di Lorena Currarini

La legge 107/2015 introduce l’obbligo dell’alternanza scuola-lavoro con questa formulazione: «l’alternanza scuola lavoro rappresenta una metodologia didattica per attuare modalità di apprendimento flessibili ed equivalenti sotto il profilo culturale ed educativo (…), che colleghino sistematicamente la formazione in aula con l’esperienza pratica; arricchire la formazione acquisita nei percorsi scolastici e formativi con l’acquisizione di competenze spendibili anche sul mercato del lavoro (…)».

Si prevede che ogni allievo del triennio di liceo affronti per circa 70 ore nell’arco di ogni anno scolastico un’esperienza di lavoro, ‘sistematicamente’ in armonia con l’offerta formativa della scuola frequentata. Per i tecnici e i professionali le ore raddoppiano: quattrocento, circa centrotrenta l’anno. Un’eternità. Questa parte della legge ha cominciato a dispiegare i suoi effetti nell’anno scolastico 15/16 e in questo, rivelando nella pratica quotidiana di funzionare anche peggio di quanto si poteva immaginare.

1. Il lavoro non c’è

La formulazione è tanto vaga quanto velleitaria.

Cosa significa esattamente ‘alternanza scuola lavoro’ non l’ha precisato nessuno. Certo non la legge, che si limita a imporla. Lo scorso anno scolastico le scuole hanno letteralmente inventato le forme con cui assolvere l’obbligo di legge, ricorrendo a soluzioni fantasiose e improvvisate, o delegando il tutto agli studenti, andate e fate. L’assunto implicito è che i ragazzi abbiano bisogno di un bagno di realtà. Basta con tutte quelle ore in classe, diamo un taglio a tutti quei discorsi di cui vi riempiono la testa, andate a lavorare. Preoccupa un po’ che il ministero dell’istruzione consideri l’istruzione una specie di orpello e ritenga necessario rimediare iniettando robuste dosi di sana concretezza produttiva.

A proposito di mondo reale: il lavoro non c’è. Senz’altro in qualche parte d’Italia esiste qualche distretto industriale particolarmente fortunato che fa eccezione; ma in genere l’offerta di lavoro latita. Non ci sono fabbriche (chiudono, delocalizzano, licenziano, mettono in cassa integrazione); le piccole aziende hanno altro da fare che accogliere frotte di adolescenti ruzzanti nei corridoi; le istituzioni pubbliche – biblioteche, centri di documentazione e di studio, musei, uffici di varia natura e dimensione, del comune, dell’ex provincia eccetera – hanno capacità limitata. Un liceo medio con una popolazione scolastica di un migliaio di studenti dovrebbe collocarne circa seicento: che per settanta ore l’uno producono una quantità spaventosa di ore-lavoro da smaltire, in sorda lotta con gli altri licei e anche con gli istituti tecnici e professionali, oberati dalla doppia razione di ore da sistemare. Migliaia di ragazzi in cerca di impiego gravitanti su uno stesso territorio. Dove li mettiamo? Mistero.

Il lavoro che vanno a svolgere ovviamente non è in linea con la formazione offerta dalla scuola come prescrive la legge (ma un legislatore dovrebbe sapere in quale paese vive). E’ già tanto che lo trovino. La legge comunque, generica com’è, permette tutto. Una volta sistemati alla meno peggio in qualche volenteroso ufficio o istituzione, a questi ragazzi non si sa bene cosa far fare. Fotocopie, in genere. Oppure vanno a fare i facchini (scaricare casse nel negozio di qualche amico di famiglia è una soluzione molto praticata); o i commessi da McDonald’s (né fantascienza né mia malizia: convenzione firmata dal Miur).

Intendiamoci: nulla di disonorevole nello studente che fa il facchino. Nessuno snobismo né compianto sul ragazzetto perbene che deve piegarsi a mansioni sottoproletarie. Può essere molto importante, per lui. Purché sia pagato; lo faccia d’estate per raggranellare qualche soldo, riceva il giusto salario, e sarà un’esperienza sommamente formativa. Che lo faccia gratis per volontà dello stato mi sembra un progetto educativo un po’ meno comprensibile. Molto chiaro per quanto riguarda i vantaggi delle aziende: ma qui stiamo parlando di scuola, non di abbassare il costo del lavoro.

Nel caso si faccia loro fare qualcosa di facile ma utile, magari caricare dati in una segreteria comunale o scolastica o di biblioteca eccetera, quello che succede davvero è che svolgono gratis mansioni che dovrebbero essere pagate a dei lavoratori adulti. In pratica, rubano il lavoro ai loro fratelli maggiori o ai loro padri

2. La scuola-lavoro fagocita la scuola-scuola

L’alternanza verrà valutata. E’ diventata una materia importante, ha un monte ore che eguaglia o supera quello di moltissime altre discipline (storia, arte, filosofia, fisica, scienze, per esempio). E’ evidente che si tratta del cuore di una riforma che si vuole (ed è) radicale. Non si limita a tagliare le ore, come d’uso fin qui. Entra direttamente nella logica della formazione culturale e la modifica. Infatti, viene abbondantemente finanziata: l’insegnante che si occuperà di tenere i contatti ‘col territorio’ riceverà adeguati compensi.

Si rinsaldano certezze sconfortanti: quell’imperativo di riduzione del debito pubblico che imponeva di ridurre all’osso certi insegnamenti ora impallidisce e si dissolve. Non è un caso che il tempo scuola-lavoro lambisca e attacchi il tempo della scuola vera. Le ore obbligatorie sono troppe per riservarle interamente al pomeriggio o all’estate. Materie già decurtate devono cederle ulteriore tempo. Nella mia scuola, ben due settimane di letteratura italiana sono dedicate alla preparazione del curriculum e al colloquio di lavoro. Non è irrilevante, quante ore si cedono. Anzitutto sul piano simbolico: sottrarre preziose ore di lezione alle esigenze dell’alternanza significa riconoscerne la superiorità e l’urgenza formativa.

E’ una perdita secca sul piano culturale. Svolgere un lavoro serio, a scuola, richiede tempo. Tempo per spiegare, ascoltare, discutere, parlare e far parlare., scrivere e correggere. E’ uno scambio brutale: spiegando che al colloquio di lavoro non si va in ciabatte rinuncio per esempio alla digressione sul melodramma barocco, o alla pagina di Un anno sull’altipiano in cui Lussu scopre all’improvviso che l’ufficiale austriaco di là dalla trincea è solo un uomo che sta prendendo il caffè. Semplicemente, rinuncio a fare scuola, cioè a regalare domande e dubbi, o storie e parole che difficilmente avrebbero potuto trovare da sé.

Al suo posto, devo proporre la visione del mondo del selezionatore aziendale. Ho scoperto per esempio con un certo sgomento che nel curriculum è bene presentare anche il lavoro nero svolto, perché, spiegava radiosa la relatrice TQ, ‘fa competenze’, e ‘qui le questioni etiche non c’entrano’. Ragazzi già per proprio conto molto tentati dal cinismo italico troveranno qui la conferma autorevole (viene dalla scuola stessa!) che nel mondo reale tutti aggirare la legge non è reato.

3. Chi valuta cosa?

L’alternanza modifica la logica della formazione scolastica in modo così potente e esplicito da riplasmare lo stesso esame di stato. Il colloquio si aprirà con il resoconto dell’esperienza scuola-lavoro. Di nuovo, i simboli contano: cominciare l’esame con questo argomento significa porlo al centro del percorso scolastico, farne il fine ultimo, il culmine, il telos. Non si esamina ciò che il ragazzo ha imparato, ma ciò che ha fatto. Anzi, in maniera più sottile e pericolosa, ciò che lui è.

L’esperienza del lavoro, infatti, secondo la legge (e secondo il suo ispiratore palese, la Carta di Lisbona del 2000) deve potenziare le abilità trasversali, o competenze. Un nodo su cui forse l’insegnante medio non ha ancora riflettuto a sufficienza, ma che rappresenta il nucleo generatore della trasformazione a cui passo dopo passo stiamo assistendo. Il profilo educativo (culturale non è più un termine utilizzabile, in questa logica) proposto dalle ‘competenze’ è così vacuo che ci si accorgerà ben presto che non c’è nemmeno bisogno della scuola per formarle: i ragazzi le sviluppano allo stesso modo, anzi meglio, quando si organizzano per andare a un concerto o fare un viaggio o cercare un posto sicuro dove far l’amore con la fidanzata. Capacità di organizzazione, rapida risoluzione di problemi contingenti, inventiva, anche una certa dose di faccia tosta… Mica c’era bisogno di allestire la macchina farraginosa dell’alternanza.

Competenze, abilità trasversali, soft skills, imprenditorialità sono termini in larga parte intercambiabili, che indicano la torsione radicale cui è sottoposta la formazione. Da una scuola che forma cittadini, sulla base di un progetto culturale condiviso a livello nazionale (i programmi, che creano una memoria comune, un patrimonio collettivo) a una scuola che deve produrre persone di un certo tipo, potenziando ‘la capacità di comunicare, lavorare in gruppo, mobilitare le proprie risorse per far fronte a problemi contingenti’, eccetera. Doti, sembra, richiestissime dal mercato del lavoro: dunque – dunque? da quando questa conseguenza è così ovvia? – la scuola le deve fornire. Non con la letteratura – questo verboso ferrovecchio; più in generale, non con i contenuti, che sono – si legge chiaramente fra le righe della Carta – più che altro un impaccio. Utili tutt’al più come materiale grezzo da cui partire per sviluppare ciò che conta davvero. Quindi, riducibili a piacere, ritagliabili, comprimibili, semplificabili, ignorabili, anche un po’ disprezzabili (vecchi, noiosi, inutili): sono solo schemi intercambiabili su cui lavorare, non hanno importanza in sé. Ci vuole un altro tipo di addestramento al mercato. Meno contenuti e più lavoro.

Il lavoro presenta il vantaggio di mettere in luce il fine supremo della formazione, cui è dedicato un intero punto (il numero sette) della Carta di Lisbona: l”imprenditorialità. Il disagio che sento di fronte alla questione dell’imprenditorialità deriva dalle sue molte ambiguità. Così come le soft skills, cui è legata a doppio filo (da un’impostazione ideologica aziendalista fin dalle sue radici, visto che si tratta di concetti nati in ambito industriale), mi sembra una dote legata più al carattere individuale della persona che non a ciò che si apprende a scuola. Non credo sia possibile addestrare all’imprenditorialità. Non è una tecnica, non è una disciplina: è un’attitudine della persona, un tratto del carattere, una dote in gran parte innata.

Vorrei capire perché la scuola debba valutare il carattere di un ragazzo. Con quale legittimità, anzitutto. E poi con quale fine. Quando io valuto uno studente, controllo che abbia appreso e compreso (sì, compreso, fatto proprio, ripensato: non è vero che si chiede la mera ripetizione) contenuti che io gli ho insegnato. Banale, forse, ma misurabile con un accettabile grado di plausibilità e oggettività. Cosa valuto esattamente, quando valuto l’imprenditorialità o le abilità trasversali? Premio o punisco qualcosa che appartiene all’ambito delle sue doti personali – la disinvoltura, l’estroversione, l’originalità, la creatività… Cose belle e giuste, ma è come se dessi nove a quello alto uno e novanta biondo e figo, e quattro a quello che sembra un ragnetto occhialuto. Mi pare poco educativo. E poi vorrei sapere con quali parametri valuterei. Il profitto magicamente generato da talenti finalmente svincolati dagli impacci delle materie scolastiche e liberi di volare nel cielo di Steve Jobs? Le innumerevoli garrule start-up germinate in un tripudio di vitalità creativa dall’esperienza della scuola lavoro? Nel mondo di Barbie, forse: certo non in questo.

Vorrei anche capire cosa facciamo di chi non mostra sufficienti doti imprenditoriali. Mettiamo che uno sia vocato ad altro: che so, la filologia classica. Un topino da biblioteca perso fra le nuvole, come da stereotipo. O un fricchettoncino generoso, genio della matematica, che invece di vendere i suoi appunti li regala. Errore grave: dov’è il suo spirito imprenditoriale? E’ come se la mancata imprenditorialità fosse già pronta a trasformarsi in colpa morale e comportamento antisociale. Non è da tutti inventare, creare, innovare. Certo chi sa farlo potrà vendersi assai bene sul mercato: ma da quando la scuola giudica col metro darwinista del selezionatore del personale? Non eravamo una zona franca, almeno noi? Non contavano altri valori, dalle nostre parti?

La mescolanza fra la questione del lavoro e il voto dell’esame di stato potrebbe quindi generare meccanismi potenzialmente pericolosi. Chi valuta cosa? I ragazzi avranno lavorato (gratis, non dimentichiamolo: è per il loro bene, dice la legge) per esempio da Zara, o come facchini, o chissà dove. Cosa avranno imparato, esattamente? Avranno ricevuto informazioni e direttive su come comportarsi coi clienti, o come disporre magliette su un bancone. Saranno valutati dall’azienda in base al loro rendimento ‘professionale’. Probabile che Zara – nella persona del suo capo giovane e, immaginiamo, entusiasticamente devoto alla causa – valuti molto positivamente la disponibilità del ragazzino a obbedire, per esempio; o, detta spiccia, a farsi sfruttare. Senz’altro apprezzabile da un datore di lavoro. Forse meno apprezzabile sul piano della normale educazione civica, ma questo al ministero sembra sfuggire.

Pare piuttosto dubbia la compatibilità fra il tipo di prestazione che avranno fornito in un negozio di Zara, accompagnata dal giudizio del capo del personale, e il tipo di valutazione che la scuola è tenuta a dare sull’intero percorso liceale dell’allievo. Non è chiaro come sia possibile armonizzare elementi così palesemente eterogenei, radicalmente diversi per natura e scopo. Temo la possibilità di una sopravvalutazione del percorso lavorativo rispetto a quello scolastico; temo l’ingerenza di elementi completamente estranei alla scuola (il capetto di Zara, appunto) nella determinazione del voto finale. Temo che la centralità della formazione al lavoro si riverberi anche sull’esito finale, fagocitandolo, relegando in secondo piano la formazione culturale.

[Immagine: Foto di Thomas Demand].

 

29 thoughts on “Studiare o lavorare. Sull’alternanza scuola-lavoro

  1. Finalmente la scuola si decide a insegnare quello che serve davvero:

    1. Abituarsi a lavorare gratis
    2. Ringraziare possibilmente sempre e possibilmente prostrandosi di avere la fantastica opportunità di usare prodotti industriali per le pulizie, di capire come funzionino macchine per il caffè, di imparare a portare vassoi con 12 bicchieri o 6 calici, di fare carico/scarico merci.
    3. Capire che la formazione vale solo in funzione della produzione, intesa come economica.

    Inoltre ho dei dubbi: le ore di tirocinio sono curriculari o extra-curriculari? Se devo aggiungere alle ore di lezione quelle di lavoro gratuito, quando studio?
    Ma soprattutto: perché devo studiare per lavorare gratis, se posso non studiare e lavorare facendomi pagare?

  2. Finalmente un articolo che dice le cose come stanno sull’Alternanza Scuola Lavoro e non ci rifila il solito “un’occasione imperdibile”, “finalmente i ragazzi scenderanno dalle nuvole” e altre simili piacevolezze.

  3. Grazie per l’articolo, che fa venire brividi per niente nuovi, purtroppo.
    Ci sono passato per questo ciarpame, che neanche è tanto nuovo, scontrandomi con i miei fratelli maggiori o meno (parlo di generazioni più che di famiglie vere e proprie, quindi anche valutatori, possibili datori di lavoro etc.) La mia propensione allo studio, alla cultura al filosofeggiare sono sempre state bollate con infantilità, coccolarmi nei miei borghesi privilegi (cioè pensare e aspirare a conoscere tramite lo studio), mentre avrei dovuto andare fuori nel mondo a sporcarmi le mani. Ho sofferto e ho tirato dritto, ma lasciamo perdere…
    Il punto è che questa mentalità l’ho vista radicata anche in professori universitari, e in tanti prodotti del sistema educativo e culturale italiano. Sinceramente, temo che siamo soggetti al despotismo di idioti affaristucoli che si annidano in ogni dove, i cinici figli del neoliberismo.
    Bisogna organizzare le fila della resistenza.

  4. Ottimo articolo. Occorre resistere, resistere, resistere!

    Solo due puntualizzazioni, da pedante. Primo: non è vero che il lavoro non c’è. Se sei disposto a lavorare gratis,
    lavoro ne trovi quanto ne vuoi.

    Ciò che manca – secondo – è la domanda di lavoro capitalisticamente inteso (non l’offerta!), cioè di lavoro che produca profitto altrui

    La legge fondamentale del capitalismo è: massimo lavoro, minima occupazione e…minimo salario!

    Non bisogna tralasciare di ri/leggere, di tanto in tanto, un filosofo dell’800 che non è più di moda, ma è pur sempre attuale

  5. “Intendiamoci: nulla di disonorevole nello studente che fa il facchino.”

    Nel 1974 avevo diciott’anni, volevo comprarmi la moto, e la mattina dalle 5 alle 7 (scarico merci) andavo a fare il facchino avventizio ai Mercati Generali. La cooperativa facchini ci pagava bene, noi studenti, naturalmente in nero, e ci divertivamo anche parecchio coi rudi facchini che ci facevano gli scherzi proletari e noi che rispondevamo con gli scherzi goliardici. Mi ci sono comprato la moto, una indimenticata Laverda 750.

    Oggi gli studenti non li vogliono, prendono gli immigrati. Li pagano sempre in nero, però male. Si divertono? Si comprano la moto? Non so. Non credo.

  6. completamente d’accordo con L. Currarini! il mio sindacato. Flc-CGIL, ha da subito criticato questo modo di fare alternanza (ma poi perché alternannza?) dal primo momento, proponendo anche il ricorso al referendum. Che facciamo tutti quanti noi insegnanti? accettiamo supinamente questo stato di cose!

  7. “ Mercoledì 20 febbraio 2002 – Se uno non è professore, è studente. Se è studente, dopo un po’ smette, o va a lavorare. Se lavora e continua a studiare è un lavoratore-studente o uno studente-lavoratore. Alla fine uno si stufa: imparare, alla lunga, è triste, anche perché non si impara mai veramente niente. Se uno non è professore è scemo. Se uno è scemo è scemo. “.

  8. Nella mia scuola (un liceo delle scienze umane) l’alternanza scuola-lavoro si faceva già, per due settimane in quarta. La maggior parte delle ragazze va in scuole dell’infanzia o primarie.
    Penso che, vista la consonanza con il tipo di studi che fanno, sia un’esperienza positiva. Penso anche, in generale, che l’esperienza di mettere il naso fuori sia positiva.

    Iterarlo per altri due anni, come ci obbliga a fare la nuova legge, questo sì forse è troppo. Tanto tornare nella stessa scuola non garantisce mica il posto di lavoro lì, e c’è il rischio grosso del deja vu (tre mie ex studentesse: “già dopo la prima settimana, gira e rigira, le cose che potevi vedere e imparare le avevi viste e imparate. Ora ‘sti poveracci li mandano fuori per 2 settimane all’anno? Ma a che serve?”).
    Tuttavia il mio è solo un dubbio, per quanto forte. Sull’inutilità dell’alternanza non sarei così tranchant.

    Ma, a parte questo, condivido comunque le preoccupazioni della collega Lorena Currarini. Non c’è dubbio che tutto questo ambaradan sia sovradeterminato da una pessima retorica parapragmatistica, che la quantità di ore impiegate in un liceo siano tantissime e che qui stia cambiando uno slittamento alla volta l’intero sistema scolastico italiano, ma in modo confusissimo e in direzioni non auspicabili. Potremmo adeguare la cultura che lo sostanzia all’oggi: a me pare che si stia preferendo semplicemente metterla da parte, come elemento esornativo, per concentrarsi su tutt’altro.

    Ma per tornare all’alteranza: anche nel nostro pur virtuoso caso, riuscire davvero a creare una sinergia con le scuole primarie e dell’infanzia, con cui pure condividiamo mentalità e scopi, non è facile, per due ragioni.
    1) Non siamo pronti a curvare le materie scolastiche a un’operatività già così spinta. Io, per dire, farei fatica a pensare di poter preparare le mie studentesse in italiano per lavorare con dei bambini. Un percorso sulle fiabe, dite? Si può fare. Dovrei avere il tempo di prepararlo seriamente, di coordinarmi con telefonate e riunioni con le maestre, di trovare forme di valutazione, e dovremmo accettare il fatto che il programma di lingua e letteratura subisca una riduzione e una decisa sterzata verso altri lidi, che forse lo impoverirebbero davvero troppo (non tutte le mie allieve vanno a fare le maestre).

    2) Al solito in Italia si dice agli insegnanti: la legge c’è, prego, ora fate voi. Io sono stato nominato “tutor” per l’alternanza della classe in cui ero coordinatore. Così, tanto tocca a tutti. Se le cose si vogliono fare per bene, occorre un corpo intermedio che si occupi di queste cose.
    Io faccio “solo” l’insegnante (e cerco di farlo bene: e per farlo bene, per es. per insegnare a scrivere, devo far scrivere tanto e quindi correggere tanto, se noi poi i 600 si lamentano che i ragazzi non sanno più scrivere: ma per correggere mi ci va tempo. Questa è una priorità? Sì? Bene, mi si lasci fare l’insegnante in santa pace). Invece mi sono trovato a dover fare il segretario, che telefonava nelle varie scuole per verificare come stesse andando l’esperienza (e come volete che stesse andando? “Benissimo”). Io sono molto umile e mi presto a fare tante cose, non ho alcuna spocchia intellettuale su queste faccende. Ma non va bene lo stesso. Spero che ciascuno arrivi da solo a capire perché.

  9. 1) L’alternanza col lavoro potrebbe essere utilissima se il lavoro riguardasse le stesse cose che si studiano a scuola e se servisse a mettere a confronto la teoria e la pratica. Dove insegno io in parte ci si riesce, ma non tutti i licei linguistici hanno sede (come nel mio caso) in una città turistica piena di clienti stranieri e dunque di negozi ed alberghi dove una ragazza o ragazzo poliglotta è effettivamente utile ed apprende

    2) Se in sede ministeriale credono che il lavoro sveltisca e dia senso pratico a ragazze e ragazzi, allora perché non si provvede ad una legge che permetta di assumerli provvisoriamente, a pagamento e rigorosamente durante le vacanze scolastiche?

    3) L’articolo lo dice già, ma sottolineerei ulteriormente che allo stato attuale delle cose la maggior parte degli imprenditori o dei responsabili dei pubblici uffici non sa cosa accidenti far fare a queste schiere di fanciulli e fanciulle; di peggio c’è solo la possibilità che le imprese maggiori si organizzino, e allora davvero si andrebbe allo sfruttamento metodico, puntuale ed intensivo della forza-lavoro minorile.

  10. Sono largamente d’accordo con molto dell’impostazione di fondo di quest’articolo, ma non su tutto.

    Sono d’accordissimo sulla denuncia della confusione e della superficialità con cui questa ingombrante riforma è stata buttata sulle scuole.

    Nella scuola italiana TUTTO viene prima delle lezioni: l’alternanza, le giornate di orientamento all’università, le gite, le assemblee, le comunicazioni di servizio, pure il bagno, cui i nostri studenti devono sostanzialmente andare durante le lezioni. Fare una lezione è diventata una gimcana. Due settimane di lavoro in fumo, ma che fa? In ogni caso settimane in cui non saltano soltanto l’italiano e la letteratura, ma tutte le materie.

    In second’ordine, l’obbligatorietà ha ammazzato ogni possibile serietà di quest’esperimento. Quando l’alternanza non era obbligatoria, si faceva solo quando c’era qualcosa di utile da fare. Ora bisogna tirar su ogni scarpone, pur di piazzare gli studenti. L’assurdo è che la scuola deve obbligatoriamente garantire un servizio (il tirocinio) che però è fornito da altri, che lo fanno per volontariato. E se l’impresa non si trova o cambia idea? Mistero.

    Critica è anche la valutazione, sono d’accordo: in un sistema che per il 40% determinerà il voto finale sulla base delle medie di voto degli anni del triennio, il voto dell’alternanza è deciso di fatto da un tizio sconosciuto, il tutor aziendale, che chissà come ha seguito i ragazzi. Mah.

    Nondimeno, io non sono ostile all’idea di fondo di avvicinare scuola e mercato del lavoro. Penso a forme di lavoro cooperativo anche interno alla scuola, con le quali i ragazzi apprendano alcuni fondamentali del mondo del lavoro (rispondere del proprio operato, vedere come si lavora ad un progetto comune, ecc.). Penso all’organizzazione di eventi aperti al pubblico, attività culturali…tante cose si potrebbero fare.

    Ma soprattutto penso che l’ASL, o qualcosa che ne riprenda alcuni tratti, dovrebbe servire a far conoscere ai ragazzi il mercato del lavoro, in modo che vengano a sapere quali lavori ci sono, là fuori, che gli si potrebbero confare. In Italia troppe volte si seguono le orme familiari o amicali. Gli studenti sanno pochissimo di cosa si fa là fuori, ed è un peccato.

    Per questo non condivido la rappresentazione torbida del mondo imprenditoriale che emerge dall’articolo, esemplificata dal fosco capo del personale di Zara (giovane ma fanatico) che dai suoi dipendenti vuole obbedienza e docilità. La realtà è un po’ più complicata di così e, in media, anche migliore. In questo vedo l’unico limite di articolo che per altri versi trovo liberatorio: questa idea di una scuola che sembra quasi una Masada di sani valori civici, circondata da cinismo e grettezza non aiuta a capire la realtà, né a modificarla.

    Approfitto infine per fare autopromozione linko un mio articolo sempre sulla ASL: http://www.imille.org/2017/01/lalternanza-scuola-lavoro-qualche-riflessione/

  11. Cara Lorena,
    complimenti per l’analisi, brillante e molto incisiva. Quasi convincente. Quasi, però. Io mi trovo di più nelle osservazioni di Daniele Lo Vetere e di Francesco Rocchi. Credo che il problema sia la rigidità e la fretta con qui è stata imposta la cosa, ma non penso che l’alternanza in sé sia un problema.
    Se si esasperano i suoi significati si cade nella solita contrapposizione di esaltazione (“l’alternanza finalmente fa uscire dal mondo chiuso della scuola”) e depressione (“l’alternanza distrugge la formazione scolastica seria”). Invece ci vuole più distacco.
    Intanto non è vero che siccome non c’è lavoro l’alternanza non serve. La possibilità di trovare lavoro dipende tanto dal mercato quanto dalla formazione delle persone. Il sistema educativo deve porsi anche il problema di una formazione adeguata per l’inserimento nel mondo del lavoro, non basta dire “formiamo delle persone colte, il resto si risolverà”. L’alternanza serve sia per avvicinare a competenze pratiche coerenti con il percorso di formazione, sia a orientare nel mondo del lavoro.
    Rifiuto la tua rappresentazione apocalittica del mondo imprenditoriale, e il disprezzo per le attività pratiche, di tipo organizzativo, che si possono svolgere in azienda (e non solo). Io credo invece che questo tipo di competenze si apprenda a fatica, nella vita adulta, quando si esce da un lungo tunnel di studio e che non fa male, invece, iniziare ad apprenderle quando si è in quel percorso. In Italia siamo troppo affezionati a uno schema per cui prima ci si forma (chiusi nei conventi) e poi si va “nel secolo”. Io sono per un costante rimescolio dei due piani, anche, inversamente, con la formazione permanente per gli adulti, di cui nessuno (non a caso) si cura.
    Infine, più sul pratico.
    Anche io ho visto esperienze di alternanza coerenti con il curriculum, e molto apprezzate dai ragazzi (nel mio professionale e liceo delle scienze umane l’esperienza negli asili e nelle scuole elementari, per esempio). Le istituzioni pubbliche hanno uno spazio enorme di azione, basti pensare a quello che possono fare le Aziende sanitarie per un professionale dei servizi socio sanitari, per esempio; o che cosa possono fare Musei o Biblioteche per i Licei classici; o che cosa possono fare centri di ricerca o osservatori per i Licei scientifici. E poi, come ho detto, anche esperienze in aziende private possono essere molto utili: io non credo alla leggenda dei “facchini” e delle “fotocopie”, perché si firmano delle convenzioni, molto impegnative, e il lavoro che viene svolto in azienda deve essere controllato. Se non si fa, è responsabilità della scuola.
    E non mi si dica che un docente e una scuola non devono fare questo. Come ho detto, la commistione tra teorico e pratico, secondo me, fa bene a tutti. Semplificazioni a parte, un docente è un funzionario pubblico, ha anche la responsabilità dei processi di cui fa parte; e una scuola è una istituzione pubblica che ha una responsabilità verso il proprio territorio, non è solo un’oasi di tranquillità in cui dedicarsi all’otium culturale.
    Come Daniele e Francesco, penso che si tratti di far saltare le rigidità: bisogna togliere l’obbligo di raggiungere quel monte ore (esagerato), mantenendo però l’obbligo in generale di fare un percorso di alternanza.
    Infine, un dettaglio: non è vero che con il nuovo esame di stato la relazione sull’alternanza aprirà il colloquio, ne sarà solo una parte.

  12. Vorrei lasciare una testimonianza dalla parte “dell’imprenditore” anche se sono una semplice artigiana e non una vera imprenditrice.
    Credo che l’esperienza scuola-lavoro dovrebbe essere un contatto con il mondo del lavoro di breve durata e senza intento diretto di formazione lavorativa, non necessariamente del tutto attinente alla formazione scolastica, ma neanche possibilmente del tutto lontana.
    In pratica non dovrebbe togliere troppo tempo alla formazione scolastica. Eppure affacciarsi al mondo del lavoro – ovvero della mancanza e della precarietà del lavoro – con tutte le carenze e contraddizioni dell’ applicazione pratica della legge, è comunque una esperienza che avvicina alla realtà delle cose.
    Sbagliato pensare e insegnare che tutto ciò che si impara debba avere una immediata applicazione lavorativa, errato credere che l’esperienza scuola-lavoro possa davvero aiutare gli studenti a trovare lavoro, ma forse in questo progetto vi sono anche degli aspetti positivi.
    Ai ragazzi che vengono nel mio laboratorio di restauro e che credono che fare il restauratore sia un meraviglioso lavoro romantico e pieno di soddisfazioni e che dia la libertà di lavorare quando si vuole perchè non si è sottoposti a nessuno, io racconto come sia difficile sbarcare il lunario in mezzo a burocrazie e ritardi cronici dei pagamenti, che dopo aver acquisito capacità manuali, teoriche e imprenditoriali e ci si deve tenere costantemente aggiornati sulle novità tecniche ma che nonostante tutto ciò si guadagni meno degli idraulici e dei meccanici.
    Racconto loro come lo stato sia il primo trasgressore della propria stessa normativa emanata e come non si abbia mai un giorno di riposo perchè si guadagna poco e non ci si può fermare. Ma racconto anche che senza la passione, la forte motivazione e la formazione culturale di base non si possa neanche provare a lavorare in ambito di tutela dei beni culturali.

  13. La collega Currarini ha finalmente, e senza pietà alcuna, dato il nome alle cose.
    Finalmente, perché di questo suo contributo apprezzo in particolare l’aver richiamato l’attenzione sulla vita scolastica quotidiana degli studenti all’indomani del varo della legge 107. Gli attacchi alla legge, infatti, sono stati, soprattutto in una prima fase, prevalentemente di tipo sindacale e non culturale; di conseguenza, le parti discutibili della legge che sono state finora neutralizzate dalla prassi affermatasi nelle scuole, anche grazie alla mediazione sindacale, riguardano la valutazione dei docenti, il reclutamento, i contratti e la mobilità. Sugli aspetti culturali e didattici che le legge 107 ha modificato si comincia solo ora a riflettere seriamente. Premetto che condivido tutte le osservazioni ‘non-apocalittiche’ dei colleghi Lo Vetere, Rocchi e Piras, e che quindi non vedo nell’ASL un male assoluto. Qui aggiungo solo due osservazioni.

    1) Lo studio è già molto soffocato dagli stili di vita iperattivi dei nostri adolescenti. Le ore obbligatorie di lavoro da sovrapporre allo studio sono quindi troppe, e non solo perché i docenti non riescono a svolgere il programma, ma perché aumenta lo stress dei ragazzi, soprattutto dei più deboli. In attesa di veder ridotto il monte ore obbligatorio dell’ASL, sarebbe importante rimandare ai mesi estivi le attività degli studenti (la legge lo prevede), in considerazione anche del fatto che le vacanze sono lunghissime (tre mesi pieni) e forse per un certo tipo di esperienze (centri estivi per bambini e ragazzi, turismo, beni culturali) in quella fase dell’anno è più ampia l’offerta di occasioni formative.

    2) Per deplorare lo stato (non buono) delle cose, io non chiamerei in causa il ‘pensiero aziendalista’, o qualche altra mega categoria ideologica: come la Currarini fa ben notare, i nodi che vengono al pettine discendono dal tentativo di unificare i sistemi scolastici e universitari dei Paesi europei (Carta di Lisbona e Processo di Bologna), certo con l’obiettivo di una crescita economica, e non solo culturale, di tutta l’area UE. L’Italia ha rivelato di fronte a questi percorsi di innovazione tutta la propria inadeguatezza culturale e amministrativa, e mi pare che il dibattito pubblico su questi temi sia piuttosto scarso, se non per l’affiorare delle proteste dei docenti di fronte a incompresi nuovi riti (le valutazioni di sistema, per esempio). In ogni caso, è legittimo ripensare agli effetti di questa innovazione, nei singoli Paesi come in tutta l’UE. Purché lo si faccia dati alla mano, con obiettività, e non tirando fuori solo lamenti passatisti. Fra poco saranno trascorsi 20 anni dall’avvio di questi ambiziosi processi: a che punto siamo (magari con uno sguardo oltre confine)?

  14. Questa legge sull’alternanza scuola/lavoro è ridicola e oscena, ma alcuni pensosi professori che qui intervengono non paiono rendersene conto! Dovrebbero essere sulle barricate con i loro studenti, e invece si baloccano in
    capziosi distinguo. Che pena!

    Eppure l’articolo lo spiega bene. Il governo piddino, i pasdaran dell’Euro, hanno messo l’ultimo chiodo sulla bara della scuola pubblica. Dopodiché, grazie ad un bagno di pratica e di realtà, i nostri ex-studenti saranno pronti a
    servire i viaggiatori del Gran Tour

  15. Finché non penseremo la scuola come luogo in cui si formano le persone a pensare e agire in libertà e autonomia e non costruiremo un mondo in cui le persone abbiano le tre fondamentali libertà: disporre di una valuta in contanti, disporre della sicurezza di una dimora propria, disporre della libertà di indirizzare le tasse come desiderano, disporre liberamente della conoscenza senza alcun vincolo di parola e espressione autentico, non assisteremo in tale ambito che a tristi farse oscillanti tra la prosecuzione di inutili anni di studio-parcheggio per giovani che non sappiamo come impiegare e la speculare realizzazione di schiavismi chiamati “volontariato” per impiegare uomini a costo quasi zero per fare lavori inutili che non sono più richiesti o che dovrebbero essere retribuiti.

  16. @ gori.

    Diamine, si fa una fatica nera a barcamenarsi tra ragioni e torti. Di solito vengo accusato di essere apocalittico (non è vero), ora sono intruppato tra gli integrati (non è vero).

    Le ragioni dei miei distinguo sono chiare, credo, dal mio precedente intervento. Ma non voglio sottrarmi alla sua (tua, se sei un collega) provocazione.
    Purtroppo non intravedo barricate all’orizzonte, per complicate ragioni storiche.

    Nell’attesa che le si faccia, che fare davanti al problema posto dal paradosso di Chomsky, quello che racconta che se prendi una rana e la butti nell’acqua bollente quella schizza via e si salva, se invece l’acqua gliela scaldi sotto le terga un poco alla volta, quella finisce bollita?
    E’ evidente che se dico “ma che sarà mai, è solo un grado in più”, sono un po’ colluso con la bollitura della povera rana; al contrario, se voglio fermare lo scivolamento un grado alla volta lungo il piano inclinato ora qui subito adesso, rischio di essere catastrofista o velleitario.

    Sembrano altri sofismi, i miei, ma io credo di no. La rivoluzione nel secolo scorso ha fallito. Il riformismo pure, sta fallendo.
    Io che fare mica lo so. Ogni tanto ragiono, un po’ cerchiobottisticamente. Serve a poco, me ne rendo conto. A volte uno se ne vergogna anche un po’.

  17. Concordo in buona parte con il giudizio di Mauro Piras riguardo alle tesi dell’articolo di Lorena Currarini. Sono d’accordo che qualsiasi tipo di alternanza scuola-lavoro compiuto da qualsiasi tipo di studente di qualsiasi tipo di scuola non è detto che sia di massimo aiuta per la sua formazione ma io mi oppongo alla visione “mondo della scuola = santuario immacolato che forma l’uomo e che lo rende un cittadino consapevole” contrapposto al “mondo delle aziende e del lavoro = ambiente demoniaco e cattivissimo che riduce l’uomo a merce e a macchina priva di ogni dignità e libertà” che riecheggia le obsolete divisioni tra “arti liberali” e “arti meccaniche”, tra “otium” e “negotium”, tra “lavori di mente per uomini liberi” e “lavori di mano per servi” (come se esistessero lavori in cui serve l’intelligenza che hanno gli asini per tirare i carri, con tutto il rispetto per gli asini) divisioni contestate da secoli da Galileo (che magari oggi sarebbe stato non solo messo a tacere ma anche ammazzato da certi “umanisti” che ritengono che il mondo si impari non lavorando su esperimenti, ma stando chini su libri di filosofi del passato che “hanno detto già tutto”), dagli illuministi dell'”Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri”, dalle neuroscienze (che hanno dimostrato che l’attività che fa il cervello quando osserva un oggetto e molto simile a quella che compie mentre costruisce lo stesso oggetto) e da tanti altri…

    Chiaramente questa unione tra sapere teorico e agire pratico può essere presente già nella scuola stessa con laboratori (soprattutto nelle materie umanistiche) ma anche nel mondo del lavoro si possono trovare occasioni ottime per dimostrare, come direbbe un certo Bacone, che oltre a un “sapere delle parole” occorre anche un “sapere delle opere” e, come direbbe un certo Marx (che magari su altre cose aveva meno ragione) oltre a comprendere il mondo esiste anche il compito di cambiarlo, in fondo nel mondo delle aziende gli studenti troveranno altre persone che comunque sono stati studenti anche loro e dunque potranno mostrare ad essi perché ciò che hanno imparato dalla scuola è per loro importante anche nella loro vita di tutti i giorni.

    Ciao.

  18. Come tutte le cose, va fatta bene e va retribuita, con i dovuti versamenti previdenziali e assicurativi. Su 52 settimane annuali, dedicarne dieci, anche discontinue, è possibile e vi sono le condizioni, per poterlo fare, anche, in sostituzione delle ferie degli occupati. Diventa un forma parzialmente sostitutiva di apprendistato e come tale va riconosciuta. Può, quindi, semplificare quell’insieme troppo disarticolato e inefficace delle varie agenzie pubbliche e private, dirottandone i fondi nei bilanci delle Autonomie Scolastiche, che devono avere un efficiente orientamento non solo scolastico; ma, anche, lavorativo. Mi fermo qui.

  19. L’Alternanza Scuola Lavoro non prevede retribuzione e potrebbe configurarsi in molti casi come una forma di sfruttamento del lavoro, nel caso degli studenti più giovani si tratterebbe peraltro di lavoro minorile. Gli studenti degli Istituti alberghieri per esempio sono già soggetti a sfruttamento perché in molti casi l’Alternanza per loro vuol dire fare i camerieri aggratis. Ciò inoltre priva della possibilità di svolgere lavoretti nel tempo libero e durante le vacanze tanti giovani, in parte gli stessi che svolgono l’Alternanza, in parte soggetti diversi. Per non parlare di coloro che andranno a svolgere l’alternanza presso McDonald, dove, si dice, non friggeranno patatine… ok: e cosa faranno tutti questi giovani da McDonald? Cosa impareranno? Sarà, l’insegnamento che trarranno da quello stage, in linea con l’educazione alimentare impartita dall’insegnante di scienze motorie o coi progetti sulla tutela della salute e dell’ambiente cui parteciperanno su iniziativa della Scuola, o dell’altra ASL, l’azienda sanitaria locale?
    Che possano esistere occasioni di alternanza positiva e proficua, non lo metto in dubbio, ho insegnato in un Istituto tecnico e già da anni i miei studenti alla fine della classe quarta facevano (a titolo volontario, non obbligatorio) tre-quattro settimane di stage nel mese di giugno. Era una buona cosa con riserva, perché alcuni tornavano a scuola dopo aver fatto un’esperienza importante, altri si erano limitati a stazionare presso le aziende e gli enti, senza imparare nulla di buono.
    Ora la moltiplicazione dei pani e dei pesci (dei ragazzi e delle ore) promette il moltiplicarsi di esperienze inutili, la perdita di prezioso tempo scuola o la devoluzione di una parte delle vacanze estive che saranno forse anche troppo lunghe, ma che il giovane potrebbe voler impegnare altrimenti…
    Per non parlare del fatto che i ragazzi sono ancora giovani e potrebbero cambiare i loro progetti di vita, invece che andare a lavorare in un’azienda meccanica decidere di iscriversi a medicina o a filosofia; che, data la situazione in cui ci troviamo da tempo, potrebbero passare degli anni tra queste esperienze adolescenziali e l’effettivo ingresso nel mondo del lavoro; per non parlare infine dell’assoluta improponibilità, almeno per me, della motivazione che dice all’incirca: è bene che sperimentino che cos’è il mondo del lavoro e come ci si comporta… una forma di addestramento che a me pare non competa alla scuola.

  20. Condivido poche cose e dissento su molte altre.
    Condivido sulla superficialità e confusione con cui questa riforma è stata data alle scuole.
    Invece non condivido tuto il resto, polemica sterile e fuorviante dai problemi reali. Che ha dato motivo ad altri di esprimere giudizi negativi con motivazioni futili. Ad esempio che i ragazzi lavorerebbero gratis!!!!! Con tutto il rispetto chi scrive non ha idea di cosa parla. O anche che il lavoro non c’è. Sì non c’è, e allora? Educhiamo i ragazzi al gioco al biliardo?
    Intanto sfugge che gli studenti non sanno assolutamente niente del mondo del lavoro, e, terminati gli studi, se mamma non li ha abituati, non sanno fare neanche la spesa.
    E penso che, come prima cosa, l’alternanza scuola lavoro è utile, funziona, se i docenti gli danno degli obiettivi.
    Ad esempio, come primo obiettivo, porrei ‘ la comprensione e l’organizzazione del mondo del lavoro’ poi approfondirei ‘lo schema delle responsabilità’, e anche ‘l’organigramma decisionale. Chi decide cosa e perché’.
    E ancora, ‘i costi del mondo del lavoro, i materiali, i profitti. Chi paga cosa’
    E ancora ‘i servizi al mondo del lavoro’. E anche ‘la politica del lavoro’ così che comprendono che la parola “politica” indica “scelte” che non sono necessariamente dipendenti dai partiti.
    Insomma, c’è un mondo enorme da esplorare che dobbiamo saper gestire, organizzare e guidare.
    Non solo lamentele sterili.

  21. Mi scuso se ho inviato due volte lo stesso commento, ma mi sono accorto che nel primo invio alcune frasi inserite tra virgolette, mi venivano tagliate.
    Grazie

  22. alternanza scuola lavoro: uno stress per cercare ciò che può lasciare un segno positivo nei ragazzi, uno stress per trovare un luogo, un’azienda, un’associazione che abbia finalità culturali e non profitto ….ammesso che in certe aree della nostra Italia e soprattutto del Sud, ce ne siano, interessate ad accogliere gruppi sempre più numerosi di studenti liceali.
    Io davvero non so perchè non si è creato ancora un coro forte di protesta.

  23. Rispondo ad Antonio Giordano: mi sto occupando dell’alternanza dallo scorso anno, lo faccio anche con un certo entusiasmo da poter trasmettere, affronto anche l’aspetto burocratico con pazienza, cerco di trovare il meglio individuando, talvolta, nei ragazzi meno motivati allo studio, responsabilità e continuità nel lavoro assegnato…però devi riconoscere che ci hanno rivoltato una pentola bollente senza porsi domande. I problemi nell’applicazione e le incongruenze della legge sono rimbalzati a noi ….

  24. Nell’istituto dove insegno ci sono tre colleghi, assunti con la cosiddetta fase C, che, afferendo a classi di concorso non contemplate nell’ordinamento dell’istituto, non si occupano di altro che dell’alternanza. Il che significa che, solo per organizzare l’alternanza nel mio istituto (circa 1200 alunni) lo Stato spende ogni anno più o meno 70.000 euro. Moltiplicate questa cifra per tutti gli istituti superiori della nazione e avrete la misura di questa assoluta follia.

  25. Una scuola inserita nella realtà lavorativa…
    pura utopia in un’Italia che non riesce a garantire nemmeno i servizi primari.
    Il lavoro come dipendente è una chimera, ci sono molte idee ma qualunque attività ti richiede un onere fiscale troppo impegnativo e si parte già zavorrati.
    Non perdo la speranza che questo Governo o il nuovo (magari!) capisca che questa è la priorità, se non si crea lavoro non si va da nessuna parte, e pure la scelta dello studio o della formazione diventa un lusso che non tutti possono soddisfare.

  26. Ottimo articolo. Bisognerebbe lanciare una petizione nazionale per abolire l’obbligo dell’Alternanza, consentendo ai Collegi piena libertà di scelta. Così com’è più che di alternanza si deve parlare di sostituzione (o sottrazione) di saperi a vantaggio di percorsi di varia umanità. Oltre al numero esorbitante di ore disciplinari che scompaiono, il danno maggiore inflitto agli studenti è di natura metodologica, visto il caos in cui vengono precipitati. Per non parlare poi della valutazione dei percorsi di alternanza che i consigli di classe devono accettare a scatola chiusa. E del futuro esame di Stato in cui il peso dei percorsi non sarà indifferente… Ha ragione C. Giunta: “Quale messago, quale idea di formazione trapela dal progetto di Alternanza Scuola-Lavoro, che sostituisce alcune decine di ore curricolari con esperienze lavorative al’interno di aziende o uffici pubblici? Se davvero fossimo convinti che studiare con serietà e continuità discipline come l’italiano o la storia o la biologia o la matematica è il modo migliore per crescere e per trovarsi un lavoro, accetteremmo davvero di farci rosicchiare il tempo scuola dalla gita d’istruzione, dal Campus sulla Legalità, dalla Settimana della Cittadinanza, dalla Giornata della Memoria, dallo stage in biblioteca?” (Il Sole 24 Ore – Domenicale 12/2/2017).

  27. Ho chiesto a studenti e studentesse in asl che cosa stanno imparando? A lavorare forse? Nient’affatto, anzi perfino i più affaticati dalla permanenza nelle aule polverose dei rispettivi istituti auspicano di poter tornare a fare qualcosa di utile per loro, ovvero studiare. Quello che l’alternanza scuola-lavoro sta loro insegnando è risolvere i conflitti (altrui), ascoltare lezioni (peggiori di quelle che riceverebbero in classe) di tutto, dal marketing alla confezione dei giochi per bambini, chiudere buste, far fotocopie. Nel migliore dei casi, studenti e studentesse sono presenze inutili, nel peggiore sono ignorati e umiliati. Dal prossimo anno sparirà la terza prova scritta dell’esame di stato e il percorso individuale di ogni studente e studentessa: solo una relazione sul loro percorso di asl. Vergogna su vergogna, altro che buona scuola!

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