di Ornella Tajani
L’important n’est pas ce qu’on fait de nous,
mais ce que nous faisons nous-même de ce qu’on a fait de nous
Sartre, Saint Genet, comédien et martyr
Nella sua celebre Storia dell’arte, commentando un paesaggio di Nicolas de Staël, Ernst Gombrich ne esalta la miracolosa resa del senso della luce e della lontananza: con pennellate semplici ma esperte, l’artista riesce a restituire al fruitore dell’opera un’impressione di distanza e, al contempo, un senso di allucinata familiarità, come se la contemplazione di quel panorama comportasse, in fondo, il riconoscimento di qualcosa di già noto. Non stupisce dunque che il sociologo e filosofo Didier Eribon avesse scelto proprio un dipinto del pittore russo come copertina della prima edizione del suo saggio autobiografico Retour à Reims (2009)[1]: l’opera La Route d’Uzès, dell’esule ed errante de Staël, che si suiciderà poco dopo averla terminata, si prestava perfettamente ad aprire il racconto di un ritorno che, come tutti i ritorni, «non ha né può mai avere fine»[2].
Il dipinto mostra una striscia bianca che si allunga su uno sfondo nero, suggerendo a Eribon l’idea di una strada che possa essere imboccata sia da un lato che dall’altro: «Partire e ritornare, come due momenti della vita», commenta, «e forse quella linea nel mezzo (la strada) simboleggiava la dissociazione dell’io e la scissione della personalità che erano al centro del libro». Il ritorno come percorso identitario necessario, dunque, analizzato all’interno di un preciso contesto storico e geografico, vale a dire in un continuo raffronto con le strutture sociali che dominano uno spazio e un’epoca, stabilendo traiettorie, creando gerarchie, emanando verdetti.
Con l’ossimoro «introspezione sociologica» Eribon prova a definire il metodo da lui usato nel Retour. In una sua recensione al libro Annie Ernaux parla invece di una forma di autoanalisi radicale, richiamandosi alla Esquisse pour une autoanalyse di Bourdieu, la cui opera costituisce un importante punto di riferimento per l’autore. L’altro interlocutore privilegiato, nel Retour e nel successivo La société comme verdict, è proprio la scrittrice di La place e La honte[3], i due racconti in cui con più pregnanza Ernaux descrive i percorsi, le dinamiche esistenziali, le difficoltà dei «transfughi di classe», i disertori del proprio milieu sociale. Proverò a fornire qualche linea di lettura del testo di Eribon mettendo in luce alcuni dei punti di contatto fra il suo libro e l’opera di Ernaux, con la quale è in costante dialogo.
La dissociazione identitaria è all’origine del Retour. A un certo punto della vita l’autore realizza di aver ampiamente trattato, nelle proprie opere, il suo percorso di emancipazione sessuale e la sua affermazione in quanto omosessuale, ma di aver tenuto nascosto il distacco, fortemente voluto, dal proprio milieu. In una formula sintetica dice che gli era stato più semplice scrivere della vergogna sessuale che di quella sociale: «più facile, in effetti, una volta entrato nel mondo della cultura e dei giornali, dichiararsi gay che figlio d’operaio», commenta Ernaux nella sua recensione.
È questa l’ouverture di una narrazione che offre anche uno straordinario affresco sociologico, inserendo il récit intimo all’interno di una «teoria del soggetto» volta ad illustrare ogni momento fondativo dell’identità come punto d’intersezione tra il piano dell’ambiente in cui si nasce e la percezione soggettiva di sé e del mondo. Il libro propone una ricostruzione ampia di un pezzo di storia della società francese, della quale si raccontano la realtà operaia, la divisione delle classi, il sistema scolastico (per Eribon vero spartiacque sociale) e le mutazioni sullo scenario politico in prospettiva diacronica – spiegando ad esempio in maniera efficace il passaggio di voto del ceto operaio dai partiti di sinistra a quelli di estrema destra.
Per l’autore, la consapevolezza di essere, al pari di Ernaux, un transfuge de classe è al centro della narrazione; in entrambi la scrittura affonda le radici nel sentimento di avere tradito le proprie origini, come la scrittrice ricorda in più di un’occasione, ad esempio quando pone, in esergo a La place, una frase di Genet, oggetto e soggetto letterario che ricorre più volte nelle opere dei due autori: «quando hai tradito la scrittura è l’ultima risorsa». Il dialogo di Eribon con l’opera di Ernaux è costante, come si è detto: se in La société comme verdict l’autore intitola “En lisant Ernaux” la seconda delle tre parti in cui è diviso il suo libro, già nel Retour i riferimenti alla scrittrice sono frequenti e importanti:
Ho riconosciuto con precisione ciò che avevo vissuto quando ho letto i libri che Annie Ernaux ha dedicato ai suoi genitori e alla «distanza di classe» che la separava da loro. Ernaux evoca splendidamente il disagio che si prova quando si torna dai genitori dopo aver lasciato non solo il domicilio familiare, ma anche la famiglia e il mondo ai quali, nonostante tutto, si appartiene ancora, e quel sentimento sconcertante di essere, al tempo stesso, a casa propria e in una dimensione estranea. (Retour, p. 28)
Il viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio che Eribon decide di compiere inaugura quasi una sociologia del ritorno, un’analisi delle forme sociali da cui si è scelto di allontanarsi nel momento in cui si è compreso che il successo personale sarebbe stato misurato unicamente sulla distanza posta tra sé e il proprio nucleo familiare. «Sociospéléologie» è il termine utilizzato da Eribon per incorniciare, a posteriori, ciò che ha voluto compiere con il Retour; uno dei fenomeni analizzati con ricorrenza è il linguaggio, fondamentale vettore di ascesa sociale. Non è un caso che la primissima frase del libro contenga già una considerazione di carattere metalinguistico: «Per molto tempo per me è stato solo un nome». Il “nome” è quello del paese in cui si trasferiscono i genitori a distanza di anni dalla partenza del figlio: il toponimo «Muizon», relativo a un comune a ovest di Reims, suona all’orecchio dell’autore come un significante vuoto, un luogo alieno che per lunghi anni si è scelto di ignorare.
«Per riuscire a inventarmi dovevo innanzitutto dissociarmi», scrive Eribon: la dissociazione inizia con l’allontanamento dalla lingua sciatta, concreta dei genitori, per i quali addirittura dire «je suis allé» (sono andato) invece di «j’ai été» (sono stato) poteva suonare ricercato. «Parli come un libro», gli dicono in famiglia, percependo l’estraneità di una sintassi più complessa, le risonanze di un vocabolario sofisticato, entrambi sintomo di conoscenze precluse agli altri membri; l’autore ricorda un episodio in cui il fratello di suo padre, nell’annotare un indirizzo, aveva erroneamente scritto «rue Saint-Honoré-de-Balzac», rivelando di non avere la più pallida idea di chi fosse Balzac.
La riflessione sul linguaggio è centrale anche in Ernaux : «Come volete che non mi riprendano, se voi parlate sempre così male!»[4], esclama esasperata la scrittrice adolescente ai genitori, in risposta alle loro esortazioni ad andar bene a scuola, per «non fare brutta figura» con gli insegnanti; e ancora: «Nei miei ricordi tutto ciò che riguarda il modo di esprimersi è motivo di rancore e di litigi penosi, ben più del denaro»[5], suggerendo che all’interno del linguaggio nascono i primi conflitti legati all’affermazione identitaria.
La honte è un prodigioso breviario della dimensione provinciale, uno spazio in cui «la buona educazione era il valore per eccellenza»[6], e dal quale era bandita ogni eccentricità, tanto che «i cani si chiamavano tutti Miquet o Boby»[7]. L’autrice racconta di aver vissuto nello stesso «usage du monde» dei suoi genitori e di aver condiviso con loro espressioni idiomatiche e tic linguistici; di questo lessico familiare il racconto offre un piccolo repertorio, in cui spiccano alcune sgrammaticature del padre, come «j’étions». Anche Ernaux, al pari di Eribon, è cresciuta all’interno di una spaccatura, in una scissione fra l’ambiente domestico di Yvetot, dominato da dinamiche perfettamente prevedibili, e il mondo della letteratura, delle forme diverse di appropriazione di sé. I due universi si pongono in aperta opposizione agli occhi dell’autrice, eppure in numerose occasioni si vede quanto per lei fossero legati, si pensi al modo in cui commenta la perdita della propria madre: «è morta otto giorni dopo Simone de Beauvoir»; commento che è una misura, ancora una volta, della distanza sociale fra il nucleo familiare e il suo ambiente di elezione, e al tempo stesso è un disperato tentativo di tenerli insieme.
Nel ’95 la scrittrice di La honte, che per tutto il libro ha cercato di ritrovare le parole con le quali nel ’52 pensava se stessa e il mondo in cui viveva, realizza che la vergogna ancora bruciante della vita di allora, e del linguaggio che la descriveva, è ciò che lega il presente al passato, la donna attuale alla ragazzina dell’epoca. Ernaux scrive nel solco di una «memoria umiliata», dalla quale è impossibile cancellare i ricordi, i frammenti di vissuto un tempo rimossi come fossero «cose di cattivo gusto».
Il sentimento di umiliazione è un altro motore di scrittura per entrambi gli autori; Eribon, omosessuale cresciuto in provincia, lo conosce bene. Prima del Retour, l’autore aveva scritto Réflexions sur la question gay, in cui trattava, fra l’altro, l’insulto come strumento partecipe della riproduzione di un ordine sociale. «Per molto tempo non ho capito di essere arabo perché non c’era nessuno che m’insultasse. L’ho scoperto soltanto a scuola», scriveva magistralmente Romain Gary in La vie devant soi. L’insulto rivela all’individuo la sua diversità con l’obiettivo di metterlo al bando; è per questo che Eribon si sente «un prodotto dell’ingiuria» e «un figlio della vergogna». In parole diverse da quelle di Ernaux, l’autore in fondo conferma che è a partire dalla honte, trasformata in energia creatrice, che ci si reinventa e ricostituisce a livello identitario, tanto che in La société comme verdict arriva a parlare di «honto-analyse».
Il processo di trasformazione di sé prevede l’assimilazione di tracce del passato: questo passato resta, semplicemente perché è il mondo all’interno del quale siamo diventati esseri sociali […]. Il nostro passato è ancora il nostro presente. (Retour, p. 229)
È da qui, naturalmente, che nasce l’esigenza del ritorno.
Nelle loro opere i due autori, magnifici «etnologi di se stessi»[8], intrecciano il récit intimo all’affresco sociale, scrivendo a partire da una sensibilità maturata sulle opere di Bourdieu, per entrambi vero nume tutelare; la scrittrice racconta di aver trovato nei suoi testi l’incoraggiamento a proseguire nella narrazione del «rimosso sociale», e indica nella sua sociologia critica lo strumento per «defatalizzare l’esistenza», attraverso lo svelamento dei meccanismi di riproduzione dell’ordine sociale.
Sia Ernaux che Eribon riescono a restituire una memoria non solo personale, soggettiva, ma anche in qualche modo collettiva, come avviene del resto anche in Les années. In La société comme verdict l’autore avanza l’ipotesi dell’assenza di una memoria della classe operaia, in quanto classe priva di un’eredità trasmutabile in capitale simbolico[9]; il Retour prova a ricostruire un pezzo di questa memoria e al contempo si pone due principali domande: «Quali narrazioni collettive plasmano il singolo individuo? Quando e dove inizia l’“io”?», offrendo al lettore un’analisi delle forme sociali di dominazione e resistenza.
Se Ernaux ha ormai raggiunto la notorietà sul panorama nazionale italiano, grazie soprattutto all’impegno delle edizioni L’Orma, è un peccato che invece sia ancora inedito il bel saggio di Didier Eribon: un «magnifico esempio di vita», nelle parole di Ernaux, illuminato da una scrittura che lega strettamente l’intimo, il sociale e il politico; un testo che sembra trasmettere, come una musica di sottofondo, ciò che ha scritto altrove Christa Wolf, e cioè che è molto più facile inventare il proprio passato che ricordarlo.
[1] D. Eribon, Retour à Reims, Paris, Fayard, 2009, citato nell’edizione Flammarion 2010 (inedito in italiano).
[2] Eribon lo racconta nel seguito ideale del Retour: La société comme verdict, Paris, Fayard, 2013 (citato nell’edizione Flammarion 2014. Inedito in italiano). Traduzione mia per tutte le citazioni presenti nel testo.
[3] A. Ernaux, La place, Paris, Gallimard, «Folioplus», 2006 [1983] (Il posto, trad. it. L. Flabbi, Roma, L’Orma, 2014) e A. Ernaux, La honte, Paris, Gallimard, «Folio», 1999 [1997] (L’onta, trad. it. O. Orel, Milano, Rizzoli, 1999).
[4] A. Ernaux, La place, op. cit., p. 45.
[5] Ibidem.
[6] A. Ernaux, La honte, op. cit., p. 69.
[7] Ivi, p. 70
[8] L’espressione è di Ernaux: ivi, p. 40.
[9] D. Eribon, La société comme verdict, op. cit., p. 170 e ss..
[Immagine: Nicolas de Stäel, La Route d’Uzes ]
“ 27 novembre 1990 – Il ‘52 è un anno lontanissimo. Una vertigine di lontananza. Anzi nemmeno. É un tempo così lontano che neppure si vede. Che non esiste proprio. Molto di meno lo sarebbe uno qualsiasi degli anni Quaranta, mille volte ri-letti, ri-proposti, ri-evocati in giornali, film, spettacoli televisi. Infinitamente meno lontano il ‘56, che pure è di solo quattro anni più tardo, « indimenticabile » o meno che sia. Per non parlare del ‘58 che per qualcuno – ad esempio per il cinema – è come dire oggi. Il ‘52 invece sono davvero gli anni Cinquanta in cui (ormai è deciso) tutte-le-vacche-erano-nere. “.
Segnalo un articolo di qualche anno fa complementare a questo, a cui l’autrice sembra riferirsi, pur senza citarlo: http://ojs.unica.it/index.php/between/article/view/1546/1692
A quando una traduzione italiana di Eribon?
Grazie per il link, conoscevo l’articolo di Silvia Nugara, che non ho segnalato soltanto perché non lo cito (i riferimenti sono solo ai testi citati).
Sembra che la traduzione italiana del libro di Eribon sia prevista per l’autunno 2017.