di Francesco Terzago (testo e foto)

Dal 14 dicembre al 19 del 2016 ho visitato Istanbul in compagnia di una delle poche persone che mi sono care; lei, in quei giorni, era ospite di un festival di poesia under 30. Queste sono le foto e le riflessioni che ho raccolto in quella città dai confini mobili e dall’identità eterodossa. Ho attraversato in sua compagnia, entrambi guidati dal Virgilio Luis Miguel Selvelli, i sedimenti millenari di culture, lingue e popoli che con il loro rimescolamento, e in alcuni casi la loro assoggettazione, hanno dato vita a questo paesaggio affollato di suggerimenti e di simboli, dove ogni singola pietra si può considerare il punto dove si sovrappongono storie ed epoche tra loro distanti.

Queste parole sono per lei.

1.

Il centro culturale del distretto degli ulivi, è qui che lei farà la sua prima lettura. Ci dicono che dobbiamo aspettare un paio d’ore perché si concluda un altro evento. Ci mettono in una stanza senza finestre, solo luce al neon. Gli organizzatori stanno con noi, fanno qualche battuta. Il tempo qui potrebbe trascorrere come all’interno di un guscio metallico scagliato nel cosmo, una volta che l’ultima porta è stata chiusa alle nostre spalle si sta lì, si attende il controllo dei sistemi e l’accensione dei razzi. Fumano tutti. L’aria si trasforma in gelatina verde. Ci portano dolcetti secchi, una decina di tipi diversi. Ci sono tre tipi diversi di succhi di frutta, e un cocktail analcolico. Chiedo se mi possono dare quello al melograno, mi rispondono che quello lo preparano per strada. In strada non ci posso andare. Fino a qualche anno fa avrebbero portato un po’ di vino, birra. Adesso le cose sono cambiate. Dovessi stare davvero due ore qui, seguendo questo regime dietetico, immerso in questa coltre di sigaretta, qualcosa in me cambierebbe in modo irreparabile. La mente ha i suoi tarli, uno dei miei è: “The Drive-In” di Lansdale. Vedo già i miei compagni tramutarsi in mostri tentacolari di saccarosio che eruttano miele e baklava dalle orecchie. Tutti ma non lei. Lei i dolci secchi li detesta, e non va matta nemmeno per il succo di frutta. Uno degli organizzatori interrompe questa mia catena di pensieri dicendomi che, se lo desideriamo, possiamo andare di là, per assistere al culmine dell’altra iniziativa. Gli chiedo di che si tratti. Risponde una conferenza sull’Islam. Bene, perché no. In che lingua? Dice, in turco.

2.

La mia vita, come quella di tutti, ha previsto barriere, e le prevede – barriere da superare, da abbattere, o che si desidera farlo. Non ricordo la caduta del muro di Berlino, le prime immagini televisive che si sono fissate, indelebilmente, nella mia retina sono di poco successive, è il ‘91, gli aerei americani abbrustoliscono i carri-armati di Saddam – nascosti come grasse lucertole, nella sabbia. Ho studiato a Padova, negli anni di via Anelli, un altro confine eretto con ragioni di divisione. Barriere. Domestiche, rapporti che non portano più da nessuna parte e che si estenuano nella definizione di confini. Nel Guangdong, in Cina, il riflesso del mio viso emerse nella superficie di lamiera metallica con cui il governo aveva delimitato i villaggi più poveri del delta del fiume delle Perle, volevano nasconderne l’esistenza agli atleti che sarebbero passati nelle strade vicine, con gli autobus, in occasione dei Giochi Asiatici del 2010. Qui la situazione è diversa, che cosa ci sia di là, in ogni caso, non lo abbiamo mai scoperto.

3.

Non che i ragazzini qui siano diversi, sono fatti dello stesso materiale ovunque li si fabbrichi. Lo stesso timore, la stessa avversione per un mondo che, nel giro di una manciata d’anni, richiederà che si esprimano, che decidano. In un esercizio politico che a molti di loro non sembrerà determinante, una massa dal peso specifico quasi nullo. Accolgono l’arrivo della nostra macchina accalcandosi alle finestre. Quando lei scende raddoppiano, attirati lì dalle studentesse, le vedette. Ridono, gesticolano, spalancano gli occhi quando compaiono tra le tende scostate del primo piano. Noi, nel cortile, non sentiamo una parola, e nessuna ne capiremmo. Sembrano pesci in un acquario, o polipi. Ho sempre provato affetto per i polipi. In molte culture queste bestie assumono tratti spregevoli, le si accostano a turpitudini, perversioni sessuali – ciò che se ne vuole condannare, in realtà, è una propensione, una debolezza di uno sparuto gruppo di umani, quella per la verità. Sondano con i loro tentacoli lo spazio limitrofo e i corpi, animati o inanimati, che lo occupano e in tutto ciò sono immuni a ogni tabù, mossi dalla necessità di distinguere tra questo e quello, e di farlo con cura. A Tellaro, all’alba, ero pronto a scagliare la fiocina contro uno di loro ma non sono riuscito a premere il grilletto. Quello si è avvicinato a me, ha fatto del fucile e degli elastici la trave per la sua altalena, nel frattempo ha allungato un tentacolo con il quale ha raggiunto la mia maschera. Poi è tornato giù, sul fondale, lunare. Si era solo voluto assicurare che ci fossi anche io, proprio lì, nella luce ancora bassa.

4.

Il fatto che il turco sia scritto con l’alfabeto latino mi rassicura. Dà l’impressione di poterle maneggiare, le parole, sottrarre ogni loro segreto smembrandole, lo stesso non accadrebbe in Giappone, in Corea o in Arabia Saudita, perché avremmo davanti a noi un’anatomia indecifrabile. Eppure nulla, o quasi, se ne capisce. Solo alcuni termini, di origine greca o germanica, rivelano in parte il loro significato. Scorrere quelle lettere allontana in me ogni senso di esotismo come se stessi cercando di capire i richiami di un bimbo; la lingua dell’infanzia la si rispetta, la si ama per i suoi racconti latenti, dovremmo fare così per tutte quelle cose che non conosciamo.

5.

In un’icona medievale la donna angelicata dai capelli di ottone desidera partire per non tornare più. Nel mosaico dorato di Santa Sofia, il volto di Piroska d’Ungheria non è stato rimosso, lei che fu Irene, imperatrice bizantina. Ancora, ritratto di giovane donna del Botticelli, forse sei stata tu, la Simonetta Vespucci, così sarebbe chiaro perché quella sera volesti misurare, nei tuoi passi, le pietre di Porto Venere. Prima ancora, la dama di Antonio del Pollaiolo, una volta che ha sciolti i capelli. Elizabeth Eleanor Siddal. Un’attrice algida di un film di Parajanov. Di sicuro Euridice, che sta fuggendo da Aristeo. Infine, la gangster di Hong Kong Express, che abbiamo visto assieme in una notte di vento. Metti lo smalto sovrapponendo strato a strato, le tue unghie assomigliano, per questo motivo, alla sezione di una stalagmite: sei viva, non un’apparizione. Ti ho già incontrata, in un altro compartimento della storia ma l’ho capito solo in questo momento – guardandoti mentre le persone ti si affollano attorno per la foto di rito. Ho ricostruito per te alcune minuzie delle tue vite passate. Per quanto riguarda le mie, il lavoro da fare è ancora molto e non so se avrò il coraggio di affrontarlo.

6

I raggi solari raggiungono l’interno dell’aula magna solo attraverso questa piccola finestra. Nel rosso e nell’ocra, loro, bianchi – si fanno turchesi. Le persone che si siedono qui stanno in bilico tra due mondi, tra due luci diverse, nel preciso punto nel quale entrano in contatto e diventano una terza cosa.

7.

Se dici scuola trovi Ataturk – busti bronzei o lapidei, non sarebbe del tempo speso male, quello nel ritrarre, con delle fotografie, queste statue e questi busti che lo raffigurano. Del kemalismo sopravvive questo, immagini, alcuni slogan, oggi non esistono più restrizioni nell’utilizzo del velo, ed è un bene. Se c’è Ataturk c’è uno dei suoi motti. La foto di Ataturk è appesa in ogni esercizio. Ataturk era un bell’uomo.

8.

A che cosa si rivolgeranno i sogni del ragazzo, che si trova a metà, tra la fotografia della moschea e l’organigramma scolastico, a qualche stella remotissima, a qualche ragazza, della stessa classe o di quella affianco. Anche in un altro paese ho visto gli stessi pannelli rossi, in Cina. C’era un vecchio militare sdentato, all’ingresso dell’accademia di belle arti, ogni volta che mi presentavo lì, per firmare il registro e poi salire dai miei studenti, mi diceva benvenuto laoshi. Sorrideva mostrando la caverna, senza alcuna vergogna – non c’è sorriso di cui ci si debba vergognare se viene su, da un difficile orgoglio e significhi, a conti fatti, facciamo tutti parte dello stesso mondo.

9.

Istanbul, in questo periodo, è frequentata da ben pochi turisti, e questo restituisce, seppur per breve tempo, ai luoghi la loro aura e il loro senso di raccoglimento. Sono comunque presenti i dispositivi concepiti per gestire la folla: recinzioni, tornelli, serpentine, metal detector, inferriate che, in assenza dell’elemento che dovrebbero governare, luccicano sterilmente sulla pietra levigata, lo fanno come lattine di birra e sacchetti di plastica rimaste sul fondo di un torrente disseccato. Stamattina tu mi hai chiesto che ti infilassi le scarpe verdi e di stringere forte i lacci.

10.

La neve si torce nei vicoli. È troppo tardi per bere il tè, seduti su uno sgabello. Il ghiaccio, il vento colpisce con i suoi dardi. I venditori di cozze ripiene non se ne vanno via, resistono. Chiedono se ci fermiamo, con loro. Un’aria abrasiva ci raggiunge da ogni punto e muove i tentacoli dentro ai vestiti. Abbiamo bevuto rosso in un’enoteca. Il bancomat lì fuori non funzionava. In ordine sparso: abbiamo bevuto gin and tonic in uno scantinato, c’era l’elettronica, soprattutto, accettavano gli euro. Abbiamo mangiato mezzo piatto di penne al tonno, fredde, con un gruppo di connazionali che arrivavano dall’istituto di cultura, dove avevano assistito alla proiezione di un film muto. Siamo saliti fino all’ultimo piano di un condominio con il corrimano in ferro battuto e là, in alto, un altro dj set. Il tizio che metteva la musica era un italiano, ci ha raccontato di quando lo stavano per ammazzare, durante il tentativo di putsch dell’estate scorsa. Ci siamo infilati in un’altra discoteca dove abbiamo avuto il nostro faccia a faccia con la solitudine. Con l’alba ormai prossima il cielo si è riempito di stagnola e noi abbiamo raggiunto il centro di piazza Taksim prima di tornarcene all’albergo.

11.

Scritte frequenti, come in ogni altra città che io abbia già visitato: insegne, targhe, epigrafi, cartellonistica, propaganda. I murales del quartiere cosmopolita sembrano gli stessi di Londra o Shanghai. Lo spirito della globalizzazione si manifesta nei dettagli ricorrenti. Le tag non sono molte, gli slogan politici non saprei dirlo. La disomogeneità del grigio è un elemento rivelatore, come l’acuirsi di una dermatite in periodo di stress. In questo punto qualcuno si è impegnato per cancellare parole, le parole che si cancellano riguardano di rado prodotti o idillio. L’esito, per ora, non è stato quello della celebre poesia di Brecht, dove, in una cella semibuia, l’impossibilità per i secondini di rimuovere la scritta “Lenin” li persuade ad abbattere il muro su cui questa è comparsa.

12.

La bandiera turca è sopra di noi, davanti a noi, ai nostri fianchi. Se non la vedi sai che comunque lei è lì, la respiri, ti è entrata nella pelle, ti ha avvolto come un polline. Basta una minima brezza perché quella si muova come un’alga nella corrente del Corno d’oro. Alcune sono alte cinque piani e scendono fino a poca distanza dall’asfalto, senza che lo tocchino mai. Forse galleggiano, sembra che non abbiano peso, forse siamo noi che siamo sospesi e le bandiere sono corpi fissi. Sui banchi delle rosticcerie se ne trovano di grandi come cartoline, rabbrividiscono, quando qualcuno apre la porta e passa oltre, riguadagnando la strada, nella luce di un giorno che preannuncia neve o tempesta.

13.

Questo palazzo, e quelli che gli sono prossimi, dovrebbero già essere stati demoliti. Sostituiti con qualcosa di nuovo. Una parete cede come una foglia di palma, stoffa, assi di legno, plastica e chiodi prendono il suo posto. In questi edifici ora vivono i rifugiati siriani. Siamo in prossimità di una grande moschea, alle spalle delle architetture di pietra azzurra delle opere di carità. Sulla sinistra, a pochi metri, una chiesa bizantina si decompone come la carcassa di un cervo, su un crinale ventoso, in giorni troppo freddi, perché nevichi.

14.

Fucili ad aria compressa. Sport nomadi, sport per persone erranti. Saprebbero colpire uno spago e non la bottiglia, come Dersu Uzala? Non è un problema di quest’epoca; la disponibilità di bottiglie, almeno qui, in una città da quindici milioni di abitanti, è prossima all’illimitatezza e anche nella steppa credo che molte cose siano cambiate. Ignari di tutto, i bastimenti rigano la superficie marina come, di lì a poche ore, succederà al tuo viso. In attesa di un’ulteriore tratta, sono loro, o siamo noi, reclinati dalla corrente, dalla brezza che ci accoglie e che così, per alcuni istanti, ci allontana da tutto, dalle coincidenze, dalle liste, dai lutti inevitabili.

15.

A sinistra, voi non potete vederlo, c’è il Bosforo. La lotta era nel vivo, quando ci siamo allontanati, non so chi abbia vinto. È continuata nell’odore della terra ribaltata, del fango, dell’erba, del salmastro e della carne arrostita. Nessuno, nel pubblico, diceva niente. Non so di che etnia fossero. I lineamenti mi ricordavano quelli dei popoli dell’Asia centrale, del Kirghizistan; uiguri – una minoranza cinese. C’era solo una spettatrice, bionda, tra centinaia di uomini accalcati. La ignoravano mentre lei si sporcava le scarpe dalle suole consumate. Siamo dovuti tornare al centro culturale del distretto degli olivi, la cerimonia di chiusura ci attendeva. Sono seguiti i ritorni, le preannunciate separazioni e, nostro malgrado, mi sono girato verso di te – per un’ultima volta.

(Fotografie di Francesco Terzago).

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