di Daniela Brogi

«Un autoritratto scritto dal punto di vista dell’autore rischia di essere un po’ tendenzioso. Ma scritto dal punto di vista di qualcun altro sarebbe probabilmente così diminutivo che non m’interesserebbe più spedirlo. Non ho idea di come fare per descrivere me stessa, ma forse setacciando con cura posso produrre qualcosa di abbastanza preciso»[1]. È il 1951, e queste sono le prime righe dell’autoritratto in forma di essay con cui Jacqueline Bouvier vinse il Prix de Paris organizzato da “Vogue” – qualche anno più tardi avrebbe ricevuto il medesimo riconoscimento, avviando la propria carriera di scrittrice, anche Joan Didion. All’epoca Jacqueline ha ventidue anni, sarebbe diventata la Signora Kennedy nel 1953, e First Lady nel 1961, il venti gennaio, fino al 22 novembre 1963, quando il marito, il trentacinquesimo Presidente degli Stati Uniti, venne ucciso a Dallas. Quello che impressiona, già nelle prime righe come nell’intero testo premiato da “Vogue”, è la costruzione di una voce tutta concentrata sul controllo della propria immagine: chi scrive sente il bisogno di dichiarare come prima cosa di sé la scelta di non lasciare ad altri “punti di vista” – anche qui un dettaglio significativo – il potere di dire chi è («I would not care to send it in»).

È con questa determinazione a stare al centro, in uno spazio simbolico autodiretto, che dialoga il film di Larraín Jackie, perché, anche se stavolta il regista ha accettato di dirigere una sceneggiatura già scritta da Noah Oppenheim, il modo in cui se ne è impossessato prosegue con coerenza creativa un filo svolto già nei lavori precedenti. Anche in Post Mortem (2010), o in No – I giorni dell’Arcobaleno (2012), o in Neruda (2016), per limitarsi a questi soli esempi, appariva, infatti, un motivo che in Jackie non solo ritorna ma diventa il tema fondante, e che consiste nella scelta di occuparsi di un grande momento storico mettendo in scena non tanto i fatti, ma la maniera in cui quegli eventi sono passati alla storia occupando l’immaginario mediatico.

Jackie, infatti, non è – bisogna dirlo subito – un film sui quattro giorni successivi all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, bensì un film sulla creazione della leggenda di quell’evento:

Al centro di questo sistema mitopoietico domina la figura di Jackeline Kennedy, trasformatasi essa stessa in un’icona, anche grazie alla decisione di non stare semplicemente nei panni della vedova, ma, al contrario, di decidere come e cosa sarebbe stato ricordato dell’assassinio di John. Tant’è vero, sono fatti realmente accaduti, che una settimana circa dopo il funerale Jackie chiamò personalmente Theodore H. White, il reporter di “Life”, futuro premio Pulitzer, che nel 1960 aveva pubblicato il libro The Making of a President, favorevole ai Kennedy, per proporgli un’intervista attraverso la quale impedire che la memoria di suo marito rimanesse nelle mani degli storici. Il film di Larraín parte proprio da qui: da Jackie che, nella casa di Hyannis Port, a Cape Cod, apre la porta al giornalista e, senza un saluto, cattura il nostro sguardo e ci fa entrare nelle proprie stanze dicendo: «è passata soltanto una settimana e lo stanno trattando come un vecchio reperto da buttare. Non è così che va ricordato». Secondo le volontà della padrona di casa, l’articolo (che si può leggere qui) fu scritto elaborando dodici pagine di appunti, e fu dettato al telefono dalla cucina dell’abitazione di Jackie, per evitare la pubblicazione di parole sfuggite al suo consenso:

Tutto, insomma, entrò a far parte di un grandioso progetto di autocontrollo («non pensi nemmeno per un attimo che glielo faccia pubblicare. E io non fumo, dice Jackie, accendendosi una sigaretta, un secondo dopo esser scoppiata a piangere); e di reinvenzione dell’evento, che in un certo senso non fu, né sarebbe stato più l’attentato e la morte, ma diventò la risistemazione di quella perdita in uno spettacolo immortale. Diversamente da altri film e serie tv che già avevano raccontato quel momento, l’opera di Larraín è, in un certo senso, anche un film sulla fine del racconto classico della storia. È un’opera su come Jackeline seppe capire, come già poteva intuire il lettore della sua prosa del 1951, che il punto di vista, la messa in immagine gioca un ruolo fondamentale per tramandare la memoria della contemporaneità: «devono vedere che cosa hanno fatto», risponde Natalie Portman, in un’interpretazione straordinaria, rivolgendosi a chi le suggerisce di cambiare l’abito insanguinato prima di scendere dall’aereo presidenziale:

L’organizzazione della processione a piedi immediatamente dietro al feretro, la volontà di tenere i bambini accanto a sé, la parata dei cavalli, a imitazione del funerale di Lincoln, le immagini della moltitudine commossa trasmesse in diretta, la scelta precisa del luogo della sepoltura: tutto è previsto, come in un grande racconto, per passare alla storia manovrando i canali mediatici – solo un ulteriore dettaglio: proviamo a pensare che effetto deve aver fatto quel cappottino azzurro di “John-John” sulle pagine a colori di “Life”, dopo che milioni di persone avevano consumato quella scena in bianco e nero, alla tv:

Al contrario di quanto dichiarava il titolo (For President Kennedy: An Epilogue), l’articolo di “Life”, uscito il 6 dicembre 1963, sancì semmai, grazie al finale in cui Jackie ricorda che ogni sera, con il marito, ascoltavano una canzone, l’inizio della riconversione definitiva di Kennedy in un mito: il mito di Camelot, la fortezza di Re Artù, messo in scena a Broadway dal 1960 – si trattava di un musical scritto da Alan Jay Lerner e musicato da Frederick Loewe (insieme avevano composto anche My Fair Lady), che dopo l’uscita del pezzo su Life divenne una celebrazione in musica dei Kennedy.

Non lasciare che dimentichino mai che per un breve, luminoso momento, è esistita una Camelot: i Kennedy non hanno una biografia: la loro biografia è l’insieme dei miti su di loro creati soprattutto attraverso Jackie, e il film di Larraín vuole rappresentare anzitutto questo: tutto va in tale direzione. Si potrà non essere stati interessati, finora, a Jackie Kennedy, o a Natalie Portman; ma l’incontro tra di loro costruito dal film crea una figura indimenticabile: per le qualità dell’interpretazione come per la forza simbolica.
Il tempo del racconto cinematografico ritrasforma il tempo della storia nel tempo sospeso, quasi immobile, della finzione. Attraverso il montaggio alternato, il film costruisce una specie di radiografia drammatica della formazione di un mito, nel senso che per tutta la sua durata Jackie produce un dialogo tra immagine duplicate, finzioni che sono il riflesso fantasmatico dei fatti, organizzando il racconto in cinque piani narrativi principali che si combinano continuamente, incrociando e confondendo le soglie tra narrazione e testimonianza, fino all’ultima sequenza dell’uscita di scena di Jackie. Al primo livello, quello dell’intervista, che funziona anche da cornice (1), si alterna infatti il piano di racconto della memoria personale dell’attentato e dei giorni successivi (2); quello della memoria televisiva del mito kennediano (3), attraverso la duplicazione – realizzata con una macchina da presa degli anni Settanta – del film realmente girato A Tour of the White House with Ms Kennedy (1962) e che fu la prima occasione di buttare l’occhio dentro la Casa Bianca(qui un raffronto, impressionante, tra le scene originali e quelle rifatte); e, ancora, il piano narrativo dei flashback dell’idillio della vita a corte (4); del dialogo-confessione con il prete, che, come si scoprirà verso il finale, sta celebrando il rito per dare nuovamente sepoltura ai due figli morti di Jackie (5). Mentre il finale, con Jackie che lascia la Casa Bianca e esce di scena, aggiunge un sesto possibile piano di racconto, che ripensa, in parte, tutta la vicenda, mostrandoci la solitudine del personaggio: quella già affiorata, in maniera interstiziale, tra una finzione e all’altra, in certe occasioni di inquadratura più ravvicinata al suo volto, in momenti rapidi e nervosi di pausa che vivono sotto la rappresentazione della messa in scena, durante alcuni attimi di scambio con il giornalista, o con la sua assistente, o con il prete: «- trovi conforto in quei ricordi! – || – non posso, sono mischiati a tutti gli altri – », risponde Jackie, lasciando parlare per un istante il trauma (accennato anche nella traccia della perdita di due bambini), e facendoci vedere, così, la spaccatura inconciliata dentro il suo mondo di perfezioni. «Sei pronta?» le chiede il marito, nell’unico istante del film in cui le parla, quando stanno per scendere dall’aereo, a Dallas. «Certo: amo le folle». Jackie ha bisogno, continuamente, di riflettersi in specchi, ma tra lei e gli altri rimane sempre, è il suo punto di forza e di alienazione, un vetro più o meno reale:

Rispetto a questo delirio di onnipotenza, e di sofferenza assoluta di un mito sconfinato di ammirazione di sé pagato con la solitudine, il motivo degli abiti indossati da Jackie, l’abito rosso del film del 1962 ripreso anche per la locandina del film; il tailleur rosa insanguinato; i moltissimi abiti che di notte, per consumare la sofferenza, indossa, mentre scappa nervosamente da una stanza all’altra della Casa Bianca, non sono soltanto elementi scenografici – e del resto non lo sono mai – ma diventano, sono trattati, in Jackie, come i correlativi simbolici della sua ansia di tenersi cucito addosso un destino:

L’abito consente di esistere indossando una finzione; aiuta, per un verso, a stare dentro l’illusione, e per l’altro a aggrapparsi al reale, componendo uno scenario di senso («Non ho mai niente di mio, che posso tenere»). Questo è l’immaginario che spiega i momenti finali del film, bellissimi, quando Jackie, passando in macchina, vede le vetrine con i manichini pieni di tailleur come il suo. Non era, dunque, solo vanità di una moglie, perché il suo progetto di fondare il potere dei Kennedy su un’estetica della parvenza è riuscito: talmente bene e talmente tanto che, fuori dalla finzione cinematografica, a quanto si legge, da mezzo secolo i Kennedy hanno chiuso il tailleur rosa insanguinato in un caveau a clima controllato, con il divieto di non mostrarlo a nessuno, almeno per altri cento anni.


[1] «A self portrait written from the author’s viewpoint is liable to be a little biased. Written from the viewpoint of others it would probably be so derogatory that I would not care to send it in. I have no idea how to go about describing myself but perhaps with much sifting of wheat from chaff I can produce something fairly accurate»: https://www.jfklibrary.org/Asset-Viewer/Archives/JBKOVOGUE.aspx?f=1

[Immagine: Natalie Portman in Jackie di Pablo Larraín (db)]

14 thoughts on “Tutti gli abiti della regina. Jackie (Pablo Larraín, 2016)

  1. DddmA: “ Venerdì 20 novembre 1998 – Del brevissimo viaggio a Siena noto solo che: 1 forse per la prima volta nel corso di una mia per quanto brevissima apparizione non ho incontrato nemmeno una faccia conosciuta – una credevo di averla vista, ma poi – era il professor Paciotti – mi sono ricordato che è morto 2 le commesse del Nannini indossano una nuova divisa sulla quale sta scritto: « Cor magis » – sottinteso, per i senesi, « tibi Saena pandit » – per tutti gli altri non lo so – per i romani (che non sanno il latino) magari è un insulto 3 ho avuto l’ennesima conferma che Cinecittà non è soltanto a Roma, ma in ogni luogo, quando ho incontrato sulla strada di casa, subito dopo avere visto quello che non era il professor Paciotti, una faccia conosciuta – sì, una faccia conosciuta l’ho vista -, quella dell’attore Marco Messeri, quello che fa il prete in un uno spot di contenuto alimentare e di ambientazione toscana 4 ho pensato che forse è vero che la natura imita l’arte, cioè, nella fattispecie, che Siena imita Bertolucci: ieri sera avevo rivisto qualche scena del suo film ambientato fra le colline senesi: stamani – era una stupenda giornata tersa e freddissima – mi è apparsa come in quel film: splendidamente fotogenica, frigidamente insipida. “.

  2. Troppo lunghi, decisamente troppo lunghi i vostri articoli. Sempre brava Daniela Brogi
    Ma quasi pedante nel non voler trascurare nulla

  3. Molto interessante. Acuta analisi della creazione di un mito. Il film mi aveva innervosito, Avevo bisogno di questa lettura

  4. “ Lunedì 28 dicembre 1998 – Leggo Baudrillard: « Durante le riprese di un film porno, una delle ragazze subisce, con volto impassibile, tutti i vari atti – bionda, ha un nastro di velluto nero attorno al collo. La sua indifferenza totale è affascinante [Ottobre 1980] » (Cool memories, cit.). Ma quello che colpisce me non è l’« indifferenza », bensì il « nastro di velluto nero attorno al collo ». Non riesco a non pensare all’Olympia di Manet. Penso anche: che cos’altro può significare quel nastro se non la separazione della testa dal resto del corpo? Che quella ragazza nuda è una donna « separata », cioè « dimezzata », cioè « divisa »? « Nel senso che è una “ divisa “ – la nudità è una divisa -? » Ecco, bravo, meravigliosamente bravo. “. [*]
    [*] Volevo anche dire che a me l’articolo di Daniela Brogi non è sembrato per niente lungo. Nel senso che avrei continuato molto volentieri a leggerlo etc.

  5. La lettura di Daniela Brogi è, come sempre, molto buona, anzi eccellente. Mi permetto di esprimere quello che ho pensato guardando il film, e che mi sembra totalmente rimosso (parola abusata, lo so) nella narrazione.
    Jacqueline Kennedy era una donna tradita dal marito. Tradimenti seriali. Della bulimia sessuale di J F K si legge ovunque: aveva relazioni (per così dire) clandestine con decine di donne, da grandissime attrici alle sue due segretarie. Jacqueline era una donna infelice, intrappolata in una gabbia d’oro. Lei che veniva da una grande famiglia andata in pezzi (i genitori avevano divorziato) ma che ogni fortuna le aveva dato, lei che si era laureata in belle arti in una prestigiosa università… John lo avrà di sicuro amato e insieme si sarà augurata il suo MALE: come è facile succeda a una moglie che subisce la tortura del tradimento. Quello che fa dopo la morte del marito è, sì, costruzione del mito ecc., ma è soprattutto, secondo il mio punto di vista, puro risarcimento, vendetta in grande stile: ora ci sono solo io e io sono e sono stata la Moglie (“a volte si perdeva nel deserto, ma tornava sempre dalla sua famiglia”: ovvio!). Il film mi pare invece che dipinga l’oleografia della vedova devota, innamorata e inconsolabile. Inaccettabile. Nell’intervista al giornalista di Life e in tutti i gesti che compie post mortem si sta semplicemente riappropriando di quel che era suo: il potere di una moglie. Ma chiedo scusa se il mio è un delirio (nel senso etimologico della parola).

  6. @Carla Ammannati
    sì, sono molto d’accordo.
    Dopo aver visto “Jackie”la prima volta, a Venezia, nel settembre scorso, mi sono letta un paio di biografie e effettivamente, proprio come dice lei, i tradimenti più noti non sono nemmeno campioni ma frange scolorite di un tessuto davvero violento, a quanto pare.
    D’altra parte, quando mi occupo di narrazioni, cerco se possibile di capire qualcosa di più delle biografie reali che le hanno originate – e forse ha ragione un po’ Francesca, nel commento qui sopra, quando scrive che mi dilungo, a volte troppo (terrò presente la critica); ma le biografie vanno però anche separate dalle biografie fittizie. I personaggi delle storie hanno diritto a essere guardati come protagonisti di invenzioni che sono inesistenti, in un certo senso, fino al momento dell’atto creativo. Dunque rispetto alla Jackie storica credo che la lettura di Ammannati sia plausibile e interessante; rispetto al personaggio di Larrain il discorso si complica, quella lettura diventa più opaca, forse non tiene del tutto; perché è vero che, nel dialogo con il prete, Jackie ci lascia intravedere un rimosso in cui si impastano tradimenti ma pure la rabbia di una moglie sempre lasciata sola (anche la notte precedente l’attentato, come si dice), però quello spunto è uno spiraglio, una nota stonata che rende così interessante la trama del film, a mio avviso, ma non ne è la chiave dominante. Grazie ancora.

    e grazie pure a A. Barra, per l’affetto.

  7. JFK era un erotomane patologico, come la maggior parte dei ‘grandi’ uomini politici… La collezione infinita di donne, il suo unico ‘talento’. Molti dubbi invece sui reali meriti (pochissimi) della sua presidenza… Peccato sia morto così presto, ci avrebbe risparmiato la lettura di tanti inutili libri sulle sue presunte prodezze (non intendo quelle sessuali). Il Novecento è una macabra sfilata di uomini mediocri in politica (salvo qualche eccezione statistica, ovviamente) mitizzati dai libri di storia e da troppa spazzatura letteraria. Dichiaro subito di non avere visto il film e, francamente, non so se lo farò. Tuttavia, dal suo brillante intervento deduco, forse un po’ frettolosamente, che sia una sublime confezione di vari stereotipi culturali sul personaggio femminile. All’epoca dei fatti, Jackie poteva davvero vantare tutta quella consapevolezza di costruire, con acribia formale invidiabile per una che aveva appena perso l’amato coniuge, il mito di un grande presidente? ossia di essere nient’altro che una infernale macchina mitopoietica? Purtroppo, anche l’arte continua a non saper raccontare le storie delle donne (vere o fittizie, che importa?), a non avere una grammatica credibile né una sintassi altrettanto solida, perché non si è mai interrogata seriamente sul desiderio femminile, fregnacce freudiane e lacaniane a parte: “Che cosa desidera la donna?” – e che cosa rispondono quei due illustri nevrotici? che il desiderio è un privilegio del maschio. E allora, o “vedova devota e inconsolabile” o stronza cinica e perversa o madre per sempre o indecisa a vita… E vissero tutti felici e contenti. Amen. Quando si parla di donne è (quasi) sempre una “estetica della parvenza”… Uno dei pochi film più sobri e innovativi stilisticamente degli ultimi anni con protagoniste femminili, che non mi hanno scatenato l’orticaria, è stato Carol di Todd Haynes. Ma il discorso sarebbe lungo e complesso. Lei ha scritto qualcosa al riguardo?
    Ah, volesse il cielo che le donne fossero più consapevoli! non avremmo bisogno del femminismo! e, soprattutto, non ci toccherebbe sopportare gli ultraconservatori come Recalcati!

  8. No no Vittoria Colonna, il mio consiglio è di vedere il film – perché è la condizione per parlarne; ma pure perché sul personaggio di Jackie non si tracciano solo degli stereotipi femminili, come vedrà. Sono certa, anche da quello che ha scritto, che le sue considerazioni generali possano trovare nuove occasioni di ripensamento nell’opera di Larrain.
    Ho scritto di “Carol” qui: http://www.leparoleelecose.it/?p=21612

  9. In spagnolo esistono gli accenti, e sono molto importanti: dimenticarli sistematicamente scredita la serietà di questo sito letterario e dei suoi collaboratori.
    La prima versione dell’articolo di Daniela Brogi non li riportava, ma è stata provvidenzialmente corretta. Nei commenti si persevera.
    Potreste fare attenzione, grazie?

  10. Un articolo interessante che da spunti per pensare, ma un’acuta osservazione anche quella della signora Carla Ammannati.
    Probabilmente l’esposizione pubblica crea dei vissuti differenti dal reale e Jackie con le sue scelte ha sempre cautamente ed educatamente dato rilievo al suo personaggio pubblico, che in momenti drammatici della sua vita è stata anche l’ancora della sua salvezza.
    Ringrazio per la buona lettura.

  11. Grazie della risposta. Seguirò il suo consiglio e andrò a vedere il film. Ma questo non inficia tutto quello che ho scritto sopra, perché ho affermato anche altre cose. Le mie considerazioni (giuste o sbagliate) scaturivano dalla lettura della sua articolata e lunga analisi del film… E’ il suo post a produrre una discussione virtuale e altre interpretazioni, e non il film, o no? La mia domanda su Jackie “macchina mitopoietica” era rivolta a Lei e non a Larraín! Se la conditio sine qua non per intervenire ed essere presi sul serio in questo blog è vedere il film – e magari farsi pure quattro chiacchiere con il regista, beh allora…
    P.S. Quando sono intervenuta in altri blog, nessuno mi ha mai fatto notare (un esempio sciocco) “Devi avere la laurea in matematica con dottorato a Princeton per dire che i numeri non esistono!”, se il post azzardava certe asserzioni sullo statuto di realtà dei numeri, appunto. Buona visione.

  12. “I personaggi delle storie hanno diritto a essere guardati come protagonisti di invenzioni che sono inesistenti, in un certo senso, fino al momento dell’atto creativo”. Vale davvero anche per i personaggi di storie che riprendono eventi accaduti nella vita quotidiana? E cioè di storie che esistevano da prima dell’atto creativo (per cui l’atto creativo non è una invenzione ma una *ricostruzione*)? Intervenire con l’arbitrio del narratore su una figura storica non è un atto mistificatorio? N.B. So benissimo che lo storico può utilizzare anche abilità da narratore, ma so pure che lo fa in maniera ben diversa rispetto ad un romanziere vero e proprio

  13. Jacopo: sì, chi narra, chi reinventa, è un bugiardo, una bugiarda, autorizzato a fare tutto quello che vuole, almeno dal punto di vista dell’attenzione con cui le storie hanno diritto di essere guardate. Questa affermazione ci serve e funziona non tanto a ricostruire la morale delle storie o il loro grado di verisimiglianza, costruendo su questo una discriminante di valore; ci serve a studiare, a capire l’energia dei personaggi e dei mondi di invenzione a cui appartengono, a riconoscere loro il diritto di esistere. Ciò detto, una storia – intesa come storia di invenzione – poi può anche non funzionare, naturalmente. ciò che conta, che può aiutarci molto a costruire anche un’empatia con le narrazioni, è la disponibilità a credere alle loro forme, senza pregiudizi.

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