di Federico Leoni

Jacques Lacan è di moda. Ha tutte le carte in regola, per esserlo. C’è il personaggio, il dandy drappeggiato di buffe camicie barocche, armato di uno strano sigaro attorcigliato e di una ricca serie di sentenze misteriose e fascinose. E c’è il suo insegnamento psicoanalitico, un discorso che nel giro di una pagina passa con nonchalance dalla drammatica dialettica servo-padrone all’algida eleganza dello strutturalismo, dagli enigmi esistenziali del desiderio all’improvviso balenare del misteriosissimo oggetto a piccolo. Infine c’è la materia bruta, incandescente, concretissima, intorno a cui ruotano il personaggio e l’insegnamento, cioè la vita di chiunque di noi, il suo percorso più o meno felice o infelice, di illusione in illusione, di scoperta in scoperta, di amore in amore. Quei concetti enigmatici e quelle manovre tortuose, di cui l’insegnamento di Lacan è intessuto, dovrebbero seguire nella loro tortuosità, illuminare nei loro anfratti più oscuri, accompagnare sperimentandone il segreto in fondo testardo e silenzioso, il tragitto di una vita. Ce n’è abbastanza, insomma, per essere di moda. E anche per resistere a ogni moda.

Per esempio, il libro che Alex Pagliardini dedica a Lacan, Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale (Galaad), è decisamente fuori moda. Il Lacan più noto è il Lacan che si riassume in una batteria di parole chiave ormai sulla bocca di tutti. Il soggetto, il desiderio, l’inconscio strutturato come un linguaggio. Dalla più alta e complessa versione di questa lettura, quella di Massimo Recalcati, alla più corriva semplificazione di questa stessa lettura, si tratta di un paradigma che per forza intrinseca, chiarezza esemplare, capacità di dialogare con le inquietudini di un’epoca, si è imposto come uno standard, capace di formare un’intera generazione di lettori di Lacan, che hanno anzitutto conosciuto Lacan in questa prospettiva oggi condivisa e prossima a diventare una koinè. Mentre il libro di Pagliardini è fuori moda, o almeno è fuori da questa moda, è fuori da questa koinè. È il documento di un lacanismo austero, incurante delle seduzioni dell’attualità culturale, testardamente incentrato su un chiodo fisso che è quello indicato dal titolo e soprattutto dal sottotitolo del volume: Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il Reale. Qui la batteria di concetti chiave è tutt’altra: il godimento, il significante, il Reale, appunto.

I lacaniani in genere lo scrivono con la maiuscola, il Reale. Lo fanno per distinguere il Reale dalla realtà, che in fondo è qualcosa di convenuto e intersoggettivamente valido, e cioè di validato attraverso i discorsi e le immagini ed eventualmente le misurazioni o le sperimentazioni che svolgiamo intorno a qualcosa che catturiamo con quelle strategie, e insieme perdiamo proprio a causa di quelle strategie. Non che ce ne siano altre. Il Reale è tutto quanto non trova posto nelle immagini che ce ne facciamo e nei discorsi che ci costruiamo intorno. Il Reale è uno dei famosi tre registri di cui parla Lacan, insieme all’immaginario e al simbolico. Ma è facile vedere che i registri dell’immaginario e del simbolico sono appunto strumenti di cattura, registrazione, stabilizzazione, trasmissione del Reale. E che quindi il Reale non è affatto un registro, non è un dispositivo di cattura o di trasmissione, ma è ciò su cui ogni dispositivo di cattura e di trasmissione fa presa. È ciò su cui fa presa, e insieme ciò che resta imprendibile. È ciò che resta integralmente catturato e tradotto nel sistema delle immagini e nel sistema della lingua, e insieme è ciò che resta integralmente intraducibile in quei sistemi e che proprio per questo è disponibile a più traduzioni, a più registrazioni. Ancora. È ciò che non trova posto nell’immaginario o nel simbolico, ciò che resta senza immagine e senza nome, ciò che sperimentiamo senza poterlo catturare e registrare, ciò che subiamo come una potenza estranea e indefinibile, vicinissima e però consegnata a una distanza siderale. Ed è ciò che incontriamo come una promessa indecifrabile, come l’indizio disturbante di una felicità inaggirabile, come il luogo in cui stare.

Guardiamo le cose da un altro lato. Esiste una clinica lacaniana del desiderio, o del soggetto. Il suo esatto rovescio, come l’interno di un guanto è l’esatto rovescio dell’esterno, è la clinica lacaniana del godimento, o del Reale. Cioè la clinica che Pagliardini ha il merito qui di proporre in maniera molto diretta, coraggiosa, essenziale. Pagliardini legge Lacan mettendo al centro il Reale anziché il simbolico o l’immaginario. Assume che il soggetto non si definisca anzitutto come un essere che parla e che quindi ha perduto ogni accesso diretto alle cose e agli altri, un essere malinconico e legalistico, distante e astratto e spirituale. Assume che il soggetto non si definisca anzitutto come un essere che proietta sulle cose e sugli altri le immagini che gli altri hanno proiettato su cui lui, un essere folle e separato dagli altri che lui si figura in maniera perfettamente speculare, dunque degni insieme del massimo amore e del massimo odio. Assume piuttosto che il soggetto si definisca come un essere trafitto da una puntura, segnato da un marchio o da una ferita che, come si diceva, non ha nome e non ha immagine, non produce rapporto con gli altri, non rientra in una dialettica del desiderio, non ha in fondo nulla di soggettivo. E per dirla tutta, nulla di umano o di umanizzabile. Ma dire questo non basta, non rende giustizia al percorso di Pagliardini.

Intanto che mette al centro il Reale, Pagliardini fa del Reale qualcosa di molto diverso dal Reale così come si presenta in prima battuta nell’insegnamento di Lacan. Perché il Reale lo si intende per lo più come abbiamo detto poco fa, nel modo più semplice a dirsi, e anche nel modo in cui nella clinica si presenta in prima battuta. Cioè come il resto indicibile di cui un paziente tenta senza sosta di dire qualcosa, essendone come braccato e angosciato, e volendosene in fondo liberare il più in fretta possibile. Il Reale lo si intende anzitutto in termini negativi. Come ciò che non ha immagine. Come ciò che non ha nome. Come un resto insignificabile, un grumo refrattario all’opera dello spirito. La clinica del desiderio pensa che il Reale, il godimento, non sia altro che un sasso che lo spirito non riesce a digerire.

La clinica del godimento pensa le cose diversamente. Il libro di Pagliardini propone di pensare le cose diversamente. Immaginiamo di stendere un guanto su un tavolo. Prima ipotesi. Il godimento è il resto del desiderio, cioè il resto del guanto, ciò su cui il guanto non appoggia o ciò a cui il guanto non aderisce. Il resto del tavolo, diciamo così, la controfigura di quella figura che è il guanto. È il modo in cui pensa la clinica del desiderio. Seconda ipotesi. Una clinica del godimento non pensa che il godimento sia il resto del desiderio. Pensa piuttosto che il godimento sia il rovescio del desiderio. Non il resto del tavolo, non la superficie non coperta dal guanto, non il negativo di quel positivo che è la figura del guanto, ma il rovescio del guanto, quell’interno del guanto che è esattamente coestensivo del guanto. Un altro positivo, o forse semplicemente un positivo, il solo positivo. Di cui il desiderio stesso è il negativo, la negazione, o la perdita, la messa in forma, la declinazione, l’inclinazione, la piegatura. In altri termini, la clinica del godimento non pensa che il godimento sia un sasso. Pensa che così il godimento appaia al desiderio, e forse al desiderio che muove la clinica del desiderio. Ma pensa anche che questo modo di apparire del godimento non è tutto quello che si può pensare del godimento. Pensa che sia possibile pensare il godimento secondo se stesso. Incontrare il godimento secondo se stesso. E Pagliardini approfondisce questa ipotesi, la usa per rileggere tutto l’insegnamento lacaniano, e trova ovunque elementi che la suffragano. Elementi che, senza contestare l’altra ipotesi e l’altra linea di lettura, piuttosto la ricollocano entro un contesto complessivo, le assegnano un luogo specifico entro uno spazio più generale.

Tutto questo si potrebbe dire ancora altrimenti. La clinica del godimento è il rovescio della clinica del desiderio, la clinica della trascendenza è il rovescio della clinica dell’immanenza. Il movimento del desiderio e della trascendenza sono il rovescio di quel guanto che è il movimento del godimento e dell’immanenza. Il reale, pensato secondo il reale stesso, anziché secondo quanto ne risulta registrabile sul piano dell’immaginario o sul piano del simbolico, non è un resto e non è un sasso, ma un movimento. O come Pagliardini preferisce dire, con un occhio a Gilles Deleuze, il reale è un evento, un divenire, un processo. E questo è un vero punto di svolta. Questo è un contributo originale. Esisteva già una clinica del godimento, esisteva già un lacanismo che metteva al centro il Reale. Ma era una clinica ossessiva, e poteva pensare il godimento o il Reale solo come resto. Poteva pensarlo solo come resto del simbolico e cioè come residuo immobile. Era insomma una clinica del desiderio. Ma mascherata, o ignara di esserlo. Qui le maschere o le inconsapevolezze cadono. Il godimento è divenire, processo, non un registro ma l’evento di ogni registro, non ciò che non si lascia registrare ma ciò che non smette di registrarsi nei registri e perciò insieme non smette di non registrarsi nei registri. Un po’ come un corpo che non cessa di fiorire nei suoi organi e nella forma dei suoi innumerevoli organi, senza essere nessuno dei suoi organi e senza che nessuno dei suoi organi sia altro da quel corpo che essi stessi fanno fiorire.

Si aprono una serie di percorsi tutti da esplorare, di cui il libro di Pagliardini è un primo censimento a cui si spera possano seguire altre mappature. Chi scrive ha provato, per parte sua, a battere vie non prive di affinità con questi percorsi, imbattendosi in quesiti analoghi, analogamente aperti. Questo va detto non per parlar di sé, ma per fair play verso il lettore. Tra i percorsi che il libro di Pagliardini apre e suggerisce, due potrebbero essere subito segnalati, perché particolarmente urgente sembra la loro ulteriore definizione. Se la clinica del desiderio pensa che la sofferenza del soggetto abbia a che fare con l’impotenza di desiderare, di accedere all’ordine del desiderio, di incamminarsi nella direzione della trascendenza, la clinica del godimento deve pensare che la sofferenza del soggetto abbia viceversa a che fare con l’impotenza di godere, di accedere allo spazio del godimento, di installarsi nella dimensione dell’immanenza. Ma attraverso quali strategie un essere della trascendenza, qual è il soggetto, può dribblare la trascendenza stessa e ripiegarla sull’immanenza, o se non si tratta in fondo di dribblare nulla, di sperimentarla sul versante dell’immanenza, o come anche si potrebbe dire, di lasciare spazio perché l’immanenza stessa si sperimenti? È un quesito propriamente clinico. Ha a che fare con la singolarità dei soggetti, con la loro possibilità di invenzione, con le strategie con cui potranno produrre l’immanenza, concatenare un’immanenza che sia la loro, in parole povere che sia la loro appartenenza a questo mondo anziché a un altro mondo, rispetto a cui questo mondo è nullo, vuoto, residuale, secondo quelle che sono le formule stesse della trascendenza e ma anche guarda caso della vita nevrotica.

E poi, quesito più propriamente teorico, o lato teorico del medesimo quesito clinico, o lato per il quale la teoria si mostra come a suo modo nient’altro che una clinica. Come pensare il Reale secondo se stesso, quali parole e quali manovre adottare se quelle parole e manovre sono pur sempre parole e manovre umane troppo umane? Grande e antica questione, che fa tutt’uno con la storia della filosofia. Come pensare l’essere se noi siamo dal lato dell’ente, come pensare l’assoluto se noi siamo dal lato della relazione? Qui come altrove il grande “Sì” nietzscheano potrebbe fare da bussola, suggerendo che le nostre parole e le nostre manovre non sono affatto altrove dal Reale. Se il Reale non è un altro registro ma la sostanza di cui sono fatti i registri, ogni nostra parola e manovra è una parola del Reale, è una manovra del Reale. È il Reale che si pensa in noi o si manifesta in noi. Ogni pensiero è vero, ogni forma di vita è perfetta espressione del reale. Ogni sintomo è un sintomo del Reale, stavolta nel senso del genitivo soggettivo. E perciò ogni sintomo è un commutatore della trascendenza in immanenza, un punto di flessione che mostra la trascendenza come piega dell’immanenza, la trascendenza come rovescio dell’immanenza e dunque nell’immanenza. Ogni sintomo, “uno per uno”, come Lacan diceva, è il punto in cui il Reale dice di sì a se stesso, e si avvera, e non potrebbe non dire sì, e non potrebbe non avverarsi, nei modi singolarissimi in cui si avvera, nelle assolute singolarità di quelle che saranno ogni volta le sue piegature o le sue annodature, ovvero che saranno tutta la sua realtà e la sua sola ed esclusiva realtà. Un pensiero dell’immanenza o del godimento, una clinica dell’immanenza o del godimento, un’etica dell’immanenza o del godimento, a partire da qui sono tutte da costruire.

[Immagine: Jacques Lacan].

2 thoughts on “Il sintomo di Lacan

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