di Andrea Cortellessa
«Lo stile tardo è dentro il presente, ma ne è stranamente separato. Solo certi artisti e pensatori sono abbastanza interessati al proprio mestiere da credere che anch’esso invecchi e debba affrontare la morte con i sensi e la memoria che vengono a mancare. Come disse Adorno di Beethoven, lo stile tardo non ammette le cadenze definitive della morte; invece, la morte appare attraverso una rifrazione, come ironia». E questa ironia «è la frequenza con cui la tardività, come tema e stile, continua a ricordarci la morte». Sono le parole conclusive di Tempestività e tardività, il primo memorabile saggio di Edward W. Said fra quelli postumamente inclusi nella sua raccolta Sullo stile tardo (da noi pubblicata dal Saggiatore nel 2009); e fanno riferimento a un’altra silloge postuma, quella dei frammenti su Beethoven appunto di Theodor W. Adorno (da noi Einaudi 2001).
So che apparirà retorico mutuare le osservazioni di due importanti filosofi su un genio della musica di tutti i tempi per commentare la partita di tennis giocata (per tre ore e mezza) e vinta (del tutto contro pronostico; per la cronaca, col risultato di 6-4, 3-6, 6-1, 3-6, 6-3) da Roger Federer contro Rafael Nadal, la mattina (ora italiana) del 29 gennaio a Melbourne, in Australia: nella finale del locale Open di tennis, prima prova del Grande Slam 2017. Ma a definire un’«opera d’arte» Federer è stato un premio Nobel, J.M. Coetzee. Tanto più apparirà fuori luogo paragonare la tardività e la morte, terribilmente convocate e insieme esorcizzate dallo stile tardo di Beethoven, a qualcosa di così banale come il declino di una super-star del tennis professionistico, i cui proventi in carriera (dai soli premi ufficiali, senza dunque considerare le cifre versategli dagli sponsor, che – in termini reali – devono far almeno triplicare l’importo) sfiorano i cento milioni di dollari, e che deve ancora compiere trentasei anni (lo farà il prossimo 8 agosto): un’età alla quale Beethoven, fra i suoi capolavori, aveva all’attivo solo l’Eroica. Ma se è lecito paragonare il tennis a un’espressione artistica, allora la fine della parabola professionistica ad alto livello, per un tennista, può ben essere paragonata alla morte.
Dell’opera d’arte, infatti, Federer non ha solo quei tratti insieme fisici e metafisici che David Foster Wallace, nel suo celebrato scritto del 2006 su Federer come esperienza religiosa (ora in Id., Il tennis come esperienza religiosa, Einaudi Stile Libero 2012), ha sintetizzato definendolo «una creatura dal corpo che è insieme di carne e, in qualche modo, di luce». Ai miei occhi dell’opera d’arte Federer ha, in primo luogo, l’insieme di grazia e fragilità. La grazia non c’è bisogno di descriverla, basta guardarlo giocare anche solo per pochi secondi (io, dal vivo, ho potuto solo sbirciarlo in allenamento, dall’alto e da lontano, agli Internazionali di Roma di due anni fa, mentre appollaiato sulla terrazza del bar intervistavo l’impareggiabile Gianni Clerici. E sì: ci sono rari momenti, nella vita, in cui è lecito pensare che sia valso la pena, arrivare sino a quel momento), e chi non l’abbia fatto può benissimo andarsi a leggere Foster Wallace («è Mozart e i Metallica allo stesso tempo»).
Più difficile da spiegare, ma ai miei occhi non meno evidente, la sua fragilità. Difficile concepirla, in effetti, per chi abbia incontrato Federer ai suoi primi passi nella Gloria, per esempio – come è capitato a me – quando ha vinto il suo primo Slam (a Wimbledon nel 2003). Già allora, non ancora ventiduenne, lo svizzero di origine sudafricana allora al suo quarto anno di circuito professionistico, appariva perfetto, immacolato, come uscito dalla testa di Giove. La sopravvivenza miracolosa dell’Apollineo in un tempo deturpato dal Dionisiaco di massa dei tanti picchiatori arrotini che, dall’avvento di Ivan Lendl alla metà degli anni Ottanta, avevano fatto apparire ferri vecchi i tennisti “classici”, inventori di tocchi tagli e geometrie, il cui ultimo e divino rappresentante, John McEnroe, univa in postmoderno sincretismo Grazia ineffabile del gesto e invereconda Inurbanità di modi. Tardo, Federer, in quanto isolato e circonfuso di luce in «una sorta di esilio autoimposto da ciò che è generalmente accettabile, viene dopo di esso e sopravvive oltre» (Said).
Federer, come spiega benissimo DFW, miracolosamente univa quel sovrano equilibrio psicomotorio, quell’infallibile senso cinestetico, e quell’innata eleganza, a una potenza e a una velocità perfettamente all’altezza dei tempi (a riguardare i classici Borg-Panatta anni Settanta par di vedere un incontro di oggi au ralenti). Per questo appariva sin dall’inizio tardo, lo stile di Federer: per dirla con Said, «pieno di ricordi», quelli dell’eleganza metafisica dei «gesti bianchi» d’antan, «e anche molto (e quasi soprannaturalmente) consapevole del presente»: cioè dei turbo-standard dell’atletismo scientifico dei nostri tempi. Il dominio da lui esercitato, fino più o meno al 2006 – quanto appunto DFW scrive il suo pezzo, ottimisticamente desumendo dalla sua epifania come il paventato clinamen verso la Barbarie Pallettara fosse tutt’altro che inarrestabile –, era tanto imperturbato quanto noioso. Come appariva intollerabilmente classista e didascalicamente kitsch enfatizzare quegli autoevidenti tratti di stile col presentarsi sul Centre Court di Wimbledon in giacchetta, maglioncino e pantaloni lunghi dai bordi dorati – così alludendo al look dei René Lacoste o dei Fred Perry degli anni Venti e Trenta del Novecento (per poi doversi frettolosamente cambiare, si capisce, prima di attaccare cogli scambi di riscaldamento). Tanto supremo ed eloquente sul campo quanto deludente e anodino fuori, il Federer regnante. Quando iniziò a intralciare i suoi Orizzonti di Gloria quella destinata a rivelarsi la sua Nemesi, l’iper-dionisiaco spagnolo Rafael Nadal di lui più giovane di cinque anni, a un certo punto si sentì rivolgere (ovviamente da Clerici) la domanda se non valesse la pena, di fronte a quello che appariva evidentemente come un suo complesso, rivolgersi ai servigi del Dottor Freud: al che Federer, forse distratto, ribatté chiedendogli in quale città questo medico ricevesse. (Ignoranza a parte, fa specie la puzzonaggine di chi – avendo divulgato Clerici il memorabile scambio di battute – di lì in avanti non solo prese a negare altre interviste, al Decano degli Scriba, ma s’impuntò a forcluderlo dalle sue conferenze stampa a venire.)
Il fatto è che tanta classe e imperturbabilità erano, in effetti, tutt’altro che innate. Chi lo avesse incrociato sul finire degli anni Novanta o all’inizio del decennio seguente (quando per esempio, nel 2001, a vent’anni vinse il suo primo torneo ATP al vecchio Forum di Milano), testimonia di un moccioso viziatissimo, supponente e dall’umore periclitante, polemico e riottoso: che, al primo errore, fracassava racchette a ripetizione. Una debolezza nervosa la cui repressione, sino a inarrivabili vertici di sprezzatura, è sempre rimasta lì, sopita, ad attendere l’occasione d’incrinare la sua perfezione stilistica. Clic spitzeriano, di tale inavvertita fragilità, la postura della sua mano sinistra al temine del gesto, non meno che olimpico, del rovescio in top-spin: giocando il rovescio a una mano, come ormai un’estrema minoranza dei tennisti professionisti – plagiati, negli anni Settanta e Ottanta, dalla moda del rovescio a due mani, fattasi egemonica colla vague svedese dei Borg prima e dei Wilander poi – la sinistra è in sostanza, nel gioco di Federer, una mano morta, relegata al lancio della palla nel servizio. Inutilizzata e infatti rattrappita (come tutto il braccio sinistro, nei tennisti d’una volta dal rovescio a una mano, se lo si paragonava all’altro braccio, iperbolizzato dall’esercizio), la mano sinistra si libera dalla tensione – cui il corpo era costretto, sino a un istante prima, dallo spasmodico raccogliersi a molla per poi esplodere la massima apertura del rovescio – adagiandosi in una postura curiosamente molle, snervata, precocemente esausta. È solo un dettaglio, e oltre tutto tecnicamente irrilevante, ma – ai miei occhi, almeno – psicologicamente eloquente. Che da sempre segnala l’inherent vice del declino a venire.
Spodestato da Nadal – col quale, a conferma della diagnosi freudiana di Clerici, ha perso 23 volte su 35 incontri – al vertice della classifica mondiale nell’estate del 2008, il vero declino di Federer deve però attendere ancora qualche mese. Il vero punto di svolta va individuato nel 2009. In quest’annata Federer – spinto dall’incombere non solo del nerboruto maiorchino, ma anche dei giovani e sprezzanti e insopportabili Andy Murray e Novak Djokovic – fa vedere il suo tennis qualitativamente migliore di sempre, oltretutto completando il “career Slam” col vincere finalmente l’unico torneo importante che ancora mancava al suo palmarès, gli Open di Francia del Roland Garros, a Parigi (ma solo perché Nadal, allora imbattibile sui campi lenti in terra rossa e che lì lo ha bastonato quattro volte in finale e una in semifinale, incappa in una giornata storta con lo svedese Robin Soderling, poi affannosamente piegato in finale da Federer), vince anche il suo sesto Wimbledon (alla fine, nel 2012, arriverà a eguagliare il record di sette trionfi, a Londra; e sarà anche, quello, l’ultimo titolo dello Slam vinto: quattro anni e mezzo prima di quello che celebriamo oggi), ma il massimo lo dà – emblematicamente – nel corso di due sconfitte, cioè nelle finali delle altre due tappe del Gran Slam (sconfitte che, al vertice della gloria, così gli impediscono di coronare il sogno di completare – come solo due tennisti maschi prima di lui, Don Budge negli anni Trenta e Rod Laver per ben due volte nei Sessanta – l’en plein dei quattro principali tornei nel medesimo anno). A Flushing Meadows, New York, sottovaluta il suo avversario, Juan-Martin del Potro, un carneade che gli ha fatto il favore di schiantare Nadal in semifinale (6-2, 6-2, 6-2) e che tira il dritto con una potenza mai vista prima al mondo. Federer, infinitamente più smaliziato e dal gioco incomparabilmente più vario, lo scherza per quattro set; lo rimbambisce di rovesci tagliati che costringono il gigante argentino a piegamenti innaturali; nel corso di un cambio di campo lo si intravede, proprio (lui in genere, cogli avversari, corretto sino a riuscire stucchevole), maramaldeggiare vanesio. E alla fine giustamente perde, sommerso di badilate da fondo campo che lasciano i buchi sul cemento grigioverde di Flushing (poi il formidabile del Potro – Calibano dal buon cuore – s’immerge in un tunnel d’infortuni dal quale parrebbe essere finalmente uscito, l’anno scorso, portando la sua Argentina a vincere la sospirata Coppa Davis).
Ma è l’altra sconfitta del 2009, proprio a Melbourne in gennaio, a dare appieno la misura della fragilità di Federer. Il quale gioca un tennis entusiasmante, mai visto prima: tutto d’anticipo e a un ritmo vertiginoso. Per l’ennesima volta si ritrova in finale Nadal e per quattro set, ancora una volta, lo scherza (pur servendo pochissime prime palle). L’entusiasmo di padroneggiare colui che tante volte lo ha punito sprizza da tutti i poli di Federer; la gioia della sua eccellenza è perfetta, solare. Ma – come gli capita in particolare di fronte a Nadal – la paura, così ben dissimulata, a un certo punto si riaffaccia: misteriosamente traducendosi in improvvisi quanto catastrofici cali d’attenzione. Che gli costano il secondo set e il quarto (quando davvero pareva dominare: come mai gli era capitato prima col rivale). Portato alla maratona del quinto set, infine, crolla. Nadal, che sulla distanza non conosce rivali, lo stritola 6-2 al quinto. Ma l’incredibile si verifica pochi minuti dopo, durante la premiazione – rituale in genere prevedibile sino alla noia, col politically correct da tempo invalso dopo i berci dei tempi punk di McEnroe –: quando dovrebbe fare i complimenti di prammatica al suo avversario, la voce di Federer s’incrina, balbetta «this is killing me», infine scoppia a piangere come un vitello. Nadal, sinceramente sbalordito – ma sempre tenero come un agnellino, una volta uscito dalla trance agonistica che sul campo lo rende un’Erinni – lo abbraccia, lo consola, gli mormora all’orecchio qualche parolina di conforto. Federer, gli occhioni lucidi, tira su col naso e alla fine, in qualche modo, si ricompone. Ma la memoria di uno svacco simile mi s’imprime profonda nel cervello (sino a farmi esultare, il che mai avrei ipotizzato, al successivo crollo nervoso davanti a del Potro).
In un altro notevole testo letterario dedicatogli, I silenzi di Federer (da noi pubblicato nel 2012 da O barra O), il filosofo francese André Scala paragona quelle lacrime ominose a quelle epiche di Achille: «abbiamo dimenticato che solo gli eroi piangono», scrive magnanimo. No, spiacente. Belle – a contrassegnare il lato femminile degli eroi epici, per dirla con Simone Weil – sono le lacrime di vittoria (Federer non le ha mai lesinate, ai suoi primi Wimbledon); a far impazzire Federer, quella volta, è la ferita narcisistica: non sopporta di aver giocato la sua migliore partita di sempre, e di averla persa. (Alla vigilia della finale 2017, in un siparietto coll’ex rivale Mats Wilander ora commentatore televisivo, rievoca quell’imbarazzante episodio il solito, caustico McEnroe. Il quale ruggisce, sempre punk: «se dopo la finale che avevo perso con lui a Roland Garros, nell’84, Ivan Lendl si fosse azzardato a consolarmi, gli avrei vomitato addosso». Wilander sghignazza e i due concludono in coro: «Quelli sì che erano tempi!»)
Dopo di allora, è stato tutto un interminabile declino (quello che Stefano Semeraro, già nel 2010, ha potuto definire il suo «lungo addio»): che, nell’ultimo anno, sembrava aver portato Federer vicino all’abbandono. L’ultimo suo grande match era stato, nel 2014, la finale a Wimbledon contro il suo nuovo eversore, cioè – appassito nel frattempo lo strapotere fisico di Nadal – il finto-simpatico, in realtà iper-robotico, nazionalista serbo Djokovic. Ancora una volta sciorinando una qualità di gioco stupefacente, Federer tiene testa al nuovo numero 1 delle classifiche ATP per tre set, al solito ne lascia un paio per strada per i suoi blackout, sembra ormai vicino alla resa, ma si ribella con un quarto set per lui inaudito, tutto giocato d’orgoglio e veemenza agonistica, spingendosi sino al quinto: dove però i trentatré anni lo spengono inesorabilmente. Ancora una volta, è in una sconfitta che si vede il miglior Federer.
Capita così che lo comincio a tifare, con lo struggimento di chi ama l’Impero solo alla fine della sua Decadenza. Seguo con falso fatalismo i suoi incontri sempre più rabberciati, gli improbabili propositi di rivincita contro avversari più giovani di lui di dieci anni e, a onta dei pronostici del Foster Wallace di dieci anni fa, perfettamente standardizzati in implacabili routines di gioco sempre più robotiche – tali da far rimpiangere l’ancor più rabberciato, il precocemente spelacchiato Nadal (che, a soli trent’anni, paga da tempo il conto di una carriera tutta all’insegna di una sacrificale, stoica dépense atletica). L’anno seguente Federer si ripresenta alla finale di Wimbledon, ma stavolta Djokovic lo scherza in quattro set; nel 2016, pieno di dolori e ormai lontano dalle prime posizioni della classifica, si issa sino alla semifinale, mostra ancora barlumi del vecchio oro, ma sul più bello – di fronte a un nuovo gigantone dal servizio criminale, il canadese Raonic – una volta di più si paralizza nell’apprensione, commette due doppi falli suicidi, si arrende per l’ennesima volta al quinto set. Segue uno stop fisioterapico di più di sei mesi: un ricovero in bacino di carenaggio che, ai tennisti in là cogli anni, in genere riesce fatale (quando Borg tentò di tornare sui campi dopo essersi ritirato una prima volta – nell’81, a soli ventisei anni, nauseato dagli allenamenti e a sua volta orripilato dal vedersi sconfitto a più riprese dall’impresentabile McEnroe – fece delle figure francamente penose).
Arriviamo così a questo famoso Australian Open. Federer vi si presenta senza un incontro agonistico all’attivo negli ultimi sei mesi, da testa di serie numero diciassette, ormai fuori da ogni pronostico. Lo stesso era capitato al re della generazione precedente, Pete Sampras: che proprio a lui, il giovane e fanatico Federer, era toccato estromettere da Wimbledon, nel 2001, con una crudele partita in cinque set. L’anno dopo, dopo essere stato preso a schiaffi da carneadi improbabili ai primi turni più peregrini, Sampras si era ripresentato agli U.S. Open e, appunto da testa di serie numero diciassette, aveva finito incredibilmente per vincerli, stabilendo il record di 14 tornei dello Slam vinti che sarà appunto Federer a battere, a Wimbledon nel 2009. (Restando poi incerto sul da farsi e per un anno facendo attendere il suo rientro, Sampras deciderà infine di annunciare il suo ritiro definitivo alla vigilia dell’edizione successiva del torneo di casa.)
Federer ha ormai compiuto 35 anni. Potrebbe dunque già partecipare ai tornei delle vecchie glorie: quelle esibizioni grigie e malinconiche che sa rendere divertenti solo McEnroe (il quale in questi casi viene microfonato e amplificato, così regalando al pubblico le sue battute sarcastiche insieme al fiatone e ai lamenti dell’età). E invece testardo insiste, il re da tempo spodestato, cercando chissà cosa. Naturalmente al miracolo ha contribuito – come sempre, ai miracoli sportivi – la fortuna. Che estromette dal torneo i da lui oggi invincibili Murray e Djokovic, fuori forma appagati e distratti (negli ultimi due anni si sono ambedue sposati e riprodotti – laddove Federer di figli, in tempi non sospetti, ne ha fatti addirittura quattro…). E che gli regala campi e palle mai così veloci, in Australia. Inoltre c’è un particolare tecnico, ad aver frenato il declino di questo Federer argenteo: nell’estate del 2013 ha deciso, dopo averci pensato su per anni, di cambiare modello di racchetta, adattandosi (con sofferenze e figuracce di mesi) a un ovale ampliato – passando da 90 a 98 pollici quadrati – che gli consente più controllo, in particolare, in quello che è sempre stato il punto debole del suo gioco: il non così sicuro, sebbene elegantissimo, rovescio a una mano. Ma non può bastare questo, si capisce. È l’ostinazione a guidarlo. Il voler stupire, una volta di più, tutti coloro che da tempo lo celebrano come un reperto storico. «Lo stile tardo», ha scritto sempre Said, «è ciò che accade se l’arte non rinuncia ai suoi diritti in favore della realtà». Così, ribellandosi appunto al principio di realtà, Federer batte al quinto set, in due incontri di nuovo basati su doti che non si pensava gli potessero appartenere – la tenacia e la resistenza – il flipperistico kamikaze Kei Nishikori, nonché il potentissimo ex scudiero Stan «Stanimal» Wawrinka. E si presenta, incredibilmente, ancora una volta in finale.
Ma ad attenderlo, per uno di quegli scherzi della sorte che paiono combinati dal più esagerato degli sceneggiatori, trova proprio Nadal. La vecchia nemesi, l’eversore, colui che tante volte lo ha torturato e, una volta, lo ha fatto piangere davanti a tutti. Non meno tignoso di lui (ma la tigna è sempre stata, a differenza di Federer, una delle sue doti principali), in semifinale ha giocato e vinto l’ennesima maratona in cinque set, contro il talentuoso bulgaro Grigor Dimitrov (da tempo designato colla paralizzante qualifica di erede di Federer, proprio): in quella che è stata la partita del torneo in termini di equilibrio, grinta e, nel quinto set, anche qualità tecnica (può darsi anzi che abbia finito col pagarla, in finale con Federer che ha riposato un giorno in più di lui, il non più inossidabile Nadal).
Il copione, nei primi set, è talmente già scritto da annoiare. Federer è in stato di esaltazione. Gioca come se avesse dieci anni di meno. Un’agilità, una prontezza di riflessi, una potenza identiche a quelle di un tempo. Ma in più, magari grazie alla nuova racchetta (cosa sarebbe successo, se l’avesse accettata appunto dieci anni prima…), una consistenza al rovescio che sorprende Nadal. Il quale era stato la sua bestia nera non solo in termini psicologici, in effetti, ma anche tecnici: giocando il dritto con la mancina, arrotatissimo, il suo rimbalzo incontrava il rovescio di Federer molto più in alto di quanto lui fosse abituato a giocarlo, costringendolo il più delle volte a rifugiarsi in tagli che non davano nessun fastidio a Nadal: il quale, dopo due tre quattro frustate contro quel rovescio molle, che spostavano l’avversario sempre più alla sua sinistra, finiva sempre per perforarlo a destra, dalla parte del dritto ormai sguarnita. Ora invece Federer si spinge dentro il campo, colpisce con sicurezza il rovescio quasi sempre in top-spin, in effetti appare più forte e affidabile col rovescio-Mozart che collo strapotente dritto-Metallica, spesso stringe angoli che spiazzano Nadal. Vince rilassatissimo il primo set, in mezz’ora (6-4): e se proseguisse su questa falsariga, mi dico, potrebbe davvero farcela. Se lo facesse, appunto. Perché all’inizio del secondo set, per l’ennesima volta, l’ansia lo paralizza, gli fa allentare la concentrazione torturante che da sempre gli sfianca i nervi. Butta due volte il turno di servizio, tenta di recuperare invano, perde facile 6-3. La partita diventa la maratona in cui Nadal sperava si sarebbe trasformata. All’inizio del terzo set Federer annulla tre palle break con tre aces da sinistra, l’uno fotocopia dell’altro. Riprende il controllo dei nervi e di nuovo scherza il rivale; sul piano tecnico è sempre stato di una categoria superiore, ma con questo rovescio nuovo di zecca non c’è match: Nadal è umiliato 6-1. Ma il tempo passa, i dolorini anagrafici si fanno vivi, i riflessi cominciano ad appannarsi. Dall’altra parte della rete Nadal, questo copione, lo sa a sua volta a memoria. E attende il cadavere del nemico sulla sponda del fiume. La partita si spezzetta, perde fluidità, si balcanizza in una serie di episodi irrelati che esaltano il furore agonistico di Nadal. Ed è proprio questo che in passato psicologicamente distruggeva Federer: come in quella stessa Melbourne otto anni prima, a sconfiggerlo è il suo narcisismo frustrato da quell’esagitato furibondo, ora pure spelacchiato e incerottato, che si scalmana dall’altra parte del campo. Perde male il quarto set, e quando all’inizio del quinto – in evidente affanno e, parrebbe, già in preda al patimento del dopo-partita – cede il turno di servizio senza combattere, credo che nessuno al mondo avrebbe più puntato un centesimo su di lui. (Se l’altra volta s’è messo a piangere, mi dico, stavolta ci scappa il suicidio in diretta.)
Ma a questo punto si produce il miracolo. Dice Said che la sede “tecnica” in cui Adorno coglie l’essenza dello stile tardo di Beethoven è appunto «la frammentarietà, l’apparente indifferenza verso la propria continuità». Nelle sfide del passato, persa la fluidità e la continuità del proprio gioco, Federer si poteva magari intestardire e, come in questo caso, spingersi sino al quinto set: ma a quel punto finiva per arrendersi, in sostanza, al proprio disgusto per essere stato trascinato al livello dell’avversario. Sintomatico che, negli highlights a fine match, splendessero regolarmente, innumerevoli, i suoi colpi da maestro, quelli che Foster Wallace definiva i Federer moments: a fronte però dell’ennesima sconfitta. I punti decisivi erano quelli rimasti fuori dagli highlights: quelli costati scambi lunghi e torturanti, balcanizzati e informi, privi della grazia del puro gesto; ma che, alla fine, avevano sfiancato Federer – ed esaltato Nadal.
Stavolta accade esattamente il contrario. Il singolo colpo del match cade sul 3-1 per Nadal nel quarto set: un Federer flamboyant lo sta bombardando di rovesci in top, da fondo, capovolgendo colla sua nuova formidabile arma lo schema classico dei loro incontri passati; ma a quel punto Nadal sfodera un dritto dall’angolo anomalo, incredibilmente stretto: una rasoiata che atterra poco dopo la rete, al bordo del corridoio di sinistra, sfuggendo via velocissima senza che Federer possa neppure avvicinarsi alla palla. Sul 4-3 per Federer al quinto, invece, si produce uno scambio interminabile, d’inaudita tensione. È il momento decisivo del match: i due lo sanno perfettamente e non vogliono sbagliare a nessun costo. Nadal, come sempre in questi casi, per gradi guadagna campo e colpisce sempre più forte, senza mai rischiare il colpo d’attacco; non ne ha bisogno; Federer di norma avrebbe una volta tentato di uscire, da quella morsa da boa costrictor, con un Federer moment tanto ambizioso quanto improbabile. Invece stavolta, con sbalorditiva umiltà, tiene duro. Stringe i denti e arriva in apnea sino al ventiseiesimo tiro: un dritto lungolinea, non un winner, che si spinge comunque deciso dall’altra parte della rete. Ma chi non ce la fa più e cede, incredibilmente, a quel punto è Nadal. È il game che si conclude col break decisivo. Federer va a servire per il match, controlla il ritorno di fiamma di Nadal, annulla due postreme palle per il contro-break. E vince.
Gli occhi gli si inumidiscono, quando capisce di avercela fatta, ma non durante la cerimonia di premiazione. Dove prende la parola il solito Federer azzimato, per nulla compreso della storicità del momento. (Mentre attorno a lui tutti, a partire dal vecchio Laver che lo deve premiare, appaiono commossi e attoniti – dall’evento appena consumatosi. Nel prepartita, a Wilander che gli dice che quella che sta per affrontare sarà la finale più importante della storia, Federer tossicchia, si schermisce: è un’esagerazione, ha risposto falso-modesto, anche se capisco perché lo si possa pensare. Insopportabile.) Solo una battuta, nel suo discorso colla coppa in mano, coglie l’attenzione: quando dice agli spettatori che, se per caso l’anno prossimo non ci sarà, sarà stato bellissimo essersi congedato da loro con una partita del genere. A differenza di quanto aveva fatto, con colpo di scena clamoroso, Flavia Pennetta appena vinto, dopo una carriera interminabile e logorante, il primo suo torneo dello Slam – a Flushing Meadows, l’anno scorso – contestualmente annunciando il suo ritiro dal tennis, Federer vuole pensarci: come aveva fatto Pete Sampras quindici anni fa.
Ma farebbe bene – lo dico colla morte nel cuore, per i tanti Federer moments a venire cui dovremmo rinunciare – a far coincidere il suo capolavoro col suo ultimo atto. Perché, come diceva Adorno con un aforisma dei suoi, «nella storia dell’arte le opere tarde sono catastrofi»; «la tardività», commenta Said, «implica l’idea che non si possa davvero oltrepassarla, che non sia possibile trascenderla o portarsi al di fuori di sé, ma soltanto approfondirla». E l’unico modo per farlo – una volta conseguita questa incredibile smentita della nostra caducità, una volta pronunciato questo esorcismo della morte che da sempre ci mangia dentro –, davvero, è farla finita.
[Immagine: Roger Federer].
Mi sarei concentrato solo sulla finale. Se i lettori sono curiosi di conoscere la storia di Federer o del tennis, possono informarsi a posteriori. E a proposito di storia del tennis: passare da Mcnroe a Federer saltando, Edberg e Sampras, mi sembra camminare sul cornicione del falso storico, non le pare ?
“ 14 maggio 1987 – Il tennis in tv. Più di vent’anni fa. Penombra frescura. Freserleverfreserlever. Dolcissima accidia. Senza nemmeno il colore. “. [*]
[*] Prometto che smetto. E mi limito a leggere. Andrea Cortellessa. Che mi piace tanto. Perché mi piace leggere. Ma un pochino anche scrivere. Come un webete. Webeti di tutto il mondo…
Articolo bellissimo. Grazie, è stato un piacere leggerlo!
Bellissimo, Andrea. Bellissimo e vero.
Pezzo davvero molto bello.
Durante l’incontro mi è sembrato di vedere una maggiore vecchiezza e (si fa per dire) legnosità in Nadal, meno fisicamente flessibile, come sono appunto i vecchi. Se aggiungiamo l’inaudita calvizie – nemmeno io sono riuscito a perdere tutti quei capelli a quell’età – il più giovane sembrava Roger. Ero sicuro e strasicuro che al quinto set la la partita l’avrebbe fatta la reale differenza d’età, al punto che mi sono alzato dal divano per non assistere all’esecuzione. E invece no. Ha pianto anche stavolta, direi.
Solo potenza, non paragoniamo federer a Borg.
“ Senza data [1981] – nononèincorridoiochesplendidavolée / hai detto qualche cosa mi era parso / fammi un caffè che caldo che ora è “.
Grazie, grazie per questo pezzo!
Domenica 16 luglio 2017: Federer vince il suo ottavo titolo di Wimbledon e oltretrapassa la tardività di Said, rimandando ancora una volta la morte tennistica e regalandoci l’illusione dell’immortalità.
Effettivamente.