di Carmen Gallo

Costellazione Gerontion è un percorso di traduzioni attraverso la poesia di lingua inglese del Novecento; un’occasione per ragionare sul rapporto tra storia, esperienza e conoscenza. Il punto di partenza è Gerontion, una poesia cui T.S. Eliot inizia a lavorare nel 1917, in concomitanza con la scrittura di frammenti che sarebbero finiti in The Waste Land (1922). Il testo mostra il consolidarsi dello stile allusivo di Eliot in un monologo drammatico a metà tra confessione lirica e sermone elisabettiano. Continua a essere presente il tema dell’aridità spirituale e dell’impotenza fisica e materiale già esplorato in The Love Song of J. Alfred Prufrock (1917), ma qui la meditazione del “little old man” (che la radice greca del titolo suggerisce) insiste sull’inconsistenza dell’agire umano non solo sul piano individuale, ma su quello generale e universale. Attraverso la maschera di Gerontion, Eliot articola, all’indomani primo dopoguerra, il rapporto tra storia e impotenza, e più in generale tra esperienza e conoscenza, le cui premesse aveva approfondito attraverso il pensiero del tardo-idealista Francis Herbert Bradley (cui è dedicata la sua tesi di dottorato) e di Bertrand Russell. Mentre sulla scena letteraria inglese si impongono i cosiddetti War Poets, Eliot, che aveva seguito gli eventi bellici senza riuscire a parteciparvi, sceglie di non raccontare il trauma della guerra, ma di mettere in scena una riflessione sullo statuto di verità dell’esperienza in quanto tale proprio a partire dall’esperienza sentita come più decisiva, quella della partecipazione agli eventi della storia. Sfruttando l’esperienza indiretta della guerra che la corrispondenza con il giovane Jean Verdenal gli aveva dato, Eliot giunge a rappresentare la storia come sviluppo insensato, se non sadico, per gli attori quanto per gli spettatori di quei grandi momenti epocali, e a destituire l’esperienza stessa della guerra di ogni valore conoscitivo che potrebbe riscattarne l’apparente assurdità. Per il vecchio Gerontion il punto centrale è che il passato non ha niente da insegnare, né quello prossimo della Grande guerra, né quello remoto della gesta eroiche. A differenza di Prufrock, in cui prevale la commistione di satira, pathos e sessualità degradata, il monologo di Gerontion evoca grandi imprese anche se non compiute, e cornici di senso metafisiche anche se svuotate. La tragedia che la guerra ha messo in scena dona una sola conoscenza, imperdonabile: quella dell’impotenza dell’uomo, della casualità del suo destino, dell’irrilevanza della sua esistenza. È il punto cieco, questo, la liquidazione della storia e del soggetto, ma è anche la premessa per l’ostentata impersonalità della Waste Land, e per la sua sovrapposizione della ciclicità mitica e dell’atemporalità archetipica sulla devastata teleologia della storia.
La traduzione del testo di Eliot è seguita da quella di The hand that signed the paper di Dylan Thomas, del 1933, che riprende il tema del potere come istanza irrazionale e soverchiante che governa e manipola con la burocrazia dei trattati e dei negoziati la polverizzata esperienza individuale, e di The Snow Man di Wallace Stevens, del 1954, in cui la “mente d’inverno” e la dimensione dell’“aver sentito freddo a lungo” disegnano un orizzonte minimo di senso in cui non c’è più nostalgia dell’azione o denuncia del sopruso, ma contemplazione del niente che accade.

 

 

Gerontion (1920)

T.S. Eliot

 

Non sei né giovane né vecchio,
ma è come se in un sonno dopo pranzo
sognassi di entrambe queste età.

 

Sono qui, un vecchio in un mese secco
un ragazzo mi legge in attesa della pioggia.
Non fui ai cancelli di fuoco
non combattei nella pioggia calda
non combattei affondando ginocchia nella palude salmastra
agitando una sciabola tra i morsi delle mosche.
La mia casa è una casa caduta,
e sul davanzale sta acquattato l’Ebreo, il padrone,
generato in un bistrot di Anversa,
pieno di piaghe a Bruxelles, rappezzato e mezzo nudo a Londra.
La capra di notte tossisce nel campo sovrastante;
rocce, muschio, erbacce, ferraglia, merde.
La donna tiene la cucina, prepara il tè,
di sera starnutisce, picchiettando con le dita lo scolo irritato.

Un vecchio,

testa ottusa tra spazi di vento.

Segni presi per miracoli. “Vogliamo vedere un segno!”
La parola dentro una parola, incapace di dire una parola,
avvolta in fasce di buio. Nella giovinezza dell’anno
venne Cristo la tigre

Nel maggio depravato, corniolo e castagno, albero di Giuda in fiore,
per essere mangiato, per essere spezzato, per essere bevuto
tra i bisbigli; da Mr. Silvero,
con mani premurose, che a Limoges
camminò tutta la notte nella stanza accanto;

da Hakagawa, che si inginocchiava tra i Tiziano;
da Madame de Tornquist, che spostava candele
nella stanza buia; da Fräulen von Kulp
che nell’ingresso si voltò, una mano sulla porta.

Spole vacanti

tessono il vento. Io non ho fantasmi,
un vecchio in una casa di spifferi
ai piedi di un poggio ventoso.

 

Dopo questa conoscenza, quale perdono? Pensa ora,
la storia ha molti passaggi astuti, corridoi e varchi
forzati, ci inganna bisbigliando ambizioni,
ci guida con le vanità. Pensa ora,
ci dà solo quando la nostra attenzione è distratta
e ciò che dà, lo dà con tanta rapida confusione
che il dare affama il desiderare. Dà troppo tardi
ciò a cui più non si crede, o se ancora gli si crede
solo nel ricordo, passione riconsiderata. Dà troppo presto,
in deboli mani, ciò che crediamo ormai superfluo
così che il rifiuto propaga la paura. Pensa,
né la paura né il coraggio ci salvano. Vizi innaturali
hanno per padre il nostro eroismo. Le virtù
ci sono imposte dai nostri crimini impudenti.
Queste lacrime vengono giù dall’albero scosso della collera.

La tigre balza nel nuovo anno. Noi lui divora. Pensa ora,
non arriviamo a una conclusione se io
intirizzisco in una casa in affitto. Pensa infine,
che non ho fatto questo spettacolo per niente
e nemmeno perché costretto
dai demòni che si guardano dietro.
Vorrei c’intendessimo su questo punto, onestamente.
Io che ero vicino al tuo cuore ne fui cacciato
perdendo la bellezza nel terrore, il terrore nell’inquisizione.
Ho perduto la mia passione: che bisogno avrei di conservarla
se ciò che si conserva si corrompe?
Ho perduto la vista, l’olfatto, l’udito, il gusto, il tatto:
come potrei usarli per sentirti più vicino?

Questi, con mille piccole deliberazioni,
prolungano il profitto del loro gelido delirio,
eccitano la membrana con salse pungenti
quando il senso ormai si è raggelato, moltiplicano la varietà
in una foresta di specchi. Cosa farà il ragno,
sospenderà le sue operazioni, e la calandra
le ritarderà? De Bailhache, Fresca, Mrs. Cammell, gravitavano
oltre l’orbita dell’Orsa tremolante
in atomi franti. Gabbiano controvento, negli stretti pieni di vento
di Belle Isle, o in picchiata verso Capo Horn.
Piume bianche nella neve, i richiami del Golfo,
e un vecchio spinto dagli alisei
in un angolo pieno di sonno.

Inquilini della casa,
i pensieri di un cervello secco in una secca stagione.[1]

 

 

Gerontion

 

Thou hast nor youth nor age
But as it were an after dinner sleep
Dreaming of both.

Here I am, an old man in a dry month,
Being read to by a boy, waiting for rain.
I was neither at the hot gates
Nor fought in the warm rain
Nor knee deep in the salt marsh, heaving a cutlass,
Bitten by flies, fought.
My house is a decayed house,
And the Jew squats on the window sill, the owner,
Spawned in some estaminet of Antwerp,
Blistered in Brussels, patched and peeled in London.
The goat coughs at night in the field overhead;
Rocks, moss, stonecrop, iron, merds.
The woman keeps the kitchen, makes tea,
Sneezes at evening, poking the peevish gutter.

I an old man,

A dull head among windy spaces.

Signs are taken for wonders.  ‘We would see a sign!’
The word within a word, unable to speak a word,
Swaddled with darkness.  In the juvescence of the year
Came Christ the tiger

In depraved May, dogwood and chestnut, flowering judas,
To be eaten, to be divided, to be drunk
Among whispers; by Mr. Silvero
With caressing hands, at Limoges
Who walked all night in the next room;

By Hakagawa, bowing among the Titians;
By Madame de Tornquist, in the dark room
Shifting the candles; Fräulein von Kulp
Who turned in the hall, one hand on the door.
Vacant shuttles
Weave the wind.  I have no ghosts,
An old man in a draughty house
Under a windy knob.

After such knowledge, what forgiveness? Think now
History has many cunning passages, contrived corridors
And issues, deceives with whispering ambitions,
Guides us by vanities.  Think now
She gives when our attention is distracted
And what she gives, gives with such supple confusions
That the giving famishes the craving.  Gives too late
What’s not believed in, or is still believed,
In memory only, reconsidered passion.  Gives too soon
Into weak hands, what’s thought can be dispensed with
Till the refusal propagates a fear.  Think
Neither fear nor courage saves us.  Unnatural vices
Are fathered by our heroism.  Virtues
Are forced upon us by our impudent crimes.
These tears are shaken from the wrath-bearing tree.

The tiger springs in the new year.  Us he devours.  Think at last
We have not reached conclusion, when I
Stiffen in a rented house.  Think at last
I have not made this show purposelessly
And it is not by any concitation
Of the backward devils.
I would meet you upon this honestly.
I that was near your heart was removed therefrom
To lose beauty in terror, terror in inquisition.
I have lost my passion: why should I need to keep it
Since what is kept must be adulterated?
I have lost my sight, smell, hearing, taste and touch:
How should I use it for your closer contact?

These with a thousand small deliberations
Protract the profit of their chilled delirium,
Excite the membrane, when the sense has cooled,
With pungent sauces, multiply variety
In a wilderness of mirrors.  What will the spider do
Suspend its operations, will the weevil
Delay?  De Bailhache, Fresca, Mrs. Cammel, whirled
Beyond the circuit of the shuddering Bear
In fractured atoms. Gull against the wind, in the windy straits
Of Belle Isle, or running on the Horn,
White feathers in the snow, the Gulf claims,
And an old man driven by the Trades
To a sleepy corner.

Tenants of the house,

Thoughts of a dry brain in a dry season.

 

 

 

La mano che firmò la carta (1933)

Dylan Thomas

La mano che firmò la carta abbatté una città;
cinque dita sovrane tassarono il respiro,
raddoppiarono il globo dei morti e dimezzarono un paese;
questi cinque re condannarono a morte un re.

La mano potente conduce a una spalla spiovente,
le nocche delle dita sono strette nel gesso;
una piuma d’oca ha messo fine all’assassinio
che ha messo fine alle parole.

La mano che firmò il trattato generò una febbre,
e crebbe la carestia, e vennero le locuste;
grande è la mano che domina sull’uomo
con un nome scarabocchiato.

I cinque re contano i morti ma non alleviano
la piaga incrostata, non accarezzano la fronte;
una mano governa la pietà come una mano governa il cielo;
le mani non hanno lacrime da versare.

 

 

The hand that signed the paper

The hand that signed the paper felled a city;
Five sovereign fingers taxed the breath,
Doubled the globe of dead and halved a country;
These five kings did a king to death.

The mighty hand leads to a sloping shoulder,
The finger joints are cramped with chalk;
A goose’s quill has put an end to murder
That put an end to talk.

The hand that signed the treaty bred a fever,
And famine grew, and locusts came;
Great is the hand that holds dominion over
Man by scribbled name.

The five kings count the dead but do not soften
The crusted wound nor stroke the brow;
A hand rules pity as a hand rules heaven;
Hands have no tears to flow.

 

 

 

Il pupazzo di neve (1954)

Wallace Stevens

Bisogna avere una mente d’inverno
per guardare il gelo e i rami
dei pini ricoperti di neve;

e aver sentito freddo a lungo
per fissare i ginepri sfiniti dal ghiaccio
gli abeti ruvidi nel luccichio distante

del sole di gennaio; e non pensare
ad alcuna infelicità nel suono del vento
nel suono delle poche foglie

che è il suono della terra
pieno dello stesso vento
che sta soffiando nello stesso luogo spoglio

per l’ascoltatore, che ascolta nella neve
e, lui per primo niente, osserva
il niente che non è lì e il niente che c’è.

 

 

The Snow Man

One must have a mind of winter
To regard the frost and the boughs
Of the pine-trees crusted with snow;

And have been cold a long time
To behold the junipers shagged with ice,
The spruces rough in the distant glitter

Of the January sun; and not to think
Of any misery in the sound of the wind,
In the sound of a few leaves,

Which is the sound of the land
Full of the same wind
That is blowing in the same bare place

For the listener, who listens in the snow,
And, nothing himself, beholds
Nothing that is not there and the nothing that is.


[1] Ringrazio Franco Nasi e Donatella Izzo per i preziosi suggerimenti su alcune scelte traduttive.

 

[Immagine: T.S. Eliot]

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