di Francesco Rocchi

[Si parla molto in questi giorni della cosiddetta “Lettera dei 600”, un appello “Contro il declino dell’italiano a scuola” promosso dal Gruppo di Firenze e firmato da seicento docenti universitari, che denuncia le gravi carenze degli studenti nelle competenze fondamentali di lingua italiana (ortografia, grammatica, sintassi, lessico) e propone di intervenire sulla Primo ciclo di istruzione per affrontare questa crisi. La Lettera ha suscitato molte risposte, più o meno pertinenti, tutte piuttosto teoriche. Questo testo suggerisce invece una risposta pratica, su un terreno determinante (mp)]

Il compito di italiano è sempre stato la prova principe dell’esame di Stato, tale da restare quasi del tutto immutato anche attraverso l’ultima riforma.
Nella sua versione tradizionale, il compito di italiano ha qualche cosa della lezione quodlibetica. Si dà un argomento, rivelato al momento della prova, e su quello ci si diffonde lungamente ostentando dottrina, buon senso e profondità critica. Da qualche lustro a questa parte lo sforzo declamatorio viene sostenuto da un corredo di materiali e di fonti che diano allo studente qualcosa di concreto su cui ragionare, mentre allo stesso tempo il ministero è diventato meno esigente in tema di lunghezza dell’elaborato, dato che il saggio, ora, deve essere breve, cosa mai richiesta al tema vero e proprio, che pure continua ad esistere, come opzione quasi residuale.

A parte certi eccessi declamatori, non è poi una prova pessima o particolarmente dannosa in sé. Se il fine è il semplice verificare che uno studente sappia scrivere in un italiano corretto, allora va bene. Quale che sia l’argomento, una persona che padroneggi un italiano decente avrà pur modo di far mostra della propria competenza linguistica, in un modo o nell’altro.
C’è un problema, però. Anzi, due. Il primo riguarda il fatto che la valutazione di uno scritto non riguarda solo la forma, ma anche la profondità del pensiero, l’originalità, la capacità di fare connessioni sensate e rivelatrici. Sono tutte cose bellissime, ma difficili da cavare dal cilindro in tre ore di compito standard, o anche nelle sei dell’Esame di Stato. È vero che ci sono apposta più tracce tra cui scegliere, ma rimane obbligatorio mostrare di avere delle idee, e pure originali. Non è una richiesta che possa oggettivamente definirsi realistica.

 Qualcuno – non riesco a ricordare chi – ha già parlato della “libertà di non avere un’opinione”, ed aveva ragione. Imporsi di prendere posizione senza avere una conoscenza profonda del motivo del dibattere significa affidarsi mani e piedi al pregiudizio e alla superficialità. Chiedere agli studenti di far proprio ciò, sia pure venendogli incontro con tracce che si presumono stimolanti, non è né corretto né bello. Senza contare che se ci si mette a giudicare le idee, si fa presto a passare oltre e a cominciare a giudicare le persone, cosa che è ancor meno corretta e meno bella.
Un po’ più di modestia da parte di professori e commissari, che non sono né Caronte né Minosse, da questo punto di vista, sarebbe utile. Potremmo accontentarci di essere maestri di stile e di prosa, piuttosto che di pensiero (ammesso e non concesso che abbiamo più idee dei nostri studenti nei tanti argomenti di attualità sui quali chiamano i ragazzi ad esprimersi).

 Il secondo problema è che verificare si può e si deve, ma solo dopo che si è insegnato a scrivere. La scuola italiana insegna a scrivere, in particolare alle superiori? A mio avviso, molto poco.
Nella mia esperienza i temi da svolgere sono tre per quadrimestre, quindi sei in un anno. E si tratta pressoché delle uniche situazioni in cui uno studente si trovi a scrivere, in tempo limitato e con severe restrizioni alle fonti, un testo argomentativo. In generale gli studenti prendono note, appunti, schemi, riassumono e ricopiano, ma al di fuori del compito in classe raramente argomentano.
Del risultato di questa lamentevole situazione si accorgono bene non tanto i docenti, quanto i correlatori di laurea, che nel leggere le tesi dei loro studenti – è notorio – si devono spesso mettere le mani nei capelli.
Uscirne si può. Sarebbe forse utile che “composizione” diventasse una materia a sé stante, ma anche senza impelagarsi in proposte di riforma divaganti, io credo che si possa cominciare utilmente a rivedere certe abitudini ormai superate.

Un serio limite del compito in classe è nel fatto che uno studente, durante un compito, deve essere isolato da qualsiasi fonte di informazioni, esclusa quella che il professore o il ministero benignamente gli forniscono a mo’ di nutrimento intellettuale d’emergenza, sufficiente appena per il tempo del compito.
Come al solito, questa idiosincrasia per le fonti esterne ha delle ragioni reali e ben fondate, ma non dobbiamo esserne schiavi. La diffidenza dei professori, che è diventata parossistica dacché sono stati inventati i cellulari e ancor più da quando internet è diventata portatile, nasce dal timore, non infondato, che gli studenti si facciano dettare il compito da qualcuno di fuori. È lo stesso timore che impone che gli argomenti delle tracce siano custoditi gelosamente fino al momento del compito. Un tempo i plichi sigillati con le tracce di maturità erano consegnati alle scuole dai carabinieri; oggi c’è una procedura telematica che ricorda quella dell’attivazione delle testate nucleari, ma il principio è lo stesso.
Tutto questo si può superare senza far venir meno la validità del lavoro svolto dagli studenti. Non è nemmeno difficile. Semplicemente, è sufficiente che con gli studenti si decidano insieme le aree tematiche sulle quali potranno vertere le tracce. Chiedere agli studenti di indicarle loro stessi significa dare loro una chance in più di poter scrivere un tema in cui abbiano una reale, sia pure ingenua e parziale, cognizione di causa. In ogni caso qualcosa di più delle astratte vaghezze cui uno studente deve ricorrere quando scrive temi stans pede in uno.

L’affidabilità del compito in classe non ne sarebbe compromessa. Una volta capiti quali sono gli interessi dei ragazzi e cosa potrebbe stimolarne una reazione intellettuale, l’insegnante dovrebbe cercare un articolo, un testo o un documento di altra natura in quelle aree tematiche e chiedere ai ragazzi di commentarlo – questo sì da non rivelare prima. L’essersi preparati a casa, essersi anche portati dei materiali o il fatto di consultare il cellulare nell’atto di costruire un commento non toglie nulla al lavoro che rimane necessario fare per organizzare il testo, studiarne i raccordi, illustrare ed esemplificare i passaggi più importanti.

In questo senso, il lavoro diventa qualcosa di molto più stimolante. Viene meno l’angoscia del non sapere che dire: se il lavoro “informativo” preliminare è stato ben svolto a casa, è impossibile rimanere con quella sensazione di vuoto che molti studenti conoscono.
Più importante, le idee da esprimere vanno sì in parte trovate al momento (in quanto stimolate dal documento offerto), ma sortiscono d’un retroterra più elaborato e meglio posseduto, in conseguenza del lavoro preliminare svolto con calma.
Con un compito del genere non ci si limita a scrivere. Questo è un compito di italiano con cui si impara, perché nel documentarsi si fa ricorso a dati e cognizioni nuove. Il che peraltro vuol dire che il compito di italiano può diventare disinvoltamente interdisciplinare oppure che se ne può trasferire il modello ad altre materie.
D’altra parte, è dimostrato che i test e gli esami sono momenti particolarmente efficaci per l’apprendimento. Le informazioni che maneggiamo durante un test ci rimangono in testa in maniera particolarmente radicata. Lo dimostrano alcuni esperimenti scientifici, ma anche l’esperienza di ciascuno di noi lo può confermare facilmente: possono essere passati decenni, ma tutti si ricordano ancora le domande dell’esame di maturità, o quelle di un esame universitario.

 In letteratura si chiama “testing effect” ed è un’ottima chiave per migliorare la didattica, perché vuole dire che il lavoro del compito di italiano, invece di essere una meteora che prende due o tre ore e poi scompare, può diventare il perno del lavoro di classe, ed estendersi dalle tracce di attualità anche alla letteratura e ad altre materie, anche e soprattutto in chiave interdisciplinare.

Lo studio che si fa a scuola, specialmente nelle materie umanistiche, tende infatti ad essere accumulativo, ma in maniera ingenua. Si studiano più argomenti aggiungendone di nuovi man mano che si procede, senza una reale soluzione di continuità, senza un inizio ed una fine che non siano partizioni burocratiche, con una grande difficoltà a tenere tutto sotto controllo: le interrogazioni vertono sempre sull’ultimo argomento e una qualche forma di “ripetizione”, ma è improponibile chiedere agli studenti di andare ad un interrogazione preparandosi su “tutto il programma”. Alcuni professori ci provano, ma agli studenti basta fare corpo morto per ottenere sostanziosi sconti, e tutto sommato non hanno nemmeno tutti i torti: “tutto il programma” è davvero troppo già dopo pochi mesi di scuola.

Se lo studio diventa finalizzato ad un compito strutturato così come ho proposto, e cadenzato in maniera sensata, la faccenda diventa abbastanza diversa. Lo studio assume una prospettiva un po’ più lunga: lo studio giornaliero non serve più per l’interrogazione del giorno dopo (data la quale ci si può scordare tutto, e passare ad altro, come puntualmente avviene), ma piuttosto per un evento ben preciso che avrà luogo a tempo debito, e per il quale bisogna organizzarsi.

L’organizzazione in questo senso è cruciale, e formativa. “Organizzarsi” significa avere ben chiaro cosa è importante ricordare, quali nessi e quali relazioni tra i vari argomenti devono essere compresi e posseduti saldamente, e quali dettagli invece possono essere trascurati – oppure ricordati, sì, ma nella giusta prospettiva e senza dargli una rilevanza che non hanno. Se l’insegnante è in grado di spiegare in quale direzione i ragazzi si devono muovere, se indica correttamente quali sono gli obiettivi e le modalità del compito di italiano, i ragazzi saranno molto più motivati ad affacciarsi sui libri di testo e sui documenti oggetto di studio in maniera critica: gli conviene, semplicemente, dato che è impossibile coprire grandi quantità di “programma” senza selezionare e categorizzare.
Non si sottovaluti questa “organizzazione”. Proprio analizzando gli scritti degli studenti, è assai facile accorgersi di come la sua mancanza si riverberi immancabilmente e quotidianamente sull’apprendimento dei ragazzi. Più che gli errori di grammatica o di ortografia (in ogni caso triviali, in genere), quel che ai ragazzi manca sono i connettivi logici. Le idee fluttuano sulla carta scontrandosi e incastrandosi, senza formule di passaggio, avverbi o indicatori che mostrino quale percorso il pensiero del lettore debba seguire. Parole come “quindi”, “dunque”, “nondimeno”, “d’altra parte” o tutte quelle espressioni che servono a marcare lo snodarsi del discorso spesso mancano negli studenti. Non perché non le conoscano, ma perché il materiale che hanno accumulato in testa e che riversano su carta è informe, mal afferrato, un vero corpo estraneo da espellere alla bell’e meglio buttandolo su carta.

 Non solo uno studio “prospettico” e “finalizzato” smuoverebbe le acque in questo senso: permetterebbe anche di superare uno dei grandi mali della scuola italiana, l’interrogazione. L’interrogazione è una forma di valutazione approssimativa, arbitraria, umorale e superficiale. Dà l’impressione di fornire indicazioni inequivocabili, ma in realtà è troppo appannata da tanti elementi contingenti per fornire indicazioni utili, quali l’alea delle domande sempre diverse, l’umore del docente, il peso delle altre materie del giorno nello studio della sera prima.

Con un compito in classe laboratoriale il problema si supera di slancio, laddove per esercitare la produzione orale si possono trovare molte alternative all’interrogazione. Con un ulteriore vantaggio finale: se il lavoro del compito è un momento non solo di valutazione, ma anche di crescita, il suo risultato – l’elaborato stesso – può diventare qualcosa di più di un papiello che una volta consegnato svanisce nel cassetto del docente, bensì un testo da restituire ai ragazzi, da correggere e rivedere, in modo che torni utile più avanti. I ragazzi hanno bisogno di rileggersi, possibilmente a distanza di qualche giorno, per potersi autovalutare. Questa tipologia di compito permette di fare anche questo, se si vuole.

 Ovviamente questo, ed altri aspetti che “sconfinano” dalle ore di scrittura stricto sensu non possono essere trasferiti all’Esame di Stato. Ma la soluzione qui può essere molto semplice, di sicura efficacia e molto utile per la scuola italiana: abolire l’Esame di Stato, e dimenticarsene per sempre.

[Immagine: Giuseppe Bartolini, 25 aprile 1975, particolare]

 

 

3 thoughts on “Ripensare il compito di italiano

  1. Se l’articolo, come credo, riguarda i maturandi, sposo in toto la tesi (con l’eccezione riguardo alla fideistica asserzione secondo cui ci si ricorderebbero persino dopo anni le domande degli esami, la mia esperienza e quella di tanti adulti che conosco mi indica piuttosto il contrario).

    Qualcosa potrei aggiungere anche sugli studenti delle scuole secondarie inferiori. Limitatamente alla mia personale esperienza di docente. La “grande paura” dei docenti è che in caso di materiale preparatorio lavorino solo Wikipedia e la stampante. Credo di aver ovviato al problema in modo relativamente soddisfacente (ma vieppiù migliorabile) proponendo ai miei alunni non di “reperire informazioni su…” ma di rispondere solamente a alcune domande specifiche.

    per esempio: “Che fine hanno fatto gli imputati del caso Vajont?”
    o “La diga è stata il problema principale, nel disastro o si è trattato di altro?”
    “La diga era importante dal punto di vista tecnico o tecnologico? Perché? Con quali numeri/dati potreste affermarlo?”

    Domandare informazioni specifiche obbliga gli studenti a consultare realmente ogni materiale preparatorio, che giunga dal web o da qualche tradizionale pubblicazione cartacea, con obbligo di citare la fonte. Quando posso, almeno due volte all’anno, faccio preparare in classe e a casa un po’ di materiale grezzo – appunti, sempre revisionati in precedenza – e lo faccio tranquillamente consultare durante le prove.

  2. @Furio Detti

    Anche il suo è un buon modo. Io in genere indico la pagina web (spesso di Wikipedia) e chiedo di riassumerla. Anche perché in tante ricerche, c’è poco da fare grandi collazioni di fonti diverse…ma io in effetti lavoro alle superiori e mi rendo conto che il suo metodo è più adatto agli studenti della secondaria inferiore.

    Per il “testing effect” c’è della letteratura in merito. Cmq io alla maturità (1997) ho parlato di Verga, poi della Medea di Euripide e ho sbagliato l’aoristo di τίκτω. Poi ho parlato della per Eufileto. Al primo esame di letteratura italiana ho parlato di Boccaccio, al primo di greco delle macchine in uso nel teatro greco…e così via.

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