafia, scrittura del bios, e lo stile dà forma a situazioni emotive e cognitive profonde. Anche quando esce dalla letteratura, quando si sposta in altri campi, lo fa per trovare in linguaggi diversi la stessa profondità rappresentativa, la sola che dà ancora senso all’arte.

Nella coazione alla compromissione biografica che spesso gli è stata rimproverata, Garboli ha bisogno di un contatto fisico con gli scrittori e le scrittrici, ne evoca la presenza. Ma non si limita a farlo con gli autori a lui prossimi, con gli amici e le amiche: lo fa, già nei brevi anni Cinquanta, anche con «il poeta italiano più grande», Dante: «è bene immaginarlo innanzi tutto qual era fisicamente: asciutto, magro e di media statura, forse quasi tarchiato, viso lungo e grandi mascelle, labbro inferiore sporgente, ricciuto e nerissimo di capelli». Spinto dallo stesso istinto, molti anni più tardi si chiederà, scandalosamente contraddicendo ogni acquisizione sull’autonomia del testo: «se potessimo intravedere anche solo di spalle Dante Alighieri che s’inerpica sull’Appennino, non capiremmo della Divina Commedia qualcosa di più di quel che oggi ne sappiamo?».

L’evocazione delle premesse vitali della scrittura è l’unico antidoto che Garboli conosca all’avvelenamento bovaristico da immaginario, allo sclerotizzarsi autoreferenziale dell’istituzione letteraria, e anche alla sopraggiunta illegibilità del sistema semiotico tardonovecentesco: risalire dalla forma delle parole ai dati immediati dell’esistenza. È questo il senso della sua auscultazione, lunga tutta una vita, della scittura di Elsa Morante, che scavalca ogni mediazione e cerca il corpo a corpo con chi legge, «desidera essere riconosciuta subito in viso, da sguardi che non si attardino a spiarla attraverso lenti secondarie». La lingua fiabesca di Morante, semplice ed elaboratissima, immune alle impronte del tempo, indaga la «seconda natura delle cose», le «relazioni inconscie» che agiscono sotto la superficie del mondo. Renitente alla leva dell’intellettualismo, con il successo inatteso e «popolare» de La Storia Morante fa saltare il banco del sistema letterario, fa impazzire i critici e i custodi dell’istituzione, i professionisti della mediazione. Senza sperimentazioni e tecnicismi, senza imporsi una tesi, con un linguaggio analfabeta, il romanzo «si è convalidato da sé, fuori da mediazioni culturali, fuori dalle recensioni sia positive sia negative, attraverso un rapporto diretto fra scrittore e pubblico, fra scrittore e lettori, troppo presi, costoro, dalla storia raccontata dalla Morante per andare a sentire il parere del recensore». Il rigetto che questa operazione ha suscitato è paradigmatico, diventa un «campione per un’analisi dei comportamenti culturali e dei sistemi intellettuali in movimento e in conflitto nel nostro paese». E si potrebbe sospettare che se la critica professionale avesse deposto la sua arroganza, e prestato attenzione al processo di disintermediazione così precocemente descritto da Garboli, avrebbe forse trovato le contromisure per fronteggiare la propria marginalizzazione, e la quasi integrale disattivazione della propria funzione cui assistiamo attualmente.

Anche Natalia Ginzburg si ostina a lavorare sul «vissuto», sulla «puzza di esistere», attraverso uno stile che denuncia una «provenienza corporea e viscerale», e non si situa all’altezza della testa. Lo sguardo di Ginzburg trasfigura i rapporti tra esseri umani in rapporti tra animali, e travolge le codificazioni e le rappresentazioni convenzionali, il senso stesso delle istituzioni della convivenza umana: «Quale società verrà a costituirsi, in base a questi rapporti? E come definirla, tenendo presente che la casualità immemoriale di questi rapporti non solo precede, ma viene dopo le istituzioni per le quali degli esseri viventi si comportano secondo una ragione e una logica?»

La scrittura di Ginzburg disintegra il soggetto, e con esso il mondo sociale così come la modernità ce lo ha consegnato: «le particelle affettive si mescolano, si urtano, impazziscono, cioè tendono all’omogeneità, cadono e si sfasciano i modelli abituali di convivenza». La dissoluzione molecolare dell’individuo è un’intuizione che sbilancia Garboli verso il postmoderno, e verso un paesaggio post-umano, fatto di identità gassose, nel quale la misura del mondo non è più antropomorfa: «niente è più estraneo all’uomo della realtà che lo ospita», scrive lapidario in un articolo su Francis Bacon.

Di questo mondo disumanizzato e postumo, vivo di una vitalità perturbante, Garboli trova traccia anche ne L’Avare di Molière, sulla cui lettura si chiude La gioia della partita. L’analogia istituita da Garboli è folgorante: Harpagon, il vecchio avaro, è anche l’unico personaggio a mostrare segni, per quanto distorti, di umanità, e addirittura di giovinezza: è un essere decrepito scosso da sussulti incongrui di esistenza. In questa contraddizione Garboli comprende «il nesso, il rapporto oggettivo fra il denaro e la morte nella loro eterna efficienza giovanile e nella loro eterna decrepitezza». L’intuizione proietta Molière sulla necrosi drogata della finanza contemporanea, ed è la conclusione-ponte del libro, che apre verso la stagione successiva, quando il molierismo di Garboli diventerà una chiave di lettura della società e della cultura italiane che di nuovo si mette di traverso ai blocchi e alle contrapposizioni schematiche. Attraversate le lacerazioni degli anni Settanta, Tartuffe sarà per Garboli l’emblema della volontà di potere annidata nella gestione del sapere, della mistificazione intellettuale, dell’arroganza politica che prende in ostaggio le coscienze, e allontana dalla vita.

Ma per ribadire quanto La gioia della partita ci restituisca un Garboli precocemente estraneo alle metafisiche letterarie del Novecento, a una assolutizzazione del letterario che coinciderà con la sua dissoluzione, si veda l’articolo dal quale proviene il titolo del volume. Garboli parla degli scacchi, un gioco che più volte ha fornito al Novecento metafore dell’astrazione e della rarefazione intellettuale (basti pensare a Calvino). Per Garboli nella dinamica degli scacchi si realizza una situazione di assoluta immediatezza del pensiero: l’idea si trasforma in azione incontrando il minimo attrito fisico, quasi eludendo la materialità del reale. Sembrerebbe un elogio del potere incorporeo e bidimensionale della sfera intellettuale. Ma poi l’idea di immediatezza invade la vita, si riversa nell’esistenza, si impadronisce di un corpo e si scontra con l’inerzia del mondo. E la gioia della partita ritrova, per quanto tragicamente, la propria tridimensionalità: «Uno dei più grandi campioni che siano mai esistiti, Wilhelm Steinitz, al termine della sua prodigiosa carriera cominciò a soffrire di visioni. Pensava di emettere onde elettriche con le quali avrebbe spostato i pezzi senza muovere il braccio. Presumeva che si potesse telefonare senza bisogno di cavo e di ricevitore. Andava alla finestra, parlava, e aspettava la risposta da un telefono invisibile […] Steinitz era certamente pazzo, e meritevole di cure. Ma nessuno come lui, in quegli anni di follia, andò vicino al centro degli scacchi, vicinissimo a comprenderne il mistero».

[Immagine: Cesare Garboli]

 

4 thoughts on “Garboli: l’ultimo e il primo

  1. “ Come avviene per tutti i capolavori, anche la storia di Tosca può riassumersi in due righe. Nello spazio di una nottata dalle parti di corso Vittorio, a Roma, si consuma una partita a tre: Scarpia, capo della polizia, offre a Floria Tosca, cantatrice, la salvezza dell’amante in cambio della solita cosa.
    […] Meravigliosamente indifferente ai connotati napoleonici del proprio dramma e sempre amante della cartapesta, Puccini confonde da par suo, tanto per cominciare, il primo col Secondo impero, utilizzando in perfetta malafede il testo di Sardou: gli importava assai, a Puccini, del giacobinismo del patriziato romano del 1800, e delle congiure dei repubblicani, Angelotti e Cavaradossi. Uomini che piacciono alle donne, teneri e sensuali, eterni eroi di fascinosa bohème, era ciò che la volgare, angusta anima di Puccini, mentre con passo doppio sostituiva ora al Secondo Impero la belle époque, pensava veramente di loro.
    [… ] Puccini scopre con Tosca il grand-guignol, e sdegnando la Storia si avvale del triangolo Sesso, Sangue e Sadismo con sicurezza perfino imbarazzante…”

    Cesare Garboli, “La cena interrotta” [1967] in La stanza separata, Milano, Scheiwiller, 2008. pp. 157-8

  2. “ Mercoledì 14 ottobre 1998 – « Meravigliosamente indifferente ai connotati napoleonici del proprio dramma, e sempre amante della cartapesta, Puccini confonde da par suo, tanto per cominciare, il primo col Secondo Impero, utilizzando in perfetta malafede il testo di Sardou: gli importava assai, a Puccini, del giacobinismo del patriziato romano del 1800, e delle congiure dei repubblicani, Angelotti e Cavaradossi. Uomini che piacciono alle donne, teneri e sensuali, eterni eroi di fascinosa bohème, era ciò che la volgare, angusta anima di Puccini, mentre con passo doppio sostituiva ora al Secondo Impero la belle époque, pensava veramente di loro. » (Cesare Garboli, Tosca o la cena interrotta, in «Paragone Letteratura», 208, 1967) “.

  3. “Spieghiamoci ricorrendo al confronto di rito: mentre il mareggiare canoro di Verdi rende plausibili i congegni più assurdi, umanizza il meccanico, fa persone di burattini, Puccini presiede con tutta spudoratezza all’operazione opposta. Riduce le creature a ‘ombre’ che agiscono un conflitto che sembra vissuto al di qua della vita, che sembra compiere il suo tragitto in un’orbita per così dire previtale, pre-natale. Veristicamente, rifiniti, pupazzi di stoffa, i personaggi di Puccini sembrano dirci continuamente che la vita è impossibile, e che loro possono soltanto recitarla, ‘fingerla’. Non ci confidano mai una realtà possono dirci soltanto ciò che non sono. E le loro voci, al sommo della melodia, non esprimono mai lo slancio, quanto piuttosto una mancanza di respiro, un’afasia. La vita, per Puccini, è soltanto l’impotenza di viverla.”

    Cesare Garboli, “La cena interrotta” [1967] in La stanza separata, Milano, Scheiwiller, 2008. pp. 159

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